#Artsakh. La verità è la prima vittima della guerra

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[Korazym.org/Blog dell’Editore, 13.10.2023 – Vik van Brantegem] – Ti benderesti gli occhi e mangeresti qualunque cosa qualcuno ti abbia dato da mangiare? NO? Allora smetti di lasciare che i media lo facciano per te. La verità è la prima vittima della guerra, di ogni guerra. Perché la gente è ancora sorpresa di questo adagio, che sembra di non aver mai sentito, e ogni volta che lo sente casca dal pero? Essere ignoranti della propria ignoranza è la malattia dell’ignoranza, che non può mai essere veramente curata, e ha come sintomo l’arroganza. E se non hai tempo per informarti, il tempo troverà te, impreparato per subire lo stesso destino delle persone per cui non hai avuto tempo quando era ancora tempo.

«Il mondo protegga ciò che rimane della cultura armena nel Nagorno-Karabakh. Se non lo facciamo, quale sarà la prossima cultura a scomparire?»

Ci siamo stati testimoni dal 27 settembre 2020 fino ad oggi, in riferimento all’Artsakh e Armenia, con guerre scatenate dall’Azerbajgian, che la verità è la prima vittima della guerra. I funzionari Azeri affermano come un mantra, che l’Azerbajgian non ha intenzione di iniziare una nuova guerra, ma “se l’Armenia ci attacca, non staremo seduti in silenzio”. Prima del 19 settembre 2023, l’Azerbajgian ha inventato quotidianamente violazioni del cessate il fuoco da parte armena. L’Azerbajgian ha affermato che l’Armenia ha iniziato la guerra dei 44 giorni del 2020. Ovviamente l’Azerbajgian incolperà l’Armenia per aver iniziato la prossima guerra. Invece, mai nella storia l’Armenia ha avviato un’offensiva militare contro l’Azerbajgian. L’Azerbajgian ha avviato offensive militari su piccola o larga scala contro l’Armenia e l’Artsakh, mentre gli armeni sono sempre stati in difesa.

La storia dell’inganno si ripeta ad ogni guerra e lo vediamo di nuovo nella guerra Hamas-Israele. Lo vedremo nella prossimo guerra dell’Azerbajgian contro l’Armenia, nel disinteresse della “comunità internazionale”, distratta da Hamas, come nel caso dell’Artsakh era distratta, prima dal Covid nel 2020 e poi dall’Ucraina nel 2022-23.

Il proverbio “la verità è la prima vittima della guerra” è spesso attribuito a Eschilo, ma l’attribuzione sembra non essere più antica del 1965.

Sebbene l’espressione “tutta la guerra è basata sull’inganno” è spesso attribuito a Sun Tzu (un generale e filosofo cinese, vissuto probabilmente fra il VI e il V secolo a.C., a cui si attribuisce uno dei più importanti trattati di strategia militare di tutti i tempi, L’arte della guerra), la citazione si riferisce in realtà ai metodi di sotterfugio in guerra e va oltre spiegando: “Quindi, quando siamo in grado di attaccare, dobbiamo sembrare incapaci; quando usiamo le nostre forze, dobbiamo apparire inattivi; quando siamo vicini, dobbiamo far credere al nemico che siamo lontani; quando siamo lontani, dobbiamo fargli credere che siamo vicini”.

Il lessicografo Samuel Johnson scrisse in un breve articolo sull’edizione dell’11 novembre 1758 della rivista The Idler [Il fannullone] la seguente affermazione tematicamente pertinente: “Tra le calamità della guerra si può giustamente annoverare la diminuzione dell’amore per la verità, a causa delle falsità dettate dall’interesse e incoraggiate dalla credulità”.

Il libro Memoirs of an American Lady [Le memorie di una signora Americana] (Samuel Campbell 1809) di Anne MacVicar Grant contiene un’affermazione simile all’adagio: “La verità è la prima vittima della paura e della politica; quando le cose arrivano a quella crisi, ognuno trova un interesse separato; poi muore la fiducia reciproca, che non può sopravvivere alla sincerità, e tutte le virtù affini cadono in successione”.

