Rifugiati in Iraq, un parroco racconta

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“Siamo quasi senza speranza. La liberazione militare dei villaggi non è la soluzione, perché dopo la guerra c’è la rovina, e l’emigrazione è il primo pensiero di quelli che hanno lasciato le loro case”. Rayan Atto, pastore di una Chiesa caldea di Mar, ad Erbil, diceva così lo scorso 20 agosto. Al tempo, la Santa Sede si stava adoperando perché si garantisse una protezione internazionale ai rifugiati. E oggi, mentre a Parigi la coalizione voluta da Obama pensa a come intervenire contro lo Stato Islamico, e mentre la situazione si fa sempre più drammatica in Iraq, le sue parole, rimaste finora non pubblicate, risuonano come profetiche.

“La Cristianità non è finita in Iraq. Ma se la comunità internazionale non interviene presto, la cristianità potrebbe vivere l’ultimo capitolo della sua storia in Iraq.

In quei giorni, il Cardinal Fernando Filoni, prefetto della Congregazione dellEvangelizzazione dei Popoli, era arrivato in Iraq come inviato Papale, e passava proprio da Erbil. Portava con sé un decimo di un milione di dollari, la somma stanziata dal Papa per aiutare i rifugiati. E visitò in lungo e in largo i profughi ad Erbil.

Padre Atto, 35 anni, coordina circa 200 volontari e le comunità locali e internazionali a Erbil, per provvedere a cibo, acqua, vestiti ai rifugiati.

Raccontava che “la situazione critica dei cristiani che sono scappati ad Erbil sta peggiorando, nonostante tutti gli sforzi dell’arcidiocesi caldea di Erbil e della comunità caldea di Ankawa, un quartiere che per secoli è stato cristiano”. Lì, padre Atto ha registrato tutte le persone arrivate ad Erbil.

Lì la gente è stata prima dislocata in centri organizzati sotto la guida delle chiese Caldee, Siro.Cattolica e Siro ortodossa, con una capienza di circa 17 mila persone. Poi, quando non c’è stato più spazio, le persone sono state dislocate in case private o alberghi in costruzione con il permesso dei proprietari.

Ma nella settimana successiva all’arrivo del cardinal Filoni nuovi rifugiati sono arrivati ad Erbil. “Non nuovi rifugiati – specifica padre Atto – ma rifugiati che erano stati già dislocati in altre città come Dohuk, ma hanno deciso di muoversi verso Erbil dato che hanno visto che tutta l’attenzione internazionale è lì, e per quello sperano di trovare lì aiuto e sostegno”.

Il dramma dei cattolici però va anche oltre. Perché “emigrare – racconta padre Atto – è la prima cosa che viene in mente alle persone. E non solo tra i rifugiati. Anche le persone che prima vivevano in un Kurdistan pacifico, vorrebbero emigrare, se solo ne avessero l’occasione. Perché queste persone erano abituate a vivere in un certo benessere, che ora è scomparso. Ed è troppo dura per loro dover ricostruire tutto, dove già avevano costruito. Meglio spostarsi, meglio andare in Australia, in Germania, in America se se ne ha la possibilità, per ripartire da zero”.

Conclude padre Atto: “Il trauma vero è che i rifugiati non tornerebbero a casa, se potessero. Vorrebbero comunque crearsi una nuova vita altrove”.

Ma nonostante tutto, per padre Atto la Cristianità non è finita. Al limite, “siamo al penultimo atto, se la situazione non viene si risolve”.

Sono parole ancora attuali, quando il focus internazionale sembra ormai non concentrarsi più sui rifugiati in Iraq, nei giorni in cui Caritas Internationalis sta tenendo un incontro di alto livello sul tema a Roma.

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