28 luglio 1993, l’attentato a San Giovanni in Laterano e San Giorgio al Velabro a Roma

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Il progetto criminale, che Cosa Nostra ha portato avanti nel corso del 1993, si è sostanziato nell’attentato dinamitardo in via Ruggero Fauro a Roma il 14 maggio, nella strage in via dei Georgofili a Firenze il 27 maggio, nella strage in via Palestro a Milano il 27 luglio, negli attentati contro la basilica di San Giovanni in Laterano e il palazzo del Vicariato e contro la chiesa di San Giorgio al Velabro a Roma il 28 luglio. Questi cinque gravissimi episodi si vanno direttamente a collegare con un’altra stagione di stragi, che aveva insanguinato l’anno prima la Sicilia, quando avevano perduto la vita, tra gli altri, i giudici palermitani Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, il primo nella strage di Capaci del 23 maggio 1992, il secondo nella strage di via D’Amelio il 19 luglio successivo.

Oggi, 28 luglio ricordiamo i fatti del 1993 e in particolare l’attentato contro «la Cattedrale di Roma, la Chiesa titolare del Papa, gli uffici della sua Diocesi, la residenza del Cardinale Vicario, la stessa Santa Sede, in un territorio legato alla sua sovranità», come scrisse Don Virgilio Levi, Vicedirettore de L’Osservatore Romano, nel editoriale su Roma Sette, che riportiamo, seguito dall’articolo Marco Politi, vaticanista di la Repubblica.

L’attentato a San Giovanni, quella terribile notte del ’93
di Virgilio Levi
Roma Sette, 12 settembre 1993


L’orologio dell’Ufficio Amministrativo del Vicariato di Roma è ancora fermo sulle ore 0:06. è rimasto appeso alla parete, come un occhio pendulo, aperto sullo sfascio totale dei locali. Era il mercoledì 28 luglio u.s., il giorno era appena cominciato da pochi minuti, quando uno scoppio tremendo squarciava la notte romana. Un’auto-bomba, collocata nell’angolo tra il Palazzo Lateranense e la testata del transetto della basilica di San Giovanni, esplodeva, seminando rovina. La Cattedrale di Roma era ferita. I due portici sovrapposti della facciata minore subivano l’impatto dello scoppio, degli intonaci e negli affreschi; divelte o piegate le gigantesche cancellate a piano terra; strappate e proiettate all’interno della Basilica le tre porte d’accesso, con le loro bussole e intelaiature; danneggiato il celebre organo appena restaurato; messe in pericolo le soffittature del transetto. Ancora più ferito il palazzo del Vicariato. Su tutta la facciata sud, finestre divelte e frantumate, uffici e saloni messi a soqquadro, vetrate interne in gran parte distrutte. L’effetto dell’esplosione ha raggiunto il palazzo d’abitazione annesso alla Basilica, il Battistero di San Giovanni in Fonte, la Canonica capitolare, alcuni palazzi annessi all’Università Lateranense, l’Ospedale di San Giovanni.

A pochi minuti di distanza una seconda auto-bomba esplodeva davanti alla facciata della chiesa di San Giorgio al Velabro, portando rovina e distruzione. Al mattino, quando le Autorità e le persone addette hanno potuto affacciarsi alla Piazza di San Giovanni in Laterano ed aggirarsi all’interno degli edifici e poi raggiungere la chiesa e il convento di San Giorgio al Velabro, sì sono trovate di fronte a uno spettacolo di desolazione.
Unico conforto, la certezza che nessuna vittima umana era stata coinvolta nel gravissimo attentato: poche persone erano a tiro delle bombe, così che c’erano soltanto feriti leggeri, anche se qualcuno è rimasto traumatizzato dalla violenza inaudita dello scoppio. Danni materiali dunque ed ingentissimi. Ma non a questo soltanto mirava l’insidia degli attentatori. La scelta accurata dei luoghi indicava una volontà di intimidazione attraverso la rovina di opere d’arte di valore inestimabile, quali sono le più antiche chiese di Roma. Specialmente la scelta del Laterano racchiudeva una più mirata perfidia: colpire la Cattedrale di Roma, la Chiesa titolare del Papa, gli uffici della sua Diocesi, la residenza del Cardinale Vicario, la stessa Santa Sede, in un territorio legato alla sua sovranità. Purtroppo nella stessa notte anche Milano era colpita in via Palestro, con il pesante bilancio di 5 vittime umane.

