La Turchia al bivio

Condividi su...

Sospesa tra le due rive del Bosforo. E già la connotazione geografica dice molto di una Turchia scossa dalle proteste di piazza Taksim. Su una riva la laicità, sull’altra il laicismo. Su una riva la volontà di una democrazia partecipativa, sull’altra il doppio rischio di una deriva laicista o islamista. Sospesa tra autoritarismo e anarchia. Tutto questo è oggi la Turchia. Le proteste turche sembrano essere venute fuori dal nulla. Un giorno c’era un relativamente piccolo numero di dimostranti che protestavano contro la perdita di uno dei pochi spazi verdi rimasti ad Instanbul, il Gezi Park. Il giorno dopo, la folla era cresciuta in maniera esponenziale, e si confrontava con la polizia che rispondeva con tutto il repertorio antisommossa, centinaia di persone erano state detenute e un certo disappunto era cresciuto in tutta la Turchia.

Il primo ministro turco, Recep Tayyip Erdogan, è apparso più volte in televisione. Nervoso, ha accusato i social media e quanti avevano creato la crisi. Ma poi è comunque partito per un viaggio già organizzato verso il Nord Africa.

La protesta di piazza Taksim ha dell’incomprensibile persino per i molti intellettuali turchi di frontiera, islamici da tempo impegnati in un dialogo con l’Occidente. Loro si sentono in qualche modo in pericolo, e preferiscono non parlare ufficialmente. Tutte le fonti, però, concordano che i disordini in Turchia sono “strani”. Ma allo stesso tempo tutte notano che dietro il casus belli – la manifestazione a Gezi Park per evitare l’abbattimento degli alberi per far posto ad un centro commerciale – c’è sicuramente quel senso di bilico che da sempre strisci all’interno della società turca.

In questo momento, si può soprattutto dire cosa non sono le proteste in Turchia, piuttosto che comprendere cosa sono. Prima di tutto, piazza Taksim non rappresenta l’ultimo rigurgito della Primavera Araba. Ne mancano le premesse, la storia della Turchia è completamente differente. È una democrazia, ha una buona crescita economica, sta facendo (molto lentamente) i suoi passi per rispondere a tutti i requisiti necessari per entrare nell’Unione Europea. C’è molto poco della rabbia sociale che ha acceso la miccia della primavera araba in Tunisia, o di quella che ha cominciato le proteste di piazza Tahrir al Cairo.

Secondo alcuni, le proteste non riguardano nemmeno un conflitto tra la natura secolare e la natura islamica della Turchia. Perché non basta a definirle tali il fatto che alcuni protestanti abbiano posato con delle bottiglie di birra nelle mani per protestare contro le leggi che avevano ristretto la vendita di alcolici o il fatto che le donne siano scese in strada quasi sempre in abiti occidentali e senza velo. Ed è vero anche che alcune proteste si sono concentrate intorno al mausoleo di Ataturk, dove Erdogan ha detto di voler costruire una nuova moschea. Eppure, non sembra essere questo il punto della protesta.

Soprattutto, le proteste non sono una conseguenza della guerra civile in Siria. Vero che i rifugiati hanno causato una certa tensione sociale, ma è anche vero che in Turchia tutto si è gestito per il meglio.

Alla fine, allora, cosa è la protesta in Turchia? Forse si tratta semplicemente di uno di quei momenti in cui la vita civile ha un rigurgito, e dà luogo ad una protesta che i social media diffondono molto velocemente. Forse non si dovrebbe dare alle rivolte in Turchia un peso più grande di quello che hanno.

La storia può aiutare a comprendere. Erdogan è arrivato al potere all’inizio del milennio, facendo presa non tanto sull’islamicità della popolazione, quanto sulla volontà delle persone di avere più partecipazione pubblica e democrazia. “Democrazia” e “diritti umani”  sono state le parole chiave della campagna elettorale dell’attuale premier turco.

Nonostante i fluttuanti anni di governo, forse il punto di svolta, la miccia che ha fatto scattare la tensione che ha portato ai disordini di questi giorni, è la mancata realizzazione del progetto della nuova Costituzione.

Nel 2010, i turchi avevano dato mandato al governo di formare una Costituente che desse al Paese una Carta Costituzionale Civile, per sostituire quella militare risalente al 1982. Un  mandato accordato tramite un referendum, che aveva visto il voto a favore anche di molti che non avevano votato Erdogan alle elezioni. Questo perché una nuova Carta Costituzionale avrebbe, nella loro visione, aperto ad una democrazia più partecipata, più completa. Una via turca alla democrazia, questo speravano i turchi. Ma in questi anni non c’è stato il seguito sperato, né si sono fatti molti passi avanti.

E così, si è formato nell’opinione pubblica turca un malcontento strisciante. Di certo non favorito dal fatto che il linguaggio di Erdogan e quello del suo partito è diventato “esclusivista anche nei confronti dei musulmani”, tutto volto a sottolineare che solo attraverso il partito ci può essere un futuro del Paese.

In fondo, Erdogan si sente forte del fatto che “il suo stesso partito – scrive una analisi di AsiaNews – ha creato una nuova classe medio alta, imprenditoriale, che fa da forza trainante alla crescita economica tanto applaudita da tutti, senza però cessare di foraggiare la vecchia classe economica”.

Ma la sua arroganza, il fatto che “Erdogan non usa ascoltare”, unito al suo essere un animale politico, del tutto privo di cultura, hanno reso le prese di posizione del primo ministro inaccettabile, in un Paese con una democrazia in evoluzione, in cui l’opinione pubblica non si accontenta solo di votare, ma vuole partecipare alle decisioni per il bene pubblico.

Ovvio che questo malcontento strisciante è stato protagonista nei social network dei turchi, si è alimentato sui blog, ha preso fuoco dalle prese di posizione di giovani e intellettuali contro scelte controverse o presentate male. Una delle ultime contestazioni, ad esempio, ha riguardato il divieto di pubblicizzare alcolici. Ma “andava spiegato adeguatamente” in modo da far comprendere che “la scelta era per non avere problemi in futuro”, e magari dialogare sulle forme del divieto. Un dialogo che il governo non ha messo in campo.

E le contestazioni hanno riguardato anche  la costruzione del terzo ponte sul Bosforo. I manifestanti di piazza Taksim hanno protestato con forza contro il ponte, ma il problema è piuttosto il nome che si vuole dare al ponte, che Erdogna vuole intitolare a  Yavuz Selim, detto anche il massacratore degli aleviti, e per questo inviso a questa comunità, una delle sette dell’Islam che in Turchia conta 10 milioni di membri e una grande influenza. Anche in questo caso, le proteste sono state attribuite al movimento ambientalista. Ed è pur vero che questo ha contestato con forza la costruzione del ponte.

Ma la questione non è tutta lì. Le persone che stanno partecipando alle proteste rappresentano un po’ tutta la società turca. Ci sono giovani, anziani, artisti, intellettuali, operai, e manifestano per promuovere una partecipazione ai processi decisionali che hanno visto mancare. Una partecipazione trasversale. Eppure, ci sono state anche delle distruzioni da parte dei manifestanti. Per questo, il dubbio è se in queste manifestazioni ci siano state infiltrazioni di terzi. Più che una inneggiare ad una primavera turca, si dovrebbe aver paura dell’arrivo di un rigido inverno.

Free Webcam Girls
151.11.48.50