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Monsignor Christian Carlassare: ‘La pace si raggiunge con il dialogo’

Più di 10.000.000 bambini in Sudan si sono trovati in una zona di guerra attiva e a meno di cinque chilometri di distanza da spari, bombardamenti e altre violenze mortali, dall’inizio del conflitto più di un anno fa, il 15 aprile 2023, un numero più alto di quello dei minori che vivono attualmente in Italia.
Il Paese, dopo un anno e mezzo, è di fatto diviso in tre parti:: l’una in mano all’esercito regolare, che si professa custode della transizione che controlla faticosamente gran parte del corso del Nilo, la costa del Mar Rosso con il porto di Port Sudan (ormai capitale di fatto) e parte degli stati del Sud-Est; una seconda, alcuni stati del Sud-Ovest e gran parte del Darfur, è sotto il controllo delle RSF.
Infine, una terza vasta area dispersa nel paese è in mano a varie forze ribelli legate a neonati interessi, antichi raggruppamenti ed eterodosse fedeltà locali, venate di identificazioni etniche spesso estese oltre-confine. Le maggiori città sono contese, anche la capitale Khartoum: un anno fa una delle maggiori megalopoli d’Africa con quasi 7.000.000 di abitanti, oggi devastata e spopolata.
I combattimenti hanno condotto ad una delle peggiori crisi umanitarie in corso sul pianeta, la più grave per quanto riguarda gli sfollati: oltre 9.000.000 di nuovi sfollati di cui più di 2.000.000 quelli fuggiti in altri paesi; almeno 13.000 i morti accertati, di certo sottostimati; almeno 11.000 casi colera sono segnalati, l’80%degli ospedali del Sudan è fuori uso e metà della popolazione necessita d’una forma di aiuto ma gli aiuti sono scarsi e in molte aree difficilmente accessibili a causa dell’insicurezza. Il tessuto sociale del Paese è stato fatto a pezzi dalla guerra, la popolazione civile è vittima di violenze dilaganti, bambini uccisi, violentati e reclutati dalle milizie come arma di guerra.
A mons. Christian Carlassare, vescovo di Rumbek, in Sud Sudan, abbiamo chiesto di spiegarci i motivi per cui il conflitto in Sudan aumenta: “Il conflitto sudanese ha radici profonde perché nasce da problemi già presenti nella guerra in Darfur cominciata più di 20 anni fa e mai risolti. Ora la questione del Darfur si è allargata a tutto il Paese. In aggiunta possiamo dire che il conflitto sudanese non è semplicemente una guerra tra due generali, poiché l’esercito SAF e la milizia RSF sono inestricabilmente inseriti nella vita economica del paese attraverso legami con gruppi di élite sudanesi che controllano vari settori dell’economia a proprio vantaggio.
Quindi è un conflitto molto complesso che alla base ha elementi economici, problematiche regionali esacerbate da questioni etniche, senza dimenticare interessi internazionali ed elementi religiosi come l’aspirazione della fazione islamista estromessa dal governo nel 2019 di tornare al potere”.
Perché la guerra in Sudan è una guerra ‘fantasma’?
“Probabilmente perché non gli viene data la dovuta importanza dalla comunità internazionale (soprattutto America e Paesi europei) per cui l’attenzione mediatica e l’aiuto umanitario sono rivolti soprattutto a Gaza ed Ucraina. Ma in realtà la crisi umanitaria sudanese è altrettanto grave sia per le uccisioni e crimini commessi, sia per il numero di persone che sono sfollate nella più totale assenza di sicurezza e servizi e la conseguente fame.
Il Sudan è abbandonato a sé stesso da chi non vede in esso interessi economici e strategici. Russia, Emirati Arabi, Arabia Saudita e in parte l’Egitto invece sono più coinvolti, ma non è scontato che stiano lavorando per la pace. Se ci fossero meno armi e meno soldi per comprarle, forse quelli che oggi combattono per il controllo di alcune aree e risorse si siederebbero a un tavolo per la pace”.
Quali ripercussioni ha questo conflitto in Sud Sudan?
