Il maggiordomo non si sente un ladro, e non si dice colpevole. Le arringhe difensive.

Condividi su...

“Si dichiara colpevole o innocente?” “La cosa che sento forte dentro di me è la convinzione di aver agito per esclusivo amore, viscerale direi, per la Chiesa di Cristo e per il suo capo visibile. Se lo devo ripetere, non mi sento un ladro”. Al termine della requisitoria del Promotore di Giustizia e dell’arringa difensiva, Paolo Gabriele può avere l’ultima parola al processo che lo vede imputato per furto aggravato. Rimasto impassibile tutto il tempo, vestito beige, cravatta blu regimental, Gabriele si siede davanti al presidente del tribunale Giuseppe Dalla Torre. Non si dice innocente. E non mostra pentimento per quanto fatto.

 

Azioni che gli potrebbero costare tre anni di condanna per furto qualificato, e l’interdizione perpetua ma parziale ai pubblici offici. Sono le richieste che Nicola Picardi, promotore di Giustizia dello Stato di Città del Vaticano, fa al termine di una arringa di circa 40 minuti, divisa in quattro parti. E la seconda parte della richiesta della pena è “una invenzione” dello stesso Picardi. Perché un dipendente vaticano, se destituito di diritto (anche per una condanna passata in giudicato in un altro Stato), “non può – secondo il Regolamento Generale della Curia Romana, art. 79 – essere riassunto in altro dicastero o ufficio dipendente dalla Santa Sede”. In questo modo – con l’interdizione perpetua, ma parziale – Gabriele sarebbe interdetto dai pubblici uffici. Non gli sarebbe impedito di essere assunto in mansioni differenti. È, in un certo senso, un proposta storica, che accosta il Vaticano ai moderni stati di diritto. Se in Italia si viene interdetti dai pubblici uffici, non significa che non si possano fare altri lavori nello Stato italiano. Giuridicamente, è una strada che Picardi aveva già delineato all’inaugurazione dell’anno giudiziario, quando aveva sottolineato una progressiva “autolimitazione” dello Stato Vaticano, specie con le normative sul pubblico impiego e sulla parziale revisione del diritto penale nei settori economico finanziario e monetario.

La richiesta di Picardi accoglie anche la perizia psichiatrica d’ufficio, condotta dal professor Tatarelli, che concludeva come l’eventuale pericolosità di Paolo Gabriele fosse da limitarsi a quel particolare incarico. La perizia di Tatarelli è stata completamente accettata anche dalla difesa, che ha rinunciato alle conclusioni della perizia di parte.

Cristiana Arru, l’avvocato di Paolo Gabriele, non vuole che il suo assistito sia considerato in un insano di mente. Nonostante le varie eccezioni procedurali contro le quali punta il dito nella sua arringa (dalla perquisizione nella casa di Paolo Gabriele a Castel Gandolfo alle perquisizioni nella casa in Vaticano condotte senza guanti, dall’inventario non completo di quanto era stato sequestrato dai gendarmi nella casa in vaticano – sono stati segnalati solo gli oggetti di interesse – all’esclusione della pepita e dell’assegno lì ritrovati come eventuali corpi del reato, perché le testimonianze dei gendarmi sul ritrovamento sarebbero contraddittorie), alla fine l’avvocato concede che “queste sono argomentazioni secondarie”.  Anche perché a inizio udienza il tribunale aveva già accolto di tener fuori dal procedimento le carte sequestrate a Castel Gandolfo, tenendo però dentro il procedimento la pepita e l’assegno, che la Arru aveva chiesto di escludere come corpi di reato.

Il grande argomento della difesa sono “le motivazioni che hanno spinto Paolo Gabriele a compiere un gesto comunque condannabile. Una motivazione morale, che – dice l’avvocato – spero che un giorno sarà riconosciuta e anche premiata”. Sostiene, l’avvocato, che non si può parlare di furto. Perché “non c’è sottrazione”, e “Gabriele poteva disporre di quei beni”, perché era Georg Gaenswein, il segretario particolare del Papa, che gli chiedeva di fare fotocopie, e le ha fatte in sua presenza. Al massimo, “si può parlare del mancato rispetto dei limiti dell’utilizzabilità dei beni, che però non sono mai usciti dalla stanza”. Sì, forse Paolo Gabriele ha preso dei documenti originali, ma questo “è dovuto a confusione, perché trattandosi di fotocopie a colori poteva esserci confusione”. Nega qualunque ipotesi di complotto, e sostiene che  la pena deve anche essere attenuata, perché la pubblicazione di requisitoria e sentenza di rinvio a giudizio ha leso la dignità di Paolo Gabriele, ed è una lesione della dignità che non resta circoscritta nel tempo, come era la gogna una volta, ma che resterà per sempre. Addirittura, dice che vorrebbe parlare con Tatarelli. E Dalla Torre le fa notare che poteva chiederlo. Lei ammette che avrebbe potuto farlo.