The Christian Work and The Evangelist [L’opera cristiana e l’evangelista] il 2 aprile 1904 pubblicò un breve articolo tematicamente correlato: “Il modo in cui un giorno le notizie dal luogo della guerra vengono riportate, il giorno dopo ribadite e ‘autorevolmente contraddette’, il giorno successivo illustra con forza il fatto che la verità spesso in tempo di guerra prende treni lenti e arriva alla stazione con molto ritardo”.

The Albany Evening Journal pubblicò una raccolta di “osservazioni varie” anonime, tra cui: “Negli elenchi delle vittime di questa guerra, la Verità occupa un posto cospicuo”. Nelle settimane successive l’osservazione fu ripresa in diversi altri periodici.

In un articolo nel quotidiano californiano The San Diego Union del 19 luglio 1915, viene citato un discorso tenuto da Ethel Annakin, la moglie del politico britannico Philip Snowden, denunciando il conflitto in corso tra Regno Unito e Germania: “Qualcuno ha detto che ‘la verità è la prima vittima della guerra’ e questo è stato dimostrato dalle spaventose idee sbagliate che sono state diffuse fin dall’inizio della guerra”. Annakin ha negato il merito della citazione fornendo un’attribuzione anonima.

Ethel Annakin utilizzò il detto con attribuzione anonima, negando il merito, come menzionato in precedenza, anche durante un discorso dal tema Woman and War [Le donne e la guerra] al 53° Incontro Annuale e Congresso Internazionale sull’Istruzione, tenutosi a Oakland in California dal 16 al 27 agosto 1915: “Qualcuno ha detto bene che ‘la verità è la prima vittima della guerra’; e non è mai stata detta una bugia più grande di quella secondo cui la guerra viene intrapresa per la protezione delle donne e delle case”.

L’adagio si trova nell’introduzione del membro del Parlamento britannico Philip Snowden al libro Truth and the war [La verità e la guerra] di Edmund Dene Morel (The National Labour Press 1916): “’La verità’, è stato detto, ‘è la prima vittima della guerra’. Quando scoppiano le ostilità l’unico obiettivo di ogni nazione belligerante è la vittoria. ‘Tutto è lecito in guerra’ e per garantire e mantenere l’unità nazionale a sostegno della guerra i rispettivi governi adottano ogni mezzo per reprimere le critiche”.

Nel 1929 i Senatori degli Stati Uniti discussero un accordo internazionale chiamato Trattato generale per la rinuncia alla guerra come strumento di politica nazionale. Il Senatore Hiram Johnson della California non era soddisfatto dell’accordo, perché credeva che fosse meramente simbolico e inefficace, votando tuttavia a favore della legislazione. The Baltimore Sun pubblicò il 16 gennaio 1929 la seguente osservazione di Johnson: “La prima vittima quando arriva la guerra è la verità, e ogni volta che c’è una guerra, e ogni volta che una singola nazione cerca di costringerne un’altra con la forza delle armi, agisce sempre e insiste sempre di agire per legittima difesa”.

Nella sua rubrica Good Morning di Malcolm W. Bingay sul Detroit Free Press del 1° dicembre 1950, l’editorialista scrisse, riportando diversi detti sul dire bugie: ”Eschilo disse che ‘Dio non è contrario all’inganno in una causa santa’. Ci vuole una ginnastica mentale molto blanda per far credere a qualsiasi politico, statista o soldato che la sua causa sia sacra e quindi giusto mentire”. Poche frasi dopo, Bingay scrive (senza rivelare la fonte del “antico proverbio”): “C’è anche un antico proverbio che dice che in guerra ‘la verità è la prima vittima’. Non c’è mai stata una guerra che non sia stata iniziata dalla menzogna”.