“Il Sud Sudan osserva quello che sta accadendo in Sudan con grande preoccupazione perché il legame tra i due Paesi rimane, pur con l’indipendenza del Sud. Molti Sud Sudanesi avevano trovato rifugio in Sudan durante il conflitto 2013-2019. Comunque il Sudan continuava ad offrire buone opportunità di studio e cure mediche, oltre che vantaggi negli investimenti e nel commercio. Ora non più. Molti Sud Sudanesi sono rientrati, dopo aver perso tutto, e senza trovare molto. L’estrazione del petrolio è rallentata ed il trasporto lungo l’oleodotto fino a Port Sudan è diventato più incerto come anche questa entrata che rappresenta 85% del PIL del paese.
In aggiunta, il Sud Sudan non è veramente in pace nonostante l’accordo R-ARCSS. Anche se non si registrano scontri tra i principali gruppi armati, in molte parti del Paese si registrano violenze legate a conflitti locali.
Vengono descritti come scontri locali o comunitari perché interessano piccoli gruppi di diversa etnia, e sono spesso legati all’accesso ad alcune risorse del territorio. Ma le cause non sono accidentali, di fatto sono collegate alle dinamiche politiche nazionali. Mentre il Sud Sudan ha teoricamente un governo transitorio di unità nazionale, in pratica c’è una lotta tra le diverse fazioni del governo e dell’opposizione per il potere e c’è poca cooperazione fra loro.
Tutte le fazioni lavorano per i propri interessi piuttosto che per il bene della nazione e dei cittadini. Sembra mancare la volontà politica di attuare le disposizioni della R-ARCSS. E, purtroppo, le elezioni (che dovrebbero essere a dicembre prossimo) fanno parte di questa lotta per il potere.
Il principale partito di governo vorrebbe le elezioni. L’opposizione le vorrebbe posticipate. In generale preoccupa l’impreparazione generale. Le elezioni non sono un singolo evento, richiedono un processo che dura nel tempo. Comportano molti elementi: la demarcazione delle circoscrizioni elettorali che richiederebbero un censimento, la registrazione degli elettori, la registrazione dei partiti politici e dei candidati, l’istituzione di un sistema elettorale indipendente, la commissione elettorale, la formazione dei funzionari elettorali, una pianificazione della logistica cioè come raggiungere tutti distretti in un territorio così vasto e povero di infrastrutture e comunicazioni, come garantire la sicurezza e l’ordine nello svolgimento delle votazioni, l’educazione civica degli elettori.
Praticamente nulla di tutto questo è ancora avvenuto. È anche difficile prevedere come sarà possibile votare in alcune regioni dove non c’è sicurezza, o dove la popolazione è pressoché tutta sfollata a causa anche degli allagamenti.
Per di più, non si tratta di semplici elezioni di routine come quelle che si svolgono regolarmente in altri paesi. Queste elezioni fanno effettivamente parte dell’R-ARCSS, che è un accordo di pace firmato dalle parti coinvolte nella guerra civile del 2013. In effetti, l’elezione costituisce l’ultima tappa dell’accordo dopo che tutte le altre sono state raggiunte.
Queste includono la ratificazione di una costituzione che per ora rimane transitoria, la riforma dell’esercito e della difesa, la riforma della giustizia, il dialogo nazionale e la riconciliazione. La maggior parte di queste riforme non sono state fatte. E’ quindi difficile capire come si possano avere delle elezioni legittime quando mancano le condizioni previe.
Al momento sono in atto delle trattative moderate dal presidente Ruto del Kenya con la partecipazione della Comunità di Sant’Egidio per cercare di uscire da questa situazione di stallo. Si continua a sostenere la necessità di andare alla radice dei problemi che sono legati alla costituzionalità stessa del paese, al rispetto della legge, al buon governo che sappia superare corruzione e nepotismo.
Bisogna saper guardare oltre l’accordo di pace e le elezioni stesse. E’ necessario promuovere un serio dialogo nazionale indipendente dalle forze al governo ed élite militari, dove la comunità civile, i gruppi ecclesiali, gli anziani, le donne e i giovani possano parlare ed essere finalmente ascoltati”.
La conferenza episcopale di Sudan e Sud Sudan invita al dialogo: è una via percorribile?
