“Chi non accetta il Concilio Vaticano II è fuori della Chiesa”. “Provocare lo scisma”, respinto al mittente
Coloro che criticano il Concilio Vaticano II o non lo seguono, sono fuori dalla Chiesa, secondo Papa Francesco. “Il Concilio è magistero della Chiesa. O tu stai con la Chiesa e pertanto segui il Concilio, e se tu non segui il Concilio o tu l’interpreti a modo tuo, come vuoi tu, tu non stai con la Chiesa. Dobbiamo in questo punto essere esigenti, severi. Il Concilio non va negoziato”. Lo ha detto Papa Francesco il 30 gennaio 2021 nell’Udienza all’Ufficio catechistico della Conferenza Episcopale Italiana. “Per favore nessuna concessione a coloro che cercano di presentare una catechesi che non sia in accordo con il magistero della Chiesa”, ha aggiunto il Papa [QUI].
Condivido da Stilum Curiae di oggi, 2 febbraio 2021 le riflessioni dell’Avv. Giovanni Formicola sulle parole pronunciate dal Pontefice regnante a proposito del Concilio Vaticano II. “Parole, che come vediamo da quanto scrive Formicola, possono rivelarsi un arma a doppio taglio. Perché se possono colpire quanti rifiutano il Concilio Vaticano II, egualmente – se si sta a quanto il Concilio ha realmente detto – suonano a condanna di prese di posizione, decisioni e persino Esortazioni apostoliche (Amoris lætitia, per esempio…) non lontane dal Sacro Soglio…” (Marco Tosatti).
Poi, segue dal diario Facebook del Prof. Viglione di ieri il post “Respinto al mittente” sullo stesso argomento.
Chi non segue il Vaticano II è fuori della Chiesa. Ma… Amoris lætitia? E il latino?…
Le riflessioni dell’Avv. Giovanni Formicola
Papa Francesco, parlando ai partecipanti all’incontro promosso dall’Ufficio Catechistico Nazionale Della CEI, sabato 30 gennaio 2021, ha detto: «O tu stai con la Chiesa e pertanto segui il Concilio, e se tu non segui il Concilio o tu l’interpreti a modo tuo, come vuoi tu, tu non stai con la Chiesa».
Finalmente!, allora, si potrà dire che non sta con la Chiesa (ne è fuori?), perché non segue il Concilio [Vaticano II] o lo interpreta a modo suo, per esempio:
– chi intenda proscrivere e comunque contrasti l’uso del latino nella sacra liturgia e nell’uso comune di chierici e fedeli
«36. L’uso della lingua latina, salvo diritti particolari, sia conservato nei riti latini. «54. […] Si abbia cura però che i fedeli sappiano recitare e cantare insieme, anche in lingua latina, le parti dell’ordinario della messa che spettano ad essi. «101. Secondo la secolare tradizione del rito latino, per i chierici sia conservata nell’ufficio divino la lingua latina» (Costituzione sulla sacra liturgia Sacrosanctum Concilium);
– chi pensi che, magari all’esito d’un certo discernimento, adulterio e divorzio possano avere un legittimo spazio, ovvero essere tollerati con conseguenze sull’accesso ai sacramenti dei vivi, nella vita cristiana, che viene ridotta sul punto a un mero ideale astratto, ma di fatto impraticabile
«49. L’amore coniugale. […] Questo amore è espresso e sviluppato in maniera tutta particolare dall’esercizio degli atti che sono propri del matrimonio. Ne consegue che gli atti coi quali i coniugi si uniscono in casta intimità sono onesti e degni; compiuti in modo veramente umano, favoriscono la mutua donazione che essi significano ed arricchiscono vicendevolmente nella gioia e nella gratitudine gli sposi stessi. Quest’amore, ratificato da un impegno mutuo e soprattutto consacrato da un sacramento di Cristo, resta indissolubilmente fedele nella prospera e cattiva sorte, sul piano del corpo e dello spirito; di conseguenza esclude ogni adulterio e ogni divorzio. […].
51. […] La Chiesa ricorda […] che non può esserci vera contraddizione tra le leggi divine, che reggono la trasmissione della vita, e quelle che favoriscono l’autentico amore coniugale»;
– chi neghi la dottrina della guerra giusta (su quella santa, torneremo), e professi un pacifismo senza se e senza ma, abrogando in ogni caso il