The First Casualty. From the Crimea to Vietnam: the War Correspondent As Hero, Propagandist, and Myth Maker [La prima vittima. Dalla Crimea al Vietnam: il corrispondente di guerra come eroe, propagandista e creatore di miti] (Harcourt 1975) di Philip Knightley è una storia di inganni in guerra. È tutto lì dentro. In questa sua avvincente, ormai classica storia del giornalismo di guerra, Phillip Knightley mostra quanto è vero che “la prima vittima quando arriva la guerra è la verità”.
Da William Howard Russell, che descrisse le terribili condizioni della guerra di Crimea su The Times di Londra, alle schiere di reporter, fotografi e cameraman che catturarono la realtà della guerra in Vietnam, The First Casualty racconta un’affascinante storia di eroismo e collusione, censura e repressione.
Dopo il Vietnam, rivela Knightley, i governi sono diventati molto più abili nella gestione dei media, come evidenziato nei capitoli sulla guerra delle Falkland, sulla guerra del Golfo e sul conflitto tra NATO e Serbia sul Kosovo. E in un nuovo capitolo sulle guerre post-11 settembre in Afghanistan e Iraq, Knightley descrive nei dettagli livelli ancora maggiori di manipolazione del governo e complicità dei media, come evidenziato dall’”incorporamento” di reporter in unità militari e dalla copertura acritica e apertamente patriottica di questi conflitti. “L’epoca del corrispondente di guerra come eroe”, conclude, “sembra essere finita”. Aggiornato nel 2004, The First Casualty rimane una lettura obbligata per chiunque sia preoccupato per la libertà di stampa, la responsabilità giornalistica e la natura della guerra moderna.

“La parte azera chiama l’Armenia “Azerbajgian occidentale”, lo ha già fatto prima in questa assemblea. Non interrompermi! Non è necessario essere un genio per capire che l’Azerbajgian minaccia l’ordine internazionale” (Ruben Rubinyan, Capo della delegazione armena presso l’Assemblea Parlamentare del Consiglio Europeo-PACE).

L’autocrate dell’Azerbajgian, Ilham Aliyev, ritiene che il “diritto internazionale” lo autorizzi a compiere tutti gli abusi sul territorio che egli decide che è suo in seguito alle decisioni dei tiranni che lo hanno preceduto. I fatti gli danno drammaticamente ragione. Nell’Artsakh fu speso il sangue degli Armeni ma era la coscienza del mondo a spegnersi.

«Gli Armeni descrivono il separatismo del Karabakh come un movimento pacifico, ma in realtà era tra le regioni più pesantemente armate del mondo. Questi separatisti hanno devastato le città azere per decenni» (Azeri Times).

«Se pensate che i separatisti Armeni nella regione di Garabagh in Azerbajgian fossero un gruppo di pacifici “combattenti per la libertà”, vi sbagliate profondamente. Erano forze pesantemente armate e addestrate – principalmente dall’Armenia e da formazioni armate locali – che hanno terrorizzato i civili Azeri per 30 anni. L’esistenza del separatismo armato sul suolo sovrano dell’Azerbajgian è stato un grosso ostacolo alla pace con l’Armenia, che ha continuato a finanziare e sostenere questo separatismo dopo la guerra del 2020. Ora c’è un’occasione storica per firmare un accordo di pace e l’Armenia non dovrebbe perderla» (Nasimi Aghayev, Ambasciatore dell’Azerbajgian in Germania).

Ha dell’incredibile: i rappresentanti mediatiche e diplomatiche dell’Azerbajgian affermano con un esercito di difesa di nemmeno 10.000 uomini e una popolazione di 100.000 Armeni, che hanno sopraffatto in un blitz terroristico in 24 ore il 19-20 settembre, erano un pericolo che ha terrorizzato per 30 anni le gloriose forze armate azere e il loro comandante in capo Ilham Aliyev. Poi, insistono in modo ossessivo compulsivo sul “separatismo” di uno Stato che non ha mai fatto parte dell’Azerbajgian indipendente e come l’Azerbajgian sovietico ha dichiarato la propria indipendenza dall’Unione Sovietica.