“E’ l’unica via. Senza un dialogo nazionale indipendente e a tutto campo non si supereranno mai i pre-giudizi che cui sono tra diversi gruppi etnici. Le narrative negative che contrappongono piuttosto di unire rimarranno intatte. Le ferite per le violenze subite rimarranno aperte ed infette senza possibilità di guarigione. Senza dialogo inclusivo alcuni gruppi di potere continueranno a manipolare le comunità locali.
Quindi non basta un dialogo formale compiuto da un gruppo limitato di persone in rappresentanze delle altre. E’ necessario nel paese un atteggiamento di ascolto ed educazione alla conoscenza reciproca per individuare un bene che sia comune e che appartenga a tutta la popolazione. Il governo deve essere progressivamente capace di offrire pari opportunità e sviluppo a tutte le comunità del paese, dando attenzione ai gruppi più svantaggiati e vulnerabili”.
Dopo la conclusione delle Olimpiadi parigine, in cui la squadra di pallacanestro ha partecipato per la prima volta, il basket in Sud Sudan può essere un momento di riscatto e di riappacificazione?
“L’esperienza delle Olimpiadi è stata certamente una esperienza molto importante per la squadra di basket del Sud Sudan. Le imprese della squadra è stato motivo di orgoglio nazionale e tanta gente ha seguito con interesse e grande speranza. Il messaggio di questa esperienza è che l’unione fa la forza, e lavorare sodo porta sempre buoni frutti. Spero sia un messaggio che venga raccolto dal paese perché sia in grado di costruire relazioni sociali improntate sul rispetto, la gentilezza e la coesione”.
Nello scorso luglio è anche vescovo della diocesi di Bentiu con 621.000 battezzati su una popolazione di 1.132.000 persone: per quale motivo papa Francesco ha eretto la diocesi di Bentiu?
“E’ un processo che è iniziato qualche tempo fa in seguito alla grande crescita di fede e impegno ecclesiale della popolazione locale. Gli agenti pastorali laici hanno più volte chiesto alla Chiesa più attenzione considerando la vastità della diocesi di Malakal e il numero esiguo di ministri ordinati. Al mio arrivo in Sud Sudan nel 2005 questo territorio aveva solo due parrocchie, una retta da un prete diocesano e l’altra retta da una comunità di missionari comboniani. I catechisti erano più di 600 e presenti nel territorio a guida di altrettante cappelle. Oggi lo stesso territorio ha sette parrocchie, sette preti diocesani, due diaconi, e due comunità religiose, i missionari comboniani e i frati minori cappuccini.
Il motivo per il quale papa Francesco ha eretto questa diocesi risponde al bisogno di essere una Chiesa che si fa prossima, che esce dal tempio e si fa compagna di strada di coloro che hanno perso tutto, ma non la propria umanità. Al momento si calcola che nella regione, circa il 90% della popolazione è sfollata a causa prima del conflitto ed ultimamente dell’alluvione che ancora colpisce il territorio. Tra Bentiu e Rubkona, due città collegate da un ponte, vivono circa 200.000 persone dentro una trentina di chilometri di terrapieno dove da 4 anni il livello dell’inondazione del Nilo supera quello del terreno.
Nel ‘campo sfollati’ di Rubkona circa 130.000 persone vivono stipati in una situazione del tutto anomala poiché dipendono dall’assistenza dell’ONU e delle agenzie umanitarie. Forse la diocesi, dando forza alle comunità cristiane locali, può essere richiamo di un bisogno di normalità, di pace e di sviluppo umano integrale di cui la gente ha tanto bisogno”.
(Foto: Aci Stampa)
Card. Zuppi: la Chiesa invita a costruire il bene comune

Nella conferenza conclusiva della 79^ assemblea generale della CEI l’arcivescovo di Bologna, card. Matteo Zuppi, rispondendo alle domande, ha sottolineato che nelle riforme costituzionali occorre prudenza nel rispetto della Carta Costituzionale: “Gli equilibri istituzionali vanno toccati sempre con molta attenzione. Qualche vescovo si è soffermato su questo, esprimendo preoccupazione A titolo personale posso dire che è necessario tenere presente lo spirito della Costituzione, scritta da forze politiche non omogenee che però avevano di mira il bene comune”.