L’assenza totale di rivendicazioni non consente di puntare il dito in nessuna direzione. Si può dire che si è trattato di un’offesa gratuita, di un male allo stato puro, di un insulto ai valori più preziosi di un popolo quali sono la storia, l’arte, la religione, non si vede a quale scopo. Forse per impedire il processo di rinnovamento sociale dal popolo italiano, quasi che l’intimidazione, destinata a suscitare sgomento, possa piegare la volontà di pulizia e di rinascita che tra mille difficoltà si fa strada in questo Paese.

Il Papa e il Cardinale Vicario Camillo Ruini hanno espresso per tutti con sobrietà la più intensa deplorazione è la commossa Celebrazione Eucaristica svoltasi sul sagrato di San Giovanni la sera di venerdì 30 luglio, presieduta dal Cardinale Vicario, circondato dal clero e dal popolo, è stata la risposta della comunità cattolica di Roma: la preghiera di riparazione per il sacrilegio e l’aggressione, la supplica per il ravvedimento dei colpevoli e per la pace sociale del Paese. La vita del Vicariato è continuata secondo i ritmi consueti, nonostante le gravi difficoltà indotte dalla situazione degli uffici.

La ricostruzione è cominciata subito con ammirevole solerzia, anche se i tempi non saranno brevi. L’aiuto materiale non manca ma è auspicabile che il popolo romano incrementi la sua generosità, nell’aderire alle sottoscrizioni promosse dal Vicariato, dal quotidiano Avvenire e dall’Azione Cattolica.

Alle esplosioni del male i cristiani rispondono con un accresciuta dedizione al bene. Il grave episodio di quest’estate non solo non indebolirà lo slancio venuto alla Diocesi dalla celebrazione e conclusione del Sinodo, ma piuttosto lo accrescerà, rendendo più saldi i vincoli di fraternità e comunione dei fedeli e delle Parrocchie, tra loro e con il Vescovo e i Pastori che collaborano con lui. L’impegno per una nuova evangelizzazione della Città trova, nei fatti del Laterano, una ragione in più: testimoniare con maggiore impegno la parola di Cristo nella vita e nelle iniziative pastorali, affinché il male sia sconfitto dalla vittoria del bene.

Il palazzo del Laterano con tutte le finestre divelte dall’esplosione.

La Via Crucis del Papa tra le macerie
di Marco Politi
la Repubblica, 29 luglio 1993


Auto nera, targa rossa “S.C.V 1″. Sullo spiazzo davanti al loggiato della basilica Oscar Scalfaro, i Ministri Ronchey e Jervolino, il capo della polizia Parisi e un piccolo drappello di vescovi in mozzetta viola attendono Giovanni Paolo II. C’ è anche l’ex Cardinal Vicario, Ugo Poletti, in clergyman nero, i capelli bianchi spettinati e sul petto una gran croce d’oro con una pietra verde incastonata.

Dietro le transenne, accalcati tra le macchine imbottigliate o aggrappati all’ obelisco, turisti e romani scrutano le finestre desolate del Vicariato e lo sciamare inquieto dei servizi di sicurezza. I due grandi vecchi, i padri della Patria e della Religione, si abbracciano a una decina di metri dal cratere della bomba che ha ferito la Madre di tutte le Chiese. Non è un abbraccio vero e proprio. È uno di quei gesti forti di Giovanni Paolo II, che quando è commosso ama afferrare il suo interlocutore per le braccia, con vigore. Pallido ed emozionato il presidente Scalfaro ascolta la voce profonda di Wojtyła: “Ho pregato molto e continuo a pregare tuttora per questa Italia”. Il Papa, abbronzato, cammina un po’ curvo ed entra velocemente insieme al Capo dello Stato nel grande portone d’ingresso del Vicariato.