«Si scopre che, per essere felice, al Presidente dell’Azerbajgian è mancata la presenza del Primo Ministro dell’Armenia. Aliyev a Bishkek ha cercato Nikol Pashinyan ma non lo ha trovato. Il Presidente dell’Azerbaigian, nella frenesia per incontrare Putin a Bishkek, ha criticato pubblicamente il Primo Ministro armeno: “Nikol Pashinyan è partito per un incomprensibile incontro di 6 ore a Granada, in Spagna, ma per diverse ore non ha potuto volare a Bishkek per il vertice della CSI”. Aliyev ha anche osservato: “Il Primo Ministro dell’Armenia è volato a Granada per sei ore, ha preso parte a un incontro incomprensibile in cui si discuteva dell’Azerbajgian senza l’Azerbajgian, ma non ha potuto volare a Bishkek per 2-3 ore perché ha degli affari importanti. Questo è ciò che dovremmo dire tutti apertamente”.
E perché Aliyev si aspettava di vedere Nikol Pashinyan a Bishkek? Dopo aver ingoiato il Nagorno-Karabakh con la guerra del 19 settembre, Aliyev vuole concretizzare questo fatto. Si è rifiutato di andare a Granada per negoziare con Pashinyan. Aliyev ha evitato di partecipare all’incontro con la partecipazione di Macron, Scholz e Michel.
Ma avevano concordato con la Russia di tenere i negoziati a Bishkek. La parte russa ha riferito che il 12 ottobre a Bishkek avrebbe potuto svolgersi un incontro dei Ministri degli Esteri di Armenia, Russia e Azerbajgian. Tuttavia, Yerevan ha riferito che l’Armenia sarà rappresentata alla riunione dei Ministri degli Esteri a livello di Viceministro degli Esteri. Nemmeno il Primo Ministro Nikol Pashinyan è andato a Bishkek “a causa di una serie di circostanze”.
Aliyev ha notato avantieri che la parte azera “accetta con gratitudine” la mediazione della Russia. “La Russia è il nostro vicino e alleato. Abbiamo accettato positivamente questa proposta e il nostro Ministro degli Esteri è pronto a incontrare i suoi omologhi russo e armeno. Sfortunatamente, la parte armena ha rifiutato questo incontro. Ora sorge la domanda: l’Armenia vuole la pace? Penso di no, perché se avessero voluto la pace, non avrebbero rinunciato a questa opportunità”, ha detto Aliyev.
In realtà, Aliyev non vuole la pace perché ha boicottato il formato occidentale del negoziato (l’incontro a cinque a Granada). Registriamo che Aliyev critica il Primo Ministro armeno per aver scelto il formato occidentale e non aver partecipato al formato russo. A Bishkek, Aliyev ha chiaramente dimostrato che la Russia è il suo alleato e che la mediazione russa è preferibile a quella occidentale.
Aliyev e Putin avrebbero cercato di organizzare un incontro tripartito a Bishkek se anche Nikol Pashinyan fosse andato a Bishkek. Penso che Yerevan mostri la sua sfiducia nei confronti della Russia. La parte armena non solo boicotta i negoziati con l’Azerbajgian nel formato russo, ma mostra anche il suo disinteresse per la Comunità degli Stato Indipendenti, guidata dalla Russia.
Aliyev è entusiasta della mediazione di Putin e della Russia perché, grazie alla parte russa, ha ingoiato il Nagorno-Karabakh nella sua interezza, a seguito della quale 100.000 Armeni sono stati sfollati con la forza.
A Bishkek si è svolto l’incontro dei Presidenti di Russia e Azerbaigian, il cui focus è stato il futuro destino delle forze di mantenimento della pace in Karabakh. “Prima di tutto, ovviamente, discuteremo delle questioni relative al Karabakh. Innanzitutto discutiamo delle questioni relative alle relazioni bilaterali con i nostri colleghi, e poi faccia a faccia con questioni delicate”, ha detto Vladimir Putin.
Prima dell’incontro Aliyev-Putin, l’assistente del Presidente russo ha rivelato questo programma: i due presidenti discuteranno questioni relative alla situazione in Karabakh, all’integrazione pacifica degli Armeni del Karabakh nel quadro giuridico dell’Azerbajgian e alla preservazione dei diritti e delle libertà accettati a livello internazionale.
La missione di mantenimento della pace russa è pronta a sostenerlo. Non è escluso che Putin convinca Aliyev che force di mantenimento della pace russe restino nel Nagorno-Karabakh. È probabile che Aliyev acconsentirà.
La Francia sta preparando una risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, con la quale dovrebbero essere garantite le condizioni per il ritorno degli Armeni del Nagorno-Karabakh. Esiste il pericolo per l’Azerbajgian che l’ONU decida di inviare una missione internazionale di mantenimento della pace nel Nagorno-Karabakh. Per evitare di stabilire una presenza occidentale in Karabakh, l’Azerbajgian probabilmente consentirà ai Russi di rimanere fino al 2025. Pertanto, l’Azerbajgian potrà affermare che esiste già una forza di mantenimento della pace internazionale (in realtà russa) in Karabakh.
I Russi hanno bisogno di Aliyev in Karabakh per bloccare l’ingresso dell’Occidente. E i Russi in questa fase vorrebbero restare in Karabakh per salvarsi dall’imbarazzo finale, affinché il fallimento diplomatico russo in Karabakh non diventi evidente. I Russi rimarranno in Karabakh se gli Armeni torneranno.
Si spera che gli Armeni del Karabakh che hanno trovato rifugio in Armenia non si arrendano volontariamente come ostaggi al tandem russo-azerbajgiano e non ritornino in Karabakh senza l’introduzione delle misure più sicure di meccanismi internazionali.
Nikol Pashinyan parlerà alla sessione plenaria del Parlamento Europeo il 18 ottobre.
Ieri l’Assemblea Parlamentare del Consiglio Europeo ha approvato a stragrande maggioranza dei voti la risoluzione sul Nagorno-Karabakh, che considera quanto accaduto nell’Artsakh equivalente ad una pulizia etnica» (Robert Ananyan – Nostra traduzione italiana dall’inglese).