Risposta che ha ripreso il Documento conclusivo sul bene comune: “Alcuni progetti legislativi rischiano di accrescere il gap tra territori oltre che contraddire i principi costituzionali. E’ in gioco il bene comune che può e deve essere promosso sostenendo la partecipazione e la democrazia, valori al centro della 50^ Settimana Sociale dei Cattolici, in programma a Trieste dal 3 al 7 luglio”.
E, citando la lettera scritta congiuntamente dalla Cei e dalla Comece, ha espresso preoccupazione per la situazione in Europa: “Siamo preoccupati, perché l’Europa rischia di dimenticare l’eredità straordinaria di chi ha combattuto per la libertà dal nazifascismo. L’auspicio è che la scelta sia per un futuro maggiore, e non minore, dell’Europa. L’augurio è che l’Europa si ricordi delle sue radici: perché non ci sia più guerra. Non una tregua, ma la pace, la capacità di risolvere i conflitti non con le armi… I conflitti finiscono quando impariamo a stare insieme”.
Pace, come è espresso nel documento finale, è una preoccupazione con l’invito a lavorare per costruire la pace, “senza reticenze e con passi concreti quali, ad esempio, la scelta di non investire su realtà che finanziano la produzione e il commercio di armi, come peraltro suggerito e indicato nel documento ‘La Chiesa cattolica e la gestione delle risorse finanziarie con criteri etici di responsabilità sociale, ambientale e di governance’ elaborato nel 2020 dalle Commissioni Episcopali per il servizio della carità e la salute e per i problemi sociali e il lavoro, la giustizia e la pace”.
Quindi un ruolo importante è rivestito dalla cultura, che è uno spazio “in cui far dialogare in modo critico e costruttivo la rivelazione cristiana con le domande e le acquisizioni di oggi in una dinamica di mutuo apprendimento. In questo ambito si sente come cruciale una attenzione ai linguaggi, non per un semplice lavoro di adattamento e condiscendenza, ma per assumere il vissuto umano come luogo teologico”.
Perciò occorre una nuova visione formativa: “Sulla questione formativa, è stato evidenziato che, a partire dall’iniziazione cristiana, essa non può più limitarsi ai bambini e ai ragazzi, ma è chiamata a diventare un processo continuo di crescita nella vita cristiana di tutti i battezzati, soprattutto dei ministri ordinati, con un focus particolare sulla formazione liturgica. Infine, la corresponsabilità: coinvolge la riflessione, ad esempio, sugli organismi di partecipazione, sui ministeri, sul ruolo delle donne nella Chiesa, sulla gestione delle strutture, sulla trasparenza e le sue forme concrete di attuazione”.
Per questa realizzazione occorre la profezia: “In un tempo di forti contrapposizioni e di depotenziamento della verità, occorre avere il coraggio della profezia, non per imporre un punto di vista, ma per dare un contributo culturale di speranza”. I vescovi hanno rinnovato l’appello del presidente della Cei ad ‘aiutare la discussione critica delle ideologie, dei miti, degli stili di vita, dell’etica e dell’estetica dominanti’, in quanto fede e cultura sono due dimensioni che necessitano l’una dell’altra.
Inoltre i vescovi hanno rinnovato “l’impegno a compiere ogni passo perché la tutela dei minori e degli adulti vulnerabili porti alla promozione di ambienti sicuri. In questa prospettiva, i Vescovi, sensibili e vicini al dolore delle vittime di ogni forma d’abuso, hanno ribadito la loro disponibilità all’ascolto, al dialogo e alla ricerca della verità e della giustizia” con la nomina di Chiara Griffini presidente del Servizio Nazionale per la tutela dei minori.
Concetti enucleati nell’omelia della celebrazione eucaristica: “Il nostro mondo è così deformato dall’onnipotenza dell’io, dal perseguire stoltamente i propri affari, attività che enfatizza e deprime, senza cercare la risposta alla vera domanda di chi sarà quello che accumuliamo. Questi poi facilmente provocano e animano le discussioni infinite su chi è il più grande, spingono ad affermare e verificare (a volte ossessivamente) la propria considerazione, ad occupare i primi posti nelle sinagoghe o moltiplicare i saluti nelle piazze, antesignani dei digitali link.
Le passioni dell’io senza l’amore per Dio e per il prossimo finiscono per farci dimenticare il nostro limite e rendono sconsiderati perché siamo sempre vapore che appare per un istante e poi scompare, come tante esaltazioni che lasciano l’amaro del fallimento, della disillusione”.