È il portale massiccio, che ha salvato la vita a Marcello Lombardo, gendarme di Sua Santità. Martedì, poco dopo la mezzanotte, Lombardo aveva finito il suo giro di ronda nell’antico palazzo. Si preparava ad uscire sulla piazza. Stava mettendo la chiave nella toppa della serratura. Con calma, con metodo. La bomba lo ha sorpreso in quel gesto. Si fosse lasciato prendere dalla fretta, sarebbe finito spappolato, investito dall’esplosione dell’ordigno situato pochi metri più in là. Così se l’è cavata con quindici giorni.

Il Papa supera il provvidenziale portone. Gli fa strada il Presidente Scalfaro, che per tutta la visita lo informa sui danni e la meccanica dell’attentato. Dal chiostro Papa e Presidente si dirigono verso la prima infilata di uffici amministrativi. Una desolazione. Mobili e scaffali ridotti in poltiglia. Finestre devastate come occhi senza pupille.

Pratiche ormai inutili scaraventate per terra, mescolate ai detriti. Per una porta interna Scalfaro e Wojtyła entrano nella basilica. Il ciborio gotico di Arnolfo di Cambio, sull’altare centrale, si staglia nella penombra. Intatto. Come un miracolo. Ma tutto intorno è come dopo un bombardamento. L’attentato ha sfracellato il portale, che dà sul piazzale dell’Obelisco. E anche la porta interna di legno massiccio è stata fatta a pezzi dall’onda d’urto. I suoi brandelli sono stati scagliati fin quasi ai limiti del ciborio. Giovanni Paolo II guarda attonito. Ai suoi piedi si stende un fitto tappeto di vetri, calcinacci e frammenti di legno.

I detriti arrivano fino al limite estremo del corpo posteriore della basilica. Il Papa sfiora con lo sguardo un’acquasantiera barocca. Non può vedere che l’acqua benedetta è piena di grumi di vetro. Chi gli è vicino sente che Wojtyła si concentra, si raccoglie in se stesso per meditare nonostante la gente che lo circonda. È un suo vecchio costume questo modo di pregare in silenzio, staccandosi per un attimo da tutto. “Sulla soglia della basilica – mormora Monsignor Ragonesi, Vicegerente del Vicariato – l’ho visto emozionarsi. Si è raccolto, restando immobile”. La visita prosegue tra gli ordini tesi, che poliziotti e gendarmi vaticani si trasmettono sottovoce. Paura e nervosismo sono palpabili. Scalfaro e Wojtyła si affacciano brevemente sull’antisagrestia, dove spiccano cassettiere e armadi di rovere impregnati di cera e d’incenso. L’uragano dell’ordigno è arrivato sin qui. Porte sventrate, macerie nel corridoio. E Scalfaro spiega e chiarisce. Racconta le ultime notizie di Milano e comunica al pontefice che fra le cinque vittime c’è anche un extracomunitario. “In qualche modo, senza saperlo, è morto per la nostra libertà”, commenta il Presidente. Wojtyła annuisce. È stato lo stesso Presidente ad avvertire Giovanni Paolo II dell’attentato con una telefonata di primo mattino. Il Papa lo ringrazia pubblicamente: “Mi ha informato il Signor Presidente”, esclama rivolto al piccolo seguito. In realtà una telefonata d’allarme era arrivata alla residenza papale di Castelgandolfo già dopo la mezzanotte di martedì.

