Addio al card. Carlo Maria Martini, mediatore della modernità

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“Dio sta oltre la notte”. Carlo Maria Martini lo aveva scritto in un lungo itinerario “Incontro al Signore Risorto”, pubblicato nella Biblioteca Universale Cristiana di Famiglia Cristiana. Era una lunga meditazione che partiva proprio dalla Resurrezione di Cristo. E sì che sul confronto tra l’attesa dell’agonia di Cristo e la gloria della Resurrezione, Martini tenne anche delle meditazioni televisive, quando ancora non era stato costretto dal morbo di Parkinson a “passare dalla parola al silenzio”. Fino alla morte sopraggiunta oggi, Carlo Maria Martini non ha cessato di essere una voce viva e vibrante nel mondo culturale. Aveva smesso di scrivere sul Corriere della Sera – dove teneva una rubrica di posta – il 24 giugno di quest’anno. Ormai la malattia era in fase terminale, e se ne era reso conto. La morte sopraggiunta nella serata di oggi era in qualche modo attesa. Ma lascia comunque un senso di vuoto profondo.

 

Già dalle metà di agosto, Martini non è stato più in grado di deglutire né cibi solidi né liquidi. Ma – ha detto il neurologo Gianni Pezzoli, che lo ha avuto in cura – è rimasto lucido fino all’ultimo e ha rifiutato ogni forma di accanimento terapeutico”. In sostanza, seguendo anche l’esempio di Giovanni Paolo II che e’ stato ucciso dalla stessa malattia, il morbo di Parkinson, il porporato gesuita ha concordato con il suo medico curante di non essere sottoposto all’intervento per posizionare la cosidetta Peg, cioè il tubicino che il chirurgo inserisce direttamente nello stomaco e  consentirebbe di alimentarsi direttamente bypassando l’esofago. Una pratica ritenuta –  come già per Giovanni Paolo II – sproporzionata.

Forse si può rileggere la vita del cardinal Martini, gesuita di Torino classe 1927, solo con la cifra della sua riflessione sulla Bibbia. Era rettore dell’Università Gregoriana dal 1978, prima ancora era stato rettore del Pontificio Istituto Biblico a Roma (dal 1969) e prima ancora aveva una nuova edizione del «Novum Testamentum graece et latine» di A. Merk ed era divenuto membro del comitato per la pubblicazione del “The Greek New Testament”, di cui sarà l’unico editore italiano. Non sorprende che una delle sue primissime iniziative come arcivescovo di Milano, quando vi fu catapultato nel 1979 dalla nomina sorprendente di Giovanni Paolo II, sia stata quella di introdurre la “Scuola della Parola”, per aiutare il popolo di Dio ad accostarsi alla Scrittura attraverso il metodo della lectio divina.

Questa morte che sopraggiunge non inaspettata portano quasi naturalmente a rileggere quello che viene considerato il “testamento spirituale” del cardinal Martini, ovvero “Le conversazioni notturne a Gerusalemme”, un libro intervista con il confratello austriaco Georg Sporschill. Un libro scritto mentre, dopo aver presentato le sue dimissioni da arcivescovo di Milano a 75 anni, si era ritirato a Gerusalemme per riprendere i suoi studi biblici, prima di ritornare in Italia con l’aggravarsi della malattia, e andare a risiedere alla residenza gesuita Alosianum a Gallarate. Un libro in cui si metteva a nudo. Raccontava di aver avuto “delle difficoltà con Dio”, non riusciva “a capire perché avesse fatto patire suo figlio in croce”. E ammetteva che “persino da vescovo qualche volta non potevo guardare un crocifisso perché l’interrogativo mi tormentava”. Non riusciva ad accettare neanche la morte, si chiedeva s Dio non avrebbe potuto risparmiarla agli uomini dopo quella di Cristo? E poi, ha capito: “Senza la morte non potremmo darci totalmente a Dio. Ci terremmo aperte delle uscite di sicurezza”. Invece – sosteneva – bisogna affidare la propria speranza a Dio e credergli. “Io – diceva – spero di poter pronunciare nella morte questo sì a Dio”.