(Foto: Santa Sede)
Non si disperda la memoria della Resistenza

In tutta Italia giovedì 25 aprile si sono svolti cortei e manifestazioni, adombrate in alcuni casi da qualche episodio violento, per ricordare la liberazione dal fascismo, in cui è campeggiata una frase di Giacomo Matteotti a 100 anni dall’uccisione da parte dei fascisti: ‘Il fascismo è un crimine e non un’opinione’. E nella mattinata la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha affidato ai social una riflessione su questa festa, che deve essere sempre più condivisa dagli italiani:
“Nel giorno in cui l’Italia celebra la Liberazione, che con la fine del fascismo pose le basi per il ritorno della democrazia, ribadiamo la nostra avversione a tutti i regimi totalitari e autoritari… Continueremo a lavorare per difendere la democrazia e per un’Italia finalmente capace di unirsi sul valore della libertà”.
Ma il discorso più importante, con cui è stata ricordata tale data, è stato quello che il presidente della Repubblica Italiana, Sergio Mattarella, a Civitella in Val di Chiana per ricordare l’eccidio del 29 giugno 1944, avvenuto per rappresaglia sulla popolazione inerme, oltre 200 persone, terzo nel tragico computo delle vittime delle stragi nazifasciste, con un appello a fare della Festa di Liberazione un evento plurale, unificante e irrinunciabile:
“Siamo qui, a Civitella in Val di Chiana, riuniti per celebrare il 25 aprile (l’anniversario della Liberazione), ad 80 anni dalla terribile e disumana strage nazifascista perpetrata, in questo territorio, sulla inerme popolazione… Nella stessa giornata si compiva, non lontano da qui, a San Pancrazio, un altro eccidio, dove furono sterminate oltre settanta persone”.
Nel discorso il presidente della Repubblica italiana ha ricordato la ‘pianificazione’ cinica dell’eccidio contro innocenti, in cui furono trucidate 250 persone: “Come è attestato dai documenti processuali, gli eccidi furono pianificati a freddo, molti giorni prima, e furono portati a termine con l’inganno e con il tradimento della parola. Si attese, cinicamente, la festa dei Santi Pietro e Paolo per essere certi di poter effettuare un rastrellamento più numeroso di popolazione civile…
Il parroco di Civitella, don Alcide Lazzeri, e quello di San Pancrazio, don Giuseppe Torelli, provarono a offrire la loro vita per salvare quella del loro popolo, ma inutilmente. Furono uccisi anch’essi (come abbiamo sentito poc’anzi) insieme agli altri. Alcuni ostaggi, destinati alla morte, rimasero feriti o riuscirono a fuggire. Nei loro occhi, sbigottiti e impauriti, rimarrà per sempre impresso il ricordo di quel giorno di morte e di orrore”.
Era una ‘strategia’ militare ben precisa: “Con queste barbare uccisioni, nella loro strategia di morte, i nazifascisti cercavano di fare terra bruciata attorno ai partigiani per proteggere la ritirata tedesca; cercavano di instaurare un regime di terrore nei confronti dei civili perché non si unissero ai partigiani; cercavano di operare vendette nei confronti di un popolo considerato inferiore da alleato e, dopo l’armistizio, traditore.
Si trattò di gravissimi crimini di guerra, contrari a qualunque regola internazionale, contrari all’onore militare e, ancor di più, ai principi di umanità. Nessuna ragione, militare o di qualunque altro genere, può infatti essere invocata l’uccisione di ostaggi e di prigionieri inermi”.
Quindi occorre ricordare la memoria per vivere il futuro: “I nazifascisti ne erano ben consapevoli: i corpi dei partigiani combattenti, catturati, torturati, uccisi, dovevano rimanere esposti per giorni, come sinistro monito per la popolazione. Ma le stragi dei civili cercavano di tenerle nascoste e occultate, le vittime sepolte o bruciate.
Non si sa se per un senso intimo di vergogna e disonore, o per evitare d’incorrere nei rigori di una futura giustizia, oppure, ancora, per non destare ulteriori sentimenti di rivolta tra gli italiani… Occorre (oggi e in futuro) far memoria di quelle stragi e di quelle vittime, e sono preziose le iniziative nazionali e regionali che la sorreggono. Senza memoria, non c’è futuro”.
L’Italia è, quindi, una democrazia grazie al ‘sangue’ dei martiri: “Il sangue dei martiri che hanno pagato con la loro vita le conseguenze terribili di una guerra ingiusta e sciagurata, combattuta a fianco di Hitler nella convinzione che la grandezza e l’influenza dell’Italia si sarebbero dispiegate su un nuovo ordine mondiale. Un ordine fondato sul dominio della razza, sulla sopraffazione o, addirittura, sullo sterminio di altri popoli. Un’aspirazione bruta, ignobile, ma anche vana”.
E la Resistenza riscattò il disonore del fascismo: “Ma molti italiani non si piegarono al disonore. Scelsero la via del riscatto. Un riscatto morale, prima ancora che politico, che recuperava i valori occultati e calpestati dalla dittatura. La libertà, al posto dell’imposizione. La fraternità, al posto dell’odio razzista. La democrazia, al posto della sopraffazione. L’umanità, al posto della brutalità. La giustizia, al posto dell’arbitrio. La speranza, al posto della paura.
Nasceva la Resistenza, un movimento che, nella sua pluralità di persone, motivazioni, provenienze e spinte ideali, trovò la sua unità nella necessità di porre termine al dominio nazifascista sul nostro territorio, per instaurare una convivenza nuova, fondata sul diritto e sulla pace”.
Ricordando una frase di Aldo Moro (‘intorno all’antifascismo è possibile e doverosa l’unità popolare, senza compromettere d’altra parte la varietà e la ricchezza della comunità nazionale, il pluralismo sociale e politico, la libera e mutevole articolazione delle maggioranze e delle minoranze nel gioco democratico’), il presidente Mattarella ha ribadito che tale data è a fondamento della democrazia italiana:
“Il 25 aprile è, per l’Italia, una ricorrenza fondante: la festa della pace, della libertà ritrovata, e del ritorno nel novero delle nazioni democratiche. Quella pace e quella libertà, che, trovando radici nella resistenza di un popolo contro la barbarie nazifascista, hanno prodotto la Costituzione repubblicana, in cui tutti possono riconoscersi, e che rappresenta garanzia di democrazia e di giustizia, di saldo diniego di ogni forma o principio di autoritarismo o di totalitarismo”.
(Foto: Quirinale)
I vescovi europei: l’aborto non è un diritto

“La promozione delle donne e dei loro diritti non è legata alla promozione dell’aborto. Lavoriamo per un’Europa in cui le donne possano vivere la loro maternità liberamente e come un dono per loro e per la società e in cui l’essere madre non sia in alcun modo una limitazione per la vita personale, sociale e professionale. Promuovere e facilitare l’aborto va nella direzione opposta alla reale promozione delle donne e dei loro diritti”: con questa nota del Comece, che è il coordinamento degli episcopati cattolici dei 27 Paesi membri Ue, arriva un ammonimento al Parlamento europeo per ribadire che l’aborto non è un diritto e non può essere inserito in qualsiasi Costituzione.
Riprendendo la dichiarazione ‘Dignitas infinita’ i vescovi europei hanno ribadito che la vita è un diritto fondamentale da tutelare: “L’aborto non potrà mai essere un diritto fondamentale. Il diritto alla vita è il pilastro fondamentale di tutti gli altri diritti umani, in particolare il diritto alla vita delle persone più vulnerabili, fragili e indifese, come il bambino non ancora nato nel grembo della madre, il migrante, l’anziano, la persona con disabilità e il malato”.
Inoltre i vescovi della Comece ricordano un principio dell’Europa comunitaria, che consiste nella non imposizioni ideologiche sulla persona e sulla famiglia: “L’Unione europea deve rispettare le diverse culture e tradizioni degli Stati membri e le loro competenze nazionali. L’Unione europea non può imporre ad altri, all’interno e all’esterno dei suoi confini, posizioni ideologiche sulla persona umana, sulla sessualità e sul genere, sul matrimonio e sulla famiglia…”.
Quindi la nota si conclude con un monito al rispetto dei diritti scritti nelle Costituzioni dei singoli Stati: “La Carta dei diritti fondamentali dell’UE non può includere diritti che non sono riconosciuti da tutti e che sono divisivi. Non esiste un diritto riconosciuto all’aborto nel diritto europeo o internazionale e il modo in cui questo tema è trattato nelle Costituzioni e nelle leggi degli Stati membri varia notevolmente.
Come afferma il suo preambolo, la Carta deve rispettare la ‘diversità delle culture e delle tradizioni dei popoli d’Europa’, nonché i diritti derivanti in particolare dalle tradizioni costituzionali e dagli obblighi internazionali comuni agli Stati membri”.
CEI: ripensare i rapporti con i giovani

Ieri a Roma si sono conclusi i lavori del Consiglio episcopale permanente della CEI, aperti dalla prolusione del Cardinale Matteo Maria Zuppi, in cui è stata sottolineata la necessità di un impegno per la pace a 360°, fatto di preghiera, formazione e gesti concreti:
“Di fronte ad una cultura che sembra essere assuefatta alla guerra, a un aumento incontrollato delle armi e a un sistema economico che beneficia della corsa agli armamenti, occorre riprendere il dialogo tra Chiesa e mondo attraverso cammini educativi che offrano alternative alle logiche ora dominanti. In quest’ottica, l’esperienza dell’obiezione di coscienza e il patrimonio di azioni sperimentate nel passato possono costituire una base da cui ripartire per tornare a educare alla pace e dare prospettive di futuro, specialmente ai giovani”.
Per i vescovi occorre lavorare a più livelli per essere costruttori di fraternità, senza dimenticare il Magistero della Chiesa e l’articolo 11 della Costituzione Italiana: “L’impegno per la pace deve prendere avvio all’interno delle comunità cristiane, cercando di ricostruirne il tessuto ecclesiale laddove appare ferito. Il Cammino sinodale sta infatti mostrando l’importanza di fare sintesi tra le diverse sensibilità: anche se non tutti si sentono coinvolti, ormai tutti percepiscono l’importanza di questo tempo ecclesiale, voluto da papa Francesco per la Chiesa universale e dunque anche per le Chiese in Italia”.
Altra questione importante è stata quella dell’iniziazione cristiana, con un focus sulla figura dei padrini e delle madrine: “Nella società attuale, se il riferimento ai Sacramenti appare ancora molto diffuso, talvolta risulta svuotato di significato, un fatto convenzionale riconosciuto come elemento della tradizione, ma che non consente più di dare per scontata la fede”. Secondo i vescovi è urgente un ripensamento dei cammini tradizionali che permetta di intrecciare sempre di più la consegna delle forme pratiche della fede con la trasmissione delle esperienze elementari della vita:
“In tale orizzonte, sarà possibile anche riscoprire e valorizzare il ruolo di padrini e madrine, passando dalla concezione di ‘sponsor’ per un giorno a testimoni autentici nella crescita globale delle persone che ricevono il Sacramento. La loro figura, che deve accompagnare le diverse età, dovrà anche contribuire all’azione generativa ed educativa dei genitori, in sinergia con la comunità ecclesiale”.
Inoltre i vescovi hanno rilevato la necessità di approfondire il tema per costruire una grammatica comune così da evitare l’attuale diversificazione della prassi pastorale delle Chiese locali, che in alcuni casi hanno sospeso la figura dei padrini e delle madrine a causa di un fraintendimento socioculturale.
Per quanto riguarda il mondo giovanile i vescovi hanno proposto di ripensare il rapporto con le nuove generazioni a partire dagli spunti offerti da Paola Bignardi che ha presentato i risultati dell’ ‘Indagine in merito a giovani e fede oggi’, curata dall’Istituto Toniolo: “Nel contesto attuale è in atto una trasformazione molto rilevante nella modalità del credere. I giovani esprimono, anche con la loro protesta silenziosa nei confronti della comunità cristiana, il desiderio di un modo nuovo di comprendere l’umano e una domanda di interpretazione della fede dentro questa condizione umana. E’ in gioco lo stile con cui la Chiesa intende la vita cristiana e la propone”.
Infine l’appello per uno sviluppo unitario, che metta in circolo in modo virtuoso la solidarietà e la sussidiarietà: “Da parte sua la Chiesa in Italia, fedele al Vangelo e nel solco del percorso compiuto finora, continuerà a contribuire all’unità, accompagnando le comunità e non lasciandosi spaventare dalle contingenze del tempo presente. In questo senso, il Cammino sinodale si presenta come una grande occasione anche per ravvivare l’entusiasmo nella Chiesa e la fiducia in essa”.
Ed ecco la novità di un’iniziativa di microcredito per alleviare le povertà in vista del Giubileo: “E’ da leggere in questa prospettiva il mandato affidato alla Caritas Italiana di studiare un progetto di microcredito sociale da realizzare in occasione del Giubileo. L’iniziativa dovrebbe prevedere l’istituzione di un fondo che permetterà di sostenere quanti hanno difficoltà ad accedere al credito ordinario. Il progetto, che ha come elemento innovativo l’accompagnamento della persona, non dovrebbe esaurirsi tuttavia nell’intervento economico a favore dei singoli, ma coinvolgere e impegnare le Chiese locali nella loro pluralità di soggetti, con l’ulteriore obiettivo di far crescere la rete delle Caritas locali e delle Fondazioni antiusura diocesane”.
Inoltre i vescovi hanno concordato sulla necessità di incrementare le cure palliative, regolamentate da un’ottima legge che però non trova ancora la sua piena attuazione, tanto che vi accede meno della metà degli ammalati: “Nonostante esse assicurino dignità, supportino il paziente e i familiari nella malattia, la loro applicazione resta in larga parte disattesa. Dinanzi ad una certa deriva eutanasica e alla fuga in avanti di alcune Regioni desiderose di colmare un vuoto legislativo in tema di fine vita, è fondamentale ribadire che la vita è sacra, sempre e in qualunque condizione, e che su di essa non si può giocare a ribasso”.
Infine, rispondendo ai giornalisti, mons. Giuseppe Baturi, segretario generale della Cei e arcivescovo di Cagliari, è intervenuto sulla vicenda della scuola ‘Iqbal Masih’ di Pioltello, nel rispetto della libertà religiosa: “Il rispetto del fatto religioso e dell’identità delle comunità religiose, da parte dello Stato è un fatto positivo e appartiene alla laicità tipica dello Stato italiano… La laicità all’italiana non sopprime le identità religiose, ma le promuove in un contesto di rispetto vicendevole. Questo, però, deve avvenire dentro un contesto istituzionale di rispetto di norme e di procedure. Non so se nel caso specifico si sia rispettato tutto il percorso amministrativo, ma in generale vale il rispetto per ogni forma di libertà religiosa”.
A tal proposito l’arcivescovo di Milano, mons. Mario Delpini, non entrando nelle irregolarità riscontrate dall’USR preposta, ha affermato che si tratta di un legittimo provvedimento della scuola: “Una delle cose più importanti della vita è la religione. Non so come è il regolamento delle scuole, si sospende anche a Carnevale”, confermando la posizione del responsabile dell’Ufficio diocesano Ecumenismo e dialogo, Roberto Pagani, che si era già espresso nei giorni precedenti:
“Con un numero così significativo di ragazzi che aderiscono alle proprie celebrazioni non è irragionevole usare tali momenti per costruire dei legami, invece che contrapporre mondi e visioni. E’ sempre meglio fare i conti con la realtà, soprattutto considerando che parliamo di educazione e di una scuola, riconoscendo la composizione della nostra società e la presenza dell’altro, mantenendone la diversità con rispetto e non avendone paura. E’ un lavoro prospettico nel quale si può immaginare un futuro di convivenza pacifica e civile, e non solo di tolleranza reciproca”.
Mattarella: la Costituzione è viva

Ieri il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha deposto una corona all’Altare della Patria in occasione della festa della Repubblica che, come l’anno scorso per l’emergenza Covid, si è celebrata senza cerimonie aperte al pubblico e senza la tradizionale parata militare in via dei Fori imperiali, accolto dal ministro della Difesa, Lorenzo Guerini, e le più alte cariche dello Stato, che lo hanno atteso alla base del monumento al Milite Ignoto: i presidenti di Senato e Camera, Elisabetta Casellati e Roberto Fico, il presidente del Consiglio Mario Draghi, il presidente della Corte Costituzionale Giancarlo Coraggio e il capo della Polizia prefetto Lamberto Giannini.