L’Azerbajgian ha utilizzato un programma di spionaggio per sorvegliare alcuni funzionari Armeni, come delineato nella risoluzione adottata dall’Assemblea Parlamentare del Consiglio Europeo (PACE). La risoluzione menziona che alcuni Atati membri hanno abusato dei programmi di spionaggio, e l’Azerbajgian è tra questi. Secondo i dati disponibili, le autorità azere hanno utilizzato i servizi del programma di spionaggio Pegasus per condurre la sorveglianza di giornalisti, proprietari di media non governativi, oppositori politici e attivisti della società civile. “Recenti rapporti hanno dimostrato il suo utilizzo in relazione al conflitto armeno-azerbajgiano contro 12 persone che lavoravano in Armenia, tra cui un rappresentante del governo armeno, che è probabilmente un esempio di sorveglianza mirata transnazionale”, afferma la risoluzione. PACE ha invitato le autorità di diversi Paesi membri a indagare sui casi di utilizzo di programmi di spionaggio e a fornire spiegazioni.

L’11 ottobre 34 paesi hanno rilasciato una dichiarazione congiunta durante la 54ª sessione del Consiglio dei Diritti Umani delle Nazioni Unite a Ginevra, esprimendo estrema preoccupazione per la terribile crisi umanitaria e dei diritti umani nel Nagorno-Karabakh.
L’Italia non ha firmato, come la Russia e la Turchia. Almeno l’Italia è stato chiaro e coerente nella complicità con il genocidio armeno 2023.
Di seguito è riportato il comunicato completo nella nostra traduzione italiana dall’inglese, con l’elenco dei Paesi che hanno firmato:
«Siamo estremamente preoccupati per la terribile crisi umanitaria e dei diritti umani nel Nagorno-Karabakh e per la situazione della popolazione che è fuggita da lì nelle ultime settimane.
Secondo il rapporto della missione delle Nazioni Unite nella regione, quasi l’intera popolazione armena del Nagorno-Karabakh è fuggita in Armenia – più di 100.000 persone. Il loro rapporto sottolinea giustamente la sofferenza che questa esperienza deve aver causato.
Questo massiccio sfollamento di Armeni dalle loro case deriva dall’operazione militare dell’Azerbajgian lanciata il 19 settembre e dal blocco durato nove mesi del Corridoio di Lachin che ha portato a condizioni umanitarie disastrose.
Apprezziamo che la dichiarazione dell’Alto Commissario Turk del 26 settembre abbia esortato a salvaguardare i diritti degli Armeni, la protezione dei civili e il rispetto del diritto internazionale. Siamo pienamente d’accordo sul fatto che “le violazioni segnalate dei diritti umani o del diritto umanitario internazionale richiedono un follow-up, comprese indagini tempestive, indipendenti e trasparenti”.
Crediamo che il prossimo passo appropriato sia che l’OHCHR monitori da vicino la situazione dei diritti umani nel Nagorno-Karabakh, incontri i rifugiati, gli sfollati e coloro che rimangono, e tenga informato questo Consiglio. Esortiamo pertanto Armenia e Azerbajgian a invitare l’OHCHR e a fornire loro tale assistenza tecnica il prima possibile.
“In questo momento, esortiamo l’Azerbaigian a garantire i diritti e la sicurezza degli armeni del Nagorno-Karabakh che rimangono e a creare tempestivamente le condizioni per il ritorno volontario, sicuro, dignitoso e sostenibile di coloro che desiderano tornare a casa. Anche il loro patrimonio culturale e religioso dovrebbe essere garantito e protetto.