Sono, in fondo, le parole di un uomo sempre in ricerca costante. E sì che i suoi interventi non sono mai passati inosservati, e hanno creato grande dibattito. Ha dialogato e lanciato aperture su questioni come la fecondazione assistita, l’eutanasia, le coppie di fatto, l’adozione ai single. Ha spesso invocato un “Concilio Vaticano III” per un nuovo vento di rinnovamento nella Chiesa. Ha aperto al dialogo con i non credenti. E per questo, è sempre stato considerato il capofila dei progressisti, una sorta di anti-Papa o di icona da contrapporre ai tradizionalisti, una alternativa ai magisteri di Giovanni Paolo II prima e Benedetto XVI poi.

Non era così, perché Carlo Maria Martini era prima di tutto un uomo di fede e in costante ricerca. Un po’ come Benedetto XVI, con il quale lo legava un rapporto di stima e cordialità, sebbene non convergessero su tutte le idee. Si erano visti l’ultima volta il 3 giugno, per un incontro di 7 minuti. E forse hanno rinnovato con gli sguardi i momenti del Conclave. Martini era considerato il capofila dei progressisti, ma non volle su di sé i voti. C’era la malattia, e il sicuro decadimento, e fu un argomento decisivo per lui. L’ala progressista voto per il card. Bergoglio, argentino, ma non c’era una maggioranza sicura. Martini fece convergere i voti su Ratzinger. Almeno una volta, i due furono visti arrivare insieme, che si sorreggevano l’uno sull’altro.

L’ultimo libro pubblicato da Carlo Maria Martini è “Il Vescovo”. Un libro parte di un progetto di Rosenberg&Sellier, un editore torinese: quello di ritornare ai significati pieni delle parole “malate” del nostro tempo. In “Il vescovo” Martini mette molta autobiografia. E c’è una parte dedicata al dialogo con i non credenti, in cui sosteneva che occorre distinguere tra la Deriva delle Mode e Attenzione ai valori. “Non bisogna illudersi – scriveva – che anche nelle diocesi più tradizionali siano numericamente pochi coloro che appartengono a queste categorie (degli atei o degli agnostici o degli indifferenti, ndr) come pure quelli che vivono lontani da ogni attività pastorale. Costoro ricevono informazioni sulla Chiesa sempre filtrate dai giornali o dalla televisione, dove è trendy, cioè di moda, parlare con freddezza e supponenza delle cose religiose”. E ricorda la domanda costante di Giovan Battista Montini, arcivescovo di Milano prima di diventare Papa Paolo VI: “Che cosa penserà o capirà di ciò che dico l’uomo moderno?”

Una domanda che Martini ha sempre fatto sua. Tanto che – lo ha confidato ai giornalisti del Corriere della Sera, quando fu ospitato in una riunione di redazione lo scorso 19 giugno – “da ragazzo desideravo fare il giornalista, mi pareva il lavoro adatto per capire una vita che ogni giorno è diversa”. Al mondo dei media ha dedicato una lettera pastorale, Il Lembo del Mantello, in cui sosteneva che il mondo dell’informazione deve svolgere un ruolo di mediazione. “Mediatore – scriveva – è colui che traduce; ciò vuol dire che non può essere un passacarte, né un megafono, né uno che letteralmente trasporta ogni parola da un codice all’altro. Mediatore è colui che si assume i rischi di ogni traduzione; tradurre, concretamente, significa andare all’essenziale, cercare il senso di una vicenda in sé e nel contesto, e riferire con parole vive”. E forse si trova in queste parole il senso dell’intera vita di Carlo Maria Martini. Una vita dedicata allo studio della Parola e al dialogo con parole vive. Sempre fedele al suo motto episcopale: “Pro veritate advsersa diligere”. Ovvero: “Per amore della verità andare incontro volentieri alle difficoltà”. E forse tra queste difficoltà è quella di vedere un pensiero (il suo) continuamente schematizzato, e mediato in maniera parziale. Forse per trovare il Martini più puro si deve andare alle origini della sua riflessione. E a quella vocazione che scoppiò – precocissima – a 17 anni, quando entrò nella Compagnia del Gesù.

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