Mamma cattolica papà musulmano, il figlio diventa sacerdote- L’articolo vincitore del Premio Giusppe De Carli
Ecco la storia che ha vinto il premio dell’ Associazione Giuseppe De Carli- “Alla giovane proposta Elisa Bertoli” , un articolo pubblicato da Korazym la scorsa estate. Ve lo riproponiamo congratulandoci con la nostra giovane collega.
“Un paio di mesi prima della mia ordinazione sacerdotale ho incontrato l’imam di Milano, Pallavicini, che si è complimentato e mi ha assicurato che avrebbe pregato per me”. A raccontarlo è don Nur El Din Nassar, trentaduenne sacerdote della Diocesi di Novara da quasi tre mesi, primo presbitero ordinato dal nuovo vescovo gaudenziano, mons. Franco Giulio Brambilla.
Come immagine del profilo Facebook il volto di Cristo tratto da un celebre film, sullo sfondo il nome “Jesus” scritto su un muro con le bombolette spray a caratteri cubitali. Sì perché “Gesù ti ribalta la vita”. Una storia – la sua – nella quale dialogano serenamente Islam e Cristianesimo. Un volto di speranza per il dialogo interreligioso, che – come ricorda lui stesso – “passa più attraverso le famiglie che la testa dei teologi”. Già, questo don Nur lo sa bene, poiché i primi a “condividere un Dio in mezzo a loro” nonostante le differenze religiose sono proprio i suoi genitori: sua mamma, cattolica, e suo papà, musulmano.
Qual è secondo te il “segreto” del matrimonio dei tuoi genitori?
La maggior parte dei matrimoni misti ovviamente finisce male perché c’è una sproporzione su un tema fondamentale per la persona che è quello della fede: dove c’è da una parte un’identità forte e dall’altra un’identità debole, la parte debole – che di solito è quella cattolica – soccombe. I miei invece hanno sempre avuto un’identità molto forte entrambi. Non solo sono praticanti, ma entrambi sono anche impegnati in un approfondimento costante della propria fede, nello studio fedele nella preghiera. Due identità forti possono dialogare perché hanno cose da dirsi e altre cose diverse sulle quali non sono concordi, ma condividono un Dio in mezzo a loro, e questo porta alla possibilità di un progetto d’amore comune.
Come hanno gestito la tua educazione religiosa?
Non hanno mai insistito tanto sul volermi indottrinare, ma sono sempre stati entrambi molto presenti e forti nella testimonianza, nel dire la loro fede con la vita, col vissuto quotidiano. Ho sempre visto ogni giorno mio papà fedele nella preghiera quanto mia mamma. Poi ciascuno ha lasciato spazio all’altro. Forse mia mamma è stata un po’ favorita, poiché mio papà negli anni ’80 non aveva tante possibilità di portarmi in moschea, mentre invece mia mamma ha potuto mandarmi in oratorio… di fatto ho seguito comunque due percorsi paralleli perché ho ugualmente respirato l’Islam nella testimonianza quotidiana di mio padre, che mi ha fatto conoscere il Corano. Il percorso cristiano è stato invece quello classico: ho frequentato il catechismo, senza tuttavia rimanerne toccato. Ci andavo, “sopportavo” come gli altri ragazzi… In seguito ho continuato a frequentare l’oratorio, ma più per amicizia, per compagnia: ciò che lascia lo si scopre solo più avanti.
Come e perché hai poi scelto con decisione il cristianesimo?
E’ stato un cammino. In estrema sintesi, il passaggio dal sapere delle cose sulla religione, su Dio e su Gesù, al fare esperienza di lui: un incontro con una persona. E’ stato un passaggio da un codice di norme, da un insieme di cose che si devono fare e cose che è bene non fare, all’incontro con un Dio che condivide la tua esperienza e ti dà fiducia, un “Dio con te” che ti dona tutto il suo amore e non ti dice “tu devi o non devi”, bensì “tu puoi, io credo in te, sei prezioso ai miei occhi al punto che ho pagato il prezzo di mio figlio per te”. Ha condiviso la nostra umanità fino in fondo, e questo è sconvolgente.