Esortiamo inoltre l’Azerbajgian a rispettare le misure provvisorie emesse dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo il 22 settembre e le misure provvisorie della Corte Internazionale di Giustizia adottate il 7 dicembre 2021, 22 febbraio 2023 e 6 luglio 2023.
Esortiamo l’Armenia, con il sostegno della comunità internazionale, a continuare a fornire assistenza umanitaria agli sfollati a causa della crisi.
L’accesso internazionale al Nagorno-Karabakh è fondamentale per fornire assistenza e monitoraggio indipendente, compreso per riferire sulla situazione dei diritti umani.
Inoltre, la sovranità e l’integrità territoriale sia dell’Armenia che dell’Azerbajgian dovrebbero essere pienamente rispettate. Sosteniamo fermamente il dialogo tra tutte le parti per garantire una pace globale e duratura.
Continueremo a seguire da vicino la situazione e prenderemo in considerazione ogni ulteriore passo opportuno da parte del Consiglio.
Armenia
Australia
Austria
Belgio
Bulgaria
Canada
Croazia
Cipro
Danimarca
Estonia
Finlandia
Francia
Germania
Grecia
Islanda
Irlanda
Giappone
Lettonia
Liechtenstein
Lituania
Lussemburgo
Malta
Paesi Bassi
Nuova Zelanda
Norvegia
Portogallo
Spagna
Slovacchia
Slovenia
Svezia
Svizzera
Regno Unito
Uruguay
Stati Uniti

«Il Ministero del Lavoro e della Protezione Sociale della Popolazione dell’Azerbajgian ha creato un rifugio per le persone appartenenti a gruppi vulnerabili a Khankendi [Stepanakert]. In totale 11 persone utilizzano questo rifugio. Alle persone vengono forniti pasti caldi tre volte al giorno. Ci sono 30 posti letto in totale. I rappresentanti del Comitato Internazionale della Croce Rossa visitano il rifugio più volte durante il giorno, si informano sulle condizioni e si informano sull’approvvigionamento alimentare e sui servizi sociali forniti» (Könül Şahin, scrittore presso Ankara Policy Center).
Wow, 11 persone, con la capacità per 30 persone. Könül è fantastica.

Gli Armeni hanno lasciato l’Artsakh “di loro spontanea volontà” o sono stati sfollati con la forza? Sfollati con la forza: USA, Canada, Germania, Unione Europea, Nazioni Unite. Di loro spontanea volontà: Azerbajgian, Turchia, Russia. «Scusate, conoscete una persona che abbandona la sua casa di sua spontanea volontà? Per favore fatemelo sapere se ne conoscete una» (Marut Vanyan).

Gor, 13 anni, dell’Artsakh, ha raccontato come, dopo aver guidato per 55 ore, è riuscito a portare tutta la sua famiglia in Armenia a causa dello sfollamento forzata da parte dell’Azerbajgian: sua madre, sua sorella, i suoi figli e i nonni. Dice di essersi spaventato solo al posto di blocco, quando suo nonno è stato portato via per un’ispezione.

«“Tre proiettili molto grandi sono esplosi, gettando in aria tutta la terra da sotto i nostri piedi”, diceva Gurgen, 7 anni, dal suo letto d’ospedale nella capitale regionale di Stepanakert, a 30 km dal suo villaggio”. Dopo un viaggio di 30 ore, anche Gurgen, sua madre e i suoi quattro fratelli, raggiunsero Goris, con solo gli abiti che indossavano quando fuggirono dai bombardamenti. Come rifugiati, hanno ricevuto un alloggio temporaneo in un ostello in una città vicina, avendo lasciato tutto a Sarnaghbyur» (Siranush Sargsyan).