La Segreteria di Stato, avvertita dal Viminale, ha chiamato il Monsignore vietnamita Tran Ngoc Thu, secondo segretario di Wojtyła. Giovanni Paolo II dormiva già profondamente. Qualche stanza più in là il settantacinquenne Thu è stato a rigirarsi per un paio di minuti, incerto se svegliarlo o no. Poi, visto che al Laterano non c’erano stati morti, il “prelato d’ onore” ha deciso di non turbare l’augusto sonno. Ma Karol Wojtyła, misteriosamente, è stato comunque investito dall’ evento. All’una di notte il papa si è svegliato di soprassalto. “Non sapevo perché – racconterà più tardi al parroco di San Giovanni e ai figli del custode della basilica – solo adesso capisco la ragione”. Terminato il rapido sopralluogo in cattedrale, lasciatesi alle spalle le reliquie di Pietro e Paolo, il pontefice giunge al portico, sovrastato dalla celebre Loggia. Scalfaro gli mostra il cratere dell’esplosione, una buca profonda qualche metro, e gli presenta i vigili del fuoco. Ragazzi giovani dal volto simpatico, che stendono la mano verso il pontefice. “Sono persone splendide, li conosco da quando stavo al Viminale”, sottolinea il Presidente, aggiungendo che uno di loro, morto a Milano, avrebbe festeggiato oggi il suo compleanno. Adesso Giovanni Paolo II ci passa accanto vicinissimo. Ha lo sguardo mite e smarrito. Tende la mano anche lui verso i giovani pompieri in divisa kaki e sul suo viso appare un sorriso tra il timido e il dolce. Dietro la pattuglia dei vigili giace il motore della macchina, che nascondeva la bomba, e più in là – ma il papa non lo vede – è ancora parcheggiato con le portiere sfondate uno strano pullmino rosa shocking, con un affresco psichedelico sulla fiancata: un Dragone verde che si getta all’ amplesso su una lady Godiva voluttuosamente rovesciata.

Ultima tappa. Passati sotto gli appartamenti del Cardinal Vicario Ruini, fortunatamente in Francia al momento dell’attentato, perché altrimenti sarebbe stato colpito da una pioggia di vetri in frantumi, Papa e Presidente arrivano al vecchio battistero sul retro della basilica. Le antiche colonne di porfido rosso non sono state scalfite, ma anche lì vetri e infissi sono stati violentemente spaccati. “Ci rivediamo presto al Velabro” è l’affettuoso commiato di entrambi.

Il nuovo incontro avviene pochi minuti dopo l’una. La vista della facciata distrutta della vecchia chiesa alle pendici del Campidoglio è ancora più sconvolgente. Per Wojtyła San Giorgio al Velabro è un tempio particolare. Nel vicino pensionato francescano Wojtyła venne qualche volta da cardinale. Mentre Presidente e Papa sostano davanti alla chiesa, esplode la piccola manifestazione di un gruppo di famiglie di una casa adiacente, danneggiata dall’attentato. Interviene il Capo della polizia Parisi: le famiglie colpite saranno mandate in un albergo a cura del Comune. La visita blitz si conclude, corteo presidenziale e corteo papale si perdono nel traffico romano, cala sulla Capitale l’atmosfera sonnacchiosa del pranzo e il Vaticano torna alla sua routine dietro le mura leonine. Ma dietro la calma ostentata, nonostante l’apparenza di business as usual, la Santa Sede è rimasta profondamente ferita dall’avvenimento.

Il Cardinale venezuelano Castillo Lara, “governatore” della Città del Vaticano, vagava ieri mattina con il volto tirato fra le macerie, che ingombravano il pavimento della basilica di San Giovanni. “Questo attentato – ci ha detto – ha un significato gravissimo per una nazione cattolica”. Prima dell’arrivo del Papa incontriamo il numero 2 del Vicariato, Monsignor Remigio Ragonesi. Il vescovo, avvolto in una grande tonaca da prete di altri tempi, si sfoga amareggiato. “Provo angoscia – confessa – perché si avverte un senso di oltraggio alla cattedrale di Roma”. Monsignor Dionigi Tettamanzi, Segretario della CEI, pensa al domani: “Guai a cedere alla strategia della tensione, adesso c’ è bisogno, invece, di un cammino unitario per il bene del Paese”.

Wojtyła, all’udienza generale, usa parole durissime contro “i vili attentati e i crimini efferati”. Scaglia vergogna su mandanti ed esecutori, prega per le vittime e l’avvenire d’ Italia, benedice “il diletto popolo italiano”. E tuttavia un discorso non basta ad esorcizzare l’inquietudine. A dodici anni dai colpi di pistola di Alì Agca il terrorismo colpisce di nuovo la Chiesa. Da martedì notte le pantere della polizia pattugliano più numerose le mura dei sacri palazzi.

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