Nel 1997, attraverso un’amica, ho conosciuto don Valentino Salvoldi, un missionario rientrato dall’Africa da alcuni anni, persona molto affascinante: sapeva parlare ai giovani, era brillante, simpatico, molto radicale e forte. Ho cominciato a seguirlo per l’Italia perché ne ero affascinato, poi ho iniziato con lui un cammino di fede autentico, con tanti incontri di preghiera. Don Valentino mi ha proposto prima di tutto l’incontro con una persona, poi un cammino radicale – ma anche molto concreto – di fedeltà nella preghiera, nella Parola e nella vita sacramentale. Non avevo ancora ricevuto alcun sacramento, ma partecipavo comunque alla messa.
Dopo alcuni anni infine don Valentino mi ha fatto capire esplicitamente che come cristiano era arrivato il momento di compiere una scelta. Mi ha invitato quindi ad andare dal mio parroco e chiedergli di guidarmi in un cammino nella mia comunità – poiché è nella quotidianità che si gioca il cristianesimo – e così ho fatto. Ho ricevuto i sacramenti il 30 marzo 2002, la notte di Pasqua.
Quando hai sentito nascere dentro di te la vocazione al sacerdozio?
Fino al 2004 non ho mai pensato di diventare sacerdote. Il mio cammino era già stato abbastanza vertiginoso: mi ero messo in gioco in diversi ambiti – e ne ero contentissimo – cominciando a collaborare con un sacerdote nell’ambito della pastorale giovanile. Poi il 28 dicembre 2004 mi trovavo, durante un campo scuola, con un gruppo di ragazzi attorno al Vangelo di Giovanni, ed ero così pieno di gioia che mi è nata la domanda dentro: forse la ma vita doveva essere questa, dire la bellezza di ciò che il Signore aveva compiuto nella mia vita e raccontarlo agli altri.
Quindi è cominciato qualche mese di discernimento, per capire se quella fosse stata la cotta del momento oppure fosse vero amore. Poi nel 2005 la Gmg a Colonia e un’esperienza in Albania con le Sorelle Francescane del Vangelo al termine della quale, tornato a casa, ho detto a mia mamma che dopo un mese sarei entrato in seminario. Ci ha creduto solo il mio capo al lavoro: gli altri – sia lei, sia gli amici, sia i preti – pensavano li stessi prendendo in giro, anche perché avevo avuto un’adolescenza un po’ fuori da questi binari. Ma poi, quando lo incontri, Gesù ti ribalta la vita.
Qual è stata la reazione di tuo padre alla notizia?
Mio papà si è subito risentito. Gli è spiaciuto tantissimo: è stato come ingoiare un macigno e doverlo digerire. Forse lo sta ancora digerendo adesso. Attualmente c’è un bel dialogo, ma il primo anno non voleva vedermi né parlarmi. Lo capisco, ha sofferto per amore.
Quando sono entrato in seminario ha ancor più intensificato la preghiera e l’approfondimento. Da un anno e mezzo ha poi fondato una piccola comunità islamica a Domodossola, la mia cittadina. C’è molto dialogo, si stanno costruendo dei bei ponti: non a livello di grandi teologi, ma tra persone comuni. Allo stesso modo, il dialogo interreligioso passa maggiormente attraverso le famiglie piuttosto che la testa dei teologi.
Come secondo te sarà possibile il dialogo con l’Islam?
Il dialogo deve passare soprattutto attraverso le differenze perché quando si dice “siamo tutti uguali, abbiamo tutto in comune” il dialogo è chiuso, mentre invece è nella diversità che rimane aperto. Dal punto di vista sociale invece parlerei di interazione piuttosto che di integrazione, così come sostiene l’imam di Padova. L’interazione non presuppone infatti soltanto il desiderio di essere riconosciuti come minoranze, bensì anche il dovere di inserirsi nella società con le stesse responsabilità, i diritti e i doveri degli altri cittadini.
C’è qualcosa dell’Islam che custodisci ancora oggi?
L’obbedienza, virtù che noi abbiamo perso o spesso inteso in modo distorto. Obbedienza come ascolto, affidamento, fiducia e abbandono a Dio. E poi sicuramente la preghiera forte e fedele che attraversa tutta la giornata: a livello geopolitico ci possono essere mille divisioni all’interno del mondo islamico, ma quando pregano sembrano un unico corpo. Credo che la forza più grande dell’Islam stia proprio nell’unità della preghiera.