Come una comunità ha lottato per la sopravvivenza tra le bombe dell’Azerbajgian. L’Azerbajgian ha affermato che gli Armeni hanno lasciato il Nagorno-Karabakh di propria iniziativa. La storia di un villaggio dimostra il contrario di Olivia Katrandjian e Siranush Sargsyan – Open Democracy, 12 ottobre 2023 [QUI].

La chiesa armeno di Surb Karapet ad Abrakunis (Nakhichevan occupato dagli Azeri) fu costruito nel 1280. Durante gli anni sovietici era considerato un monumento di importanza per tutta l’Armenia. È stato completamente demolito il 7 ottobre 2001 per ordine del Presidente dell’Azerbajgian, Heydar Aliyev. Nel 2013, per ordine del suo figlio e successore, Ilham Aliyev, è stata costruita una moschea sulle fondamenta di questa antica chiesa armena distrutta, in modo che gli Armeni non potessero mai ricostruire il loro santuario in futuro. Le autorità dell’Azerbajgian, guidate da Aliyev, negano falsamente il fatto stesso che questa chiesa (come migliaia di altre chiese armene da loro distrutte) sia mai esistita. L’UNESCO è un’organizzazione inutile e senza valore quando si tratta degli Armeni.

Un uomo cammina verso la statua “Noi siamo le nostre montagne” di Sargis Baghdasaryan a Stepanakert, simbolo dell’eredità armena nella regione del Nagorno-Karabakh il 12 novembre 2020 (Foto di Alexander Nemenov/AFP).

Che aspetto ha il genocidio culturale degli Armeni nel Nagorno-Karabakh
di Cristina Maranci [*]
Time, 12 ottobre 2023

(Nostra traduzione italiana dall’inglese)

Il settembre 2023 ha visto la partenza tumultuosa e traumatica di oltre 100.000 Armeni dal Nagorno-Karabakh. Questo esodo di massa di un popolo indigeno dalla propria terra d’origine è seguito a nove mesi di fame a causa del blocco, culminati in un assalto militare omicida il 19 settembre.

Questi uomini, donne e bambini, terrorizzati per la propria vita, hanno lasciato dietro di sé interi mondi: le loro scuole e i loro negozi; i loro campi, greggi e vigne; i cimiteri dei loro antenati. Lasciarono anche le chiese, grandi e piccole, antiche e più moderne, magnifiche e modeste, dove per secoli si erano riuniti e pregavano. Hanno lasciato dietro di sé anche ponti, fortificazioni, palazzi della prima età moderna e monumenti dell’era sovietica, come l’amata statua “Noi siamo le nostre montagne”. Cosa accadrà ora a quei luoghi? Non ci sono dubbi, in realtà.

Sappiamo bene cosa è successo a Julfa, nel Nakhichevan: uno spettacolare paesaggio di lapidi armene del XVI secolo è stato cancellato dalla faccia della terra dall’Azerbajgian nel corso degli anni. Sappiamo cosa è successo alla Chiesa della Madre di Dio a Jebrayil e al cimitero armeno nel villaggio di Mets Tagher (o Böyük Taglar): entrambi sono stati completamente cancellati dal paesaggio, utilizzando attrezzature per il movimento terra come i bulldozer. E sappiamo cosa è successo alla cattedrale di Ghazanchetsots a Shushi, che è stata, a sua volta, bombardata, vandalizzata con graffiti, “restaurata” senza la sua cupola armena, e ora ribattezzata tempio “Cristiano”. La sfrontatezza di queste azioni, come ha scritto il giornalista Joshua Kucera nel maggio 2021, “suggerisce una crescente fiducia che [Baku] possa rifare i territori appena riconquistati con qualunque immagine vogliano”.

L’annientamento di millenni di vita armena ad Arstakh è stato reso possibile dall’inazione e dall’apparente indifferenza di coloro che avrebbero potuto impedirlo. Gli Stati Uniti e l’Unione Europea parlano in maniera enfatica dei diritti umani universali, ma non hanno fatto nulla per nove mesi mentre alla popolazione di Arstakh sono stati negati cibo, medicine, carburante e altri beni di prima necessità. Non hanno fatto nulla per far rispettare l’ordine della Corte Internazionale di Giustizia che chiedeva nel febbraio 2023 che l’Azerbajgian ponesse fine al blocco. Questa inazione ha chiaramente incoraggiato l’Azerbajgian ad attaccare, proprio come incoraggerà altri a fare lo stesso altrove.