Cristiana Arru chiede quindi derubricazione del reato da furto in appropriazione indebita, e – se proprio dovesse essere considerato un furto – chiede il minimo della pena, ovvero tre giorni. Una mossa furba. Qualora il reato fosse stato derubricato ad appropriazione indebita, non sarebbe stato perseguibile: per quel reato, ci vuole la querela.

Ma in fondo sono trucchi giuridici. Dall’altra parte, il tribunale vaticano conduce una indagine in fil di diritto, e Picardi si distingue anche per un eccesso di zelo nei confronti dell’imputato, che ammette lui stesso con un lapsus illuminante. Dice “per premura di difesa”, e poi si corregge “per premura argomentativa”. Riprende i temi della requisitoria, ripercorre i quattro interrogatori all’imputato in fase istruttoria, spiega che le sue dichiarazioni che “si limitava a fotocopiare documenti” sono state smentite dai fatti, perché le testimonianze dei gendarmi – in particolare quella di De Santis, che ha raccontato di aver visto documenti autografi del Papa con la scritta “da distruggere” – convergono sul fatto che tra il materiale sequestrato c’erano degli originali. E in alcuni casi gli originali non si trovano. Per esempio, non si trova l’appunto sull’ICI comparso nel libro di Gianluigi Nuzzi Sua Santità, e anche un altro paio di documenti. Ricorda che Gabriele ha ricordato che “non c’è stata alcuna altra fonte esterna” oltre a Nuzzi.

E qui si scopre chi è il famoso padre spirituale cui era stata data copia dei documenti: si tratta di don Giovanni Luzi, e risiede a Ceri, vicino Cerveteri. A lui, Paolo Gabriele era arrivato tramite don Paolo Morocutti, ora cappellano ad interim dell’Università Cattolica dopo la morte di mons. Lanza.

C’è un momento in cui Picardi spiega che l’archivio di Paolo Gabriele dovrebbe “trovare posto in una biblioteca” per “la vastità e la specificità di interessi”. Picardi ripercorre poi le perizie psichiatriche, spiega come la difesa ha rinunciato alla perizia di parte, e cerca di comprendere se si possono configurare correità o complicità. Non si può fare, mancano le prove, le evidenze dicono che Paolo Gabriele ha fatto tutto da solo. Si parla di suggestione ambientale, ma – dice Picardi – “la suggestione non è prova che ci sia correità o complicità”.  Cerca anche, Picardi, di capire se il reato si possa configurare come furto d’uso  (come prendere un telefono ad una persona per fare una telefonata, e poi restituirglielo), perché si tratta di fotocopie: non è il caso. Va a vedere se il codice applicato in Vaticano, lo Zanardelli, è più severo degli altri. Non è così, e il codice Rocco sarebbe persino più severo in questi casi. E definito il reato (che può toccare gli articoli 402, 403 e 404, ovvero furto, furto aggravato e furto qualificato) si pone persino il problema se le pene di questi furti si debbanno sommare o assorbire tra loro. Visto che non ci sono precedenti in Vaticano, Picardi va a spulciare le sentenze italiane precedenti al codice Rocco. Non si sommano, conclude. Chiede la condanna per furto qualificato, si inventa l’interdizione perpetua, ma parziale. Gabriele lo guarda, accenna a un sorriso. Forse pensa che non dovrà uscire dal Vaticano, e questo lo consola. Poi, quando chiede la condanna a 3 anni, scompare il sorriso.

E al termine delle due arringhe, Paolo Gabriele fa una brevissima dichiarazione. I giudici si riuniscono in Camera di Consiglio.

Free Webcam Girls
151.11.48.50