P. Anataloni: ogni battezzato è missionario

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Ottobre è il mese missionario e nel messaggio per la Giornata missionaria papa Francesco ha scritto un messaggio intitolato ‘Battezzati e inviati: la Chiesa di Cristo in missione nel mondo’: “Celebrare questo mese ci aiuterà in primo luogo a ritrovare il senso missionario della nostra adesione di fede a Gesù Cristo, fede gratuitamente ricevuta come dono nel Battesimo. La nostra appartenenza filiale a Dio non è mai un atto individuale ma sempre ecclesiale: dalla comunione con Dio, Padre e Figlio e Spirito Santo, nasce una vita nuova insieme a tanti altri fratelli e sorelle. questa vita divina non è un prodotto da vendere (noi non facciamo proselitismo) ma una ricchezza da donare, da comunicare, da annunciare: ecco il senso della missione”.

A p. Gigi p. Anataloni, missionario e direttore del mensile ‘Missionari della Consolata’, abbiamo chiesto di spiegarci lo stretto nesso tra missione e battesimo: “Direi che il papa nel suo messaggio fa molto di più che invitare i battezzati ad essere missionari, come se l’essere missionari fosse un qualcosa in più, un’aggiunta all’essere battezzati. Le parole del Papa sono più radicali.

Non dice che perché io sono cristiano devo diventare missionario, ma che ‘io sono sempre una missione; tu sei sempre una missione; ogni battezzata e battezzato è una missione’. Afferma cioè che l’essere missionario e l’essere cristiano sono la stessa cosa. Una volta che uno è rinato in Cristo (nel battesimo), diventa come Cristo, è ‘rivestito di Cristo’, per usare le parole di san Paolo, e come Cristo è mandato. Discepolo (battezzato) e missionario sono le due facce di una stessa medaglia”.

In quale maniera la missione richiama il battesimo?
“Il battesimo è l’incontro con Dio Amore. E l’Amore per natura sua a contagioso, comunicante, ha bisogno di relazione, di dono, di gratuità. L’Amore se non si dona muore. Come una sorgente, che se smette di dare acqua perché dice di volerla tenere tutta per sé, è finita, scompare. E’ bella questa riscoperta della natura missionaria del battesimo, una riscoperta cominciata tanti anni fa con il Concilio Vaticano II che ha rilanciato due dimensioni importanti della vita cristiana: che tutti siamo chiamati alla santità e che tutti siamo missionari perché tutta la Chiesa è per sua natura missionaria.

La missione non è solo dei ‘professionisti della missione’ (i religiosi e i missionari classici che partivano per andare nei paesi dei non cristiani), ma appartiene a ogni cristiano, a tutti i cristiani. E’ un modo nuovo di capire e attuare quello che Gesù stesso ha detto quando ha affermato ‘voi siete la luce del mondo, voi siete il sale della terra’. Per usare un altro esempio (niente di nuovo, perché lo si usava già san Paolo)- possiamo dire che la vita cristiana è come una corsa (o maratona).

In ogni corsa c’è una partenza, un percorso e un arrivo. Col battesimo noi cominciamo la nostra corsa, e la nostra missione è arrivare alla fine, al traguardo. Non basta iscriversi alla corsa. La corsa si corre, si vive, per arrivare al traguardo. Questa è la missione. Iscriversi alla corsa (come purtroppo si fa molte volte col battesimo) e mettere la pettorina col numero e poi andare al bar a dire «io sono un podista, un atleta, un corridore» senza correre, è una presa in giro. Lo stesso è separare il battesimo dalla missione”.

A 100 anni dalla lettera apostolica di papa Benedetto XV, ‘Maximum illud’, cosa è la missione per la Chiesa?
“100 anni fa papa Benedetto XV ha dato una sferzata di vitalità a tutta la Chiesa soprattutto in un’Europa appena uscita dai disastri della Prima guerra mondiale. Fu un grande atto di coraggio per comunità cristiane che rischiavano di chiudersi in se stesse a piangere i propri problemi. Fu un richiamo ad una dimensione fondante del cristianesimo: se ci si rinchiude si muore, se ci si dona fino a morire si vive. Questo è ancora vero per noi oggi.

La realtà è molto cambiata. I protagonisti della missione oggi non sono più i cristiani del Nord del mondo, ma quelli delle nuove e vivaci comunità del Sud. Ma la sfida è sempre quella: se ci si piange addosso è la fine. Vivere la missione oggi è diventare testimoni del Vangelo a 360° e a chilometro zero. E’ diventare soggetti della propria storia di fede nella vita quotidiana, nella scuola, nel lavoro, nelle aule di giustizia, nella gestione della vita pubblica, nella cura dell’ambiente, nella costruzione della pace e della giustizia, nel dialogo con altre culture e religioni.

E’ un invito a smettere di piangerci addosso, a non cadere nella trappola di parlare di Chiesa come se fosse un mondo a parte, il ‘Vaticano’, il mondo dei preti e vescovi. E’ smettendo di accusare e di andare a caccia di scandali e colpe con atteggiamenti da giudici o da accusatori, per cominciare a metterci la faccia, a riconoscere che noi siamo la Chiesa, ed essere coerenti, cominciando a fare noi stessi quello che chiediamo agli altri”.

Nel messaggio il papa invita ad aprirsi ad altre culture: in quale modo?
“Oggi la testimonianza cristiana ha ampi spazi inediti di creatività: dall’educazione delle nuove generazioni alla promozione di una vita dignitosa per gli anziani, dalle nuove dimensioni della comunicazione all’impegno per l’ambiente, dalla lotta alla povertà alla difesa della vita, dalla rivoluzione del tessuto urbano ad una nuova gestione della produzione industriale e dei beni economici, dalle nuove relazioni tra i popoli all’accoglienza dei migranti e rispetto delle culture.

Medicina, politica, scienza, urbanistica, economia, giustizia sociale, difesa dei più deboli, recupero dei criminali e dei devianti… i cristiani hanno parole nuove da dire su questo, esperienze nuove da proporre. E lo possono fare con autorevolezza proprio perché credono in un progetto di uomo centrato in Gesù e non sul potere, sul denaro o sulla produttività. Mettersi in stato di missione aiuta ad essere uomini che guardano in avanti, che anticipano il futuro, che non vivono di nostalgia, che non si chiudono dietro muraglie fatte di ‘noi abbiamo sempre fatto così’.

Essere missionari è aprirsi al mondo, al nuovo al diverso, al lontano nella gioiosa scoperta che siamo una grande famiglia dove nessuno ha il monopolio della verità e quindi di Dio. In questa maniera si impara a conoscere, rispettare e amare anche le culture di altri paesi senza rinunciare mai alla propria. In questa maniera non ti relazioni con gli altri in base a stereotipi di colore, di razza, di provenienza, ma incontri l’altro come persona, con un nome, una storia, un volto preciso. E, conoscersi per nome vuol dire diventare fratelli, creare relazione, sentirsi parte della stessa famiglia. E questo fa la differenza”.

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