È importante comprendere la posta in gioco di questo tipo di cancellazione culturale: questi monumenti e pietre testimoniano le generazioni di Armeni che li veneravano e si prendevano cura di loro. Distruggerli significa cancellare non solo una cultura, ma un popolo. Come ha osservato lo storico dell’arte Barry Flood nel 2016 a proposito della distruzione del patrimonio culturale da parte del cosiddetto Stato islamico a partire dal 2014, “la distruzione fisica dei tessuti connettivi comuni – gli archivi, i manufatti e i monumenti in cui sono state esemplificate complesse micro-storie – significa che ora ci sono cose su questo passato che non possono e non saranno mai conosciute”. Il cimitero di Julfa è un tragico esempio di tale perdita.

Se la storia è un’indicazione, la pulizia etnica tende ad essere seguita da tutti i tipi di distruzione culturale, dal vandalismo alla completa cancellazione dal paesaggio. Quest’ultima tattica verrà utilizzata con le chiese più piccole e meno conosciute. Sarà un modo sinistro per rimuovere i monumenti armeni meno famosi, che servirà a raccontare che non c’erano Armeni lì all’inizio del periodo moderno.

Si verificherà anche una falsificazione, in cui ai monumenti armeni verranno forniti storie e contesti di nuova creazione. I monasteri del XIII secolo di Dadivank (nel distretto di Kalbajar) e Gandzasar (nella provincia di Martakert), entrambi magnifici e caratteristici esempi di architettura armena medievale, sono già stati ribattezzati “antichi templi albanesi caucasici”. Aspettatevi che questi e altri siti diventino sedi di conferenze e workshop per mettere in risalto “l’antica cultura albanese caucasica”. Per quanto riguarda le innumerevoli iscrizioni armene su questi edifici, khachkar e lapidi: queste, come ha annunciato il Presidente dell’Azerbaigian Ilham Aliyev nel febbraio 2021, sono falsi armeni e saranno “riportate” al loro “aspetto originale” (presumibilmente attraverso scriccatura, sabbiatura, o rimozione delle pietre iscritte in armeno, come è stato fatto negli anni ’80).

Infine, si celebrerà il “multiculturalismo” dell’Azerbajgian. “Vieni in Karabakh, patria degli antichi Cristiani”, dirà la gente. “Per favore, ignora le lettere scavate su quel muro di pietra, perché non è un’iscrizione armena. Non ci sono mai stati Armeni qui!” Fatta eccezione per i soldati e gli invasori, come quelli raffigurati in un riprovevole museo a Baku, con figure di cera di soldati Armeni morti – uno spettacolo così disumanizzante che un’organizzazione internazionale per i diritti umani, compresi gli attivisti Azeri, ha invocato a gran voce la sua chiusura.

Ecco come si svolge il genocidio culturale. Poco più di 100 anni fa ci fu il genocidio armeno intrapreso dall’Impero Ottomano, seguito da saccheggi su larga scala, atti di vandalismo e distruzione dei siti armeni in quella che oggi è la moderna Turchia. La prospettiva di un secondo genocidio culturale è ora sul tavolo. Tranne ora, gli Armeni guarderanno lo spettacolo svolgersi online, sopportando il trauma sito per sito e monumento dopo monumento.

Nel 2020, gli attivisti Armeni hanno chiesto il monitoraggio internazionale dei siti vulnerabili nel Nagorno-Karabakh da parte dell’UNESCO e di altre organizzazioni del patrimonio. Non è successo niente. Ora è il momento che il mondo protegga ciò che rimane della cultura armena nel Nagorno-Karabakh. Se non lo facciamo, quale sarà la prossima cultura a scomparire?

[*] Christina Maranci è professore della storica cattedra Mashtots in Studi armeni presso il Dipartimento di Lingue e Civiltà del Vicino Oriente e il Dipartimento di Storia dell’Arte e dell’Architettura dell’Università di Harvard.

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