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La Fondazione Migrantes: non adeguate le risposte alla migrazione

Nelle scorse settimane è stata presentata l’ottava edizione del report che la Fondazione Migrantes dedica al mondo delle migrazioni forzate, ed anche quest’anno legge e interpreta dati, norme, politiche e storie, portando alla luce come nell’Unione europea ed in Italia ad essere sempre più a rischio sia il diritto d’asilo stesso. Le persone in fuga nel mondo hanno superato quota 120.000.000 a causa di guerre e conflitti che si allargano di anno in anno, portando a un ulteriore incremento delle vittime, specie tra i civili.
In Medio Oriente la guerra tra Hamas e Israele si è estesa con il coinvolgimento della Cisgiordania, dell’Iran e del Libano. Le armi continuano a essere le uniche a parlare tra Ucraina e Russia, mentre anche situazioni estreme legate al cambiamento climatico contribuiscono a far crescere il numero delle persone costrette ad abbandonare la propria casa e la propria terra per un tempo sempre più lungo.
Non sono invece altrettanto celeri le risposte alle cause profonde di queste migrazioni forzate, e troppo poche le autorità di governo e le istituzioni che, con serietà ed autorevolezza, intendono perseguire obiettivi di pace e giustizia, mentre prosegue una folle corsa agli armamenti. Nel frattempo, poco prima della chiusura della scorsa legislatura europea è stato approvato il ‘nuovo’ Patto europeo sulla migrazione e l’asilo, un compromesso al ribasso in cui si assiste a un ulteriore impoverimento dei diritti di richiedenti asilo e rifugiati.
Alla fine del 2023 il numero di persone in fuga da guerre, violenze e persecuzioni a livello mondiale ha superato i 117.000.000 e saranno oltre 130.000, secondo l’UNHCR, l’Agenzia ONU per i rifugiati, le persone bisognose di protezione a fine 2024. Di queste, più di 68.000.000 rimangono all’interno del proprio Paese, mentre i rimanenti passano il confine alla ricerca di protezione e sicurezza.
La maggior parte, circa il 69%, si sposta in Paesi confinanti e solo una piccola frazione inizia un lungo e pericoloso viaggio verso l’Europa, che presenta una forte carenza di canali di ingresso legali e sicuri e, anzi, continua a rendere l’arrivo sempre più complesso e pericoloso per chi fugge. Sono stati infatti poco più di 520.000 gli ingressi irregolari in Europa tra il 2023 e i primi nove mesi del 2024, mentre sono state più di 1.500.000 le richieste d’asilo presentate nello stesso periodo.
Il Report include un contributo sulla riforma del Sistema europeo comune di asilo (CEAS), focalizzato sul ‘nuovo’ Patto migrazione e asilo. Nonostante la dichiarazione solenne sul diritto d’asilo come inviolabile, le recenti riforme limitano l’accesso a tale diritto. In particolare, l’introduzione di procedure accelerate e di restrizioni per chi richiede asilo alle frontiere esterne dell’UE accentua la detenzione in aree di transito e riduce l’efficacia del ricorso legale contro il respingimento.
Inoltre, si introduce la finzione giuridica del ‘non ingresso’, che considera alcuni richiedenti asilo come non presenti sul territorio, permettendo l’adozione di misure restrittive e respingimenti immediati. Una delle poche aperture positive riguarda invece il ‘reinsediamento umanitario’, che rimane però opzionale per gli Stati membri.
Inoltre il protocollo migratorio firmato il 6 novembre 2023 tra Italia e Albania mira a combattere l’immigrazione illegale attraverso la costruzione di centri di accoglienza e identificazione in Albania, finanziati dall’Italia. Questi centri hanno il compito di ospitare migranti soccorsi nel Mediterraneo per determinare la loro idoneità alla protezione internazionale o, in caso contrario, per il rimpatrio.
Presentato come una ‘soluzione innovativa’, l’accordo, che ha una chiara funzione deterrente, ha tuttavia sollevato dubbi tra i giuristi e le organizzazioni per i diritti umani: malgrado i significativi costi economici, il protocollo potrebbe risultare inefficace rispetto ai suoi stessi obiettivi e dannoso per i diritti fondamentali dei migranti, creando di fatto un sistema di ‘esternalizzazione’ che isola i migranti dal territorio e dalla società italiana.
Quindi, nonostante il divieto di trattenimento per i MSNA previsto dalla legge italiana, molti minori sono trattenuti in centri inadeguati, quali hotspot e centri governativi di accoglienza, spesso in condizioni critiche e promiscue con adulti. Questi centri non garantiscono un’adeguata tutela legale, né la possibilità di chiedere asilo o permessi di soggiorno, lasciando i minori in uno stato di isolamento e incertezza.
La recente legge 176/2023 ha legalizzato il collocamento dei MSNA sopra i 16 anni in strutture per adulti, una misura che contrasta con il superiore interesse del minore sancito dalla Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia. Le ripetute violazioni dei diritti fondamentali sono state confermate da sentenze della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU), che ha condannato l’Italia per trattamenti inumani e degradanti nei confronti di minori collocati proprio in strutture per adulti. Nonostante le condanne, tuttavia, le prassi non sono state modificate e la gestione emergenziale continua a prevalere.
Dopo l’entrata in vigore della legge n. 50/2023, la rete di società civile del Forum per cambiare l’ordine delle cose ha condotto un monitoraggio in diversi territori su quattro macro‐tematiche: le procedure accelerate in zone di frontiera o transito; i tempi e le prassi di convocazione per le audizioni e i tempi di decisione delle Commissioni territoriali; i criteri di riconoscimento della protezione speciale fondata sul rispetto dell’articolo 8 CEDU; i tempi e le prassi nei casi di rinnovo e conversione della protezione speciale.
Il contributo del Report, frutto di un inedito monitoraggio che ha coinvolto le congregazioni religiose femminili presenti in aree di transito e permanenza, evidenzia come in Italia l’esperienza della ‘frontiera’ venga interpretata in modo vario e poliedrico dalle religiose. Le loro comunità, dalla Sicilia alla Lombardia, sono esposte a situazioni difficili, fornendo assistenza umanitaria a migranti che affrontano povertà, violenze e vulnerabilità sociali.
Operano spesso in collaborazione con enti locali, associazioni laiche e strutture sanitarie, ma si scontrano con risorse insufficienti e politiche restrittive. Attraverso scuole di lingua, supporto psicologico e integrazione lavorativa costruiscono percorsi di riscatto in particolare a favore delle donne vittime di tratta. Ma la mappatura ha portato alla luce, in realtà, un’ampia varietà di risposte ed esperienze, dai dormitori per migranti in transito alle strutture educative per donne e bambini.
Quei ‘richiedenti asilo’ nel proprio Paese

Ambroise arriva per vie traverse dal Centrafrica. Djibril è scappato dalla nativa Libia a causa di una persecuzione religiosa. L’amico Mohammed si è salvato da una morte certa in Somalia. Ibrahim, espulso dalla casa di accoglienza dell’Alto Commissariato per le Nazioni Unite dove si trovava da un anno, è stato derubato della somma datagli per pagarsi l’affitto. Moussa era da giovanissimo rifugiato in Marocco e adesso si trova, sperso anche mentalmente, a Niamey in cerca di una direzione da dare alla sua traiettoria di vita.
Due giovani portatori dello stesso nome di origine etnica, Dinga, sono entrambi scappati dal Sudan del Sud, ultimo nato tra i Paesi riconosciuti che vive di guerra e di stenti. E poi tutti gli altri giovani, adulti, famiglie, donne e madri con figli. Accomunati da un’unica precaria identità. Richiedente asilo, porta scritto il documento rilasciato dalle competenti autorità locali. Grazie a questo effimero ‘riconoscimento’ con valore giuridico, essi godono di protezione umanitaria come ogni cittadino di questo Paese, il Niger, trasformatosi in “terra d’asilo”.
Si tratta di una dichiarazione di transitoria identità che sancisce uno stato di vita la cui durata può contarsi in mesi o anni. Queste persone, cittadini indefinibili, sono il simbolo forse più eloquente della condizione umana, della nostra condizione di creature di polvere.
Chiedere asilo e protezione, un luogo da vivere, una terra da camminare e un futuro da ricostruire è tutto quanto costituisce, assieme alle violenze e ferite, la nostra umanità perduta e, a volte, ritrovata. Non hanno una casa, una lingua da abitare, del cibo per nutrirsi, abiti per ripararsi e volti amici a cui confidare le loro lacrime. Sono, dei richiedenti asilo, il nostro specchio più autentico, vero e smascherato dagli orpelli delle retoriche umanitarie, filosofiche e talvolta traditrici, delle religioni. Siamo tutti uguali ma alcuni sono più uguali degli altri, diceva profeticamente George Orwell, scrittore e critico sociale di origine britannica.
La ‘Dichiarazione di Niamey’ della ‘Conferenza di Solidarietà Antimperialista con i Popoli del Sahel’, tenutasi la settimana scorsa, rivela una volta di più il dramma della nostra epoca e dell’Alleanza degli Stati del Sahel, Aes, in particolare. Si tratta della frattura tra fine perseguito e i mezzi per conseguirlo.
Si evidenzia il fossato tra una lettura storica delle cause della miseria del Sahel e la giustificazione dei colpi di stato. Questi ultimi sono letti come ‘incapacità degli Stati a proteggere gli stessi dall’aggressione imperiale francese e la complicità col terrorismo’. I golpe sono pure ‘espressione di malcontento popolare e appello al cambiamento’. Sappiamo per esperienza storica che tra il fine e i mezzi esiste un’inscindibile relazione di complicità. Anche il fine più nobile e degno, la sovranità e l’indipendenza totale, come richiamato nella Conferenza, sarà tradito se i mezzi non saranno in relazione col fine prefisso. Il richiedente asilo vive sulla sua pelle la distanza tra il riconoscimento della sua vulnerabilità e l’abbandono nella vita reale. Lo stesso baratro che esiste tra l’annuncio di una trasformazione politica radicale e la sua censura nella vita politica dei cittadini. Tra altisonanti proclami di sovranità e una propaganda da regime che offusca la condizione del quotidiano dei cittadini, diventati per buona parte, dei “richiedenti asilo” nel proprio Paese.
Afghanistan: non abbandoniamo i cittadini

“Seguo con grande preoccupazione la situazione in Afghanistan, e partecipo alla sofferenza di quanti piangono per le persone che hanno perso la vita negli attacchi suicidi avvenuti giovedì scorso, e di coloro che cercano aiuto e protezione. Affido alla misericordia di Dio Onnipotente i defunti e ringrazio chi si sta adoperando per aiutare quella popolazione così provata, in particolare le donne e i bambini. Chiedo a tutti di continuare ad assistere i bisognosi e a pregare perché il dialogo e la solidarietà portino a stabilire una convivenza pacifica e fraterna e offrano speranza per il futuro del Paese. In momenti storici come questo non possiamo rimanere indifferenti, la storia della Chiesa ce lo insegna. Come cristiani questa situazione ci impegna”.
In Libia si muore con l’aiuto dell’Italia

Nelle settimane scorse la Camera dei Deputati ha approvato ad amplissima maggioranza l’autorizzazione delle missioni militari all’estero, con il sì anche di Fratelli d’Italia che per la prima volta ha votato con la maggioranza che sostiene il governo Draghi. A sollevare i distinguo è stata, come in passato, la missione di cooperazione con la Guardia Costiera libica, con diversi deputati della maggioranza, prima 40 e poi 54, che in due votazioni ne hanno chiesto la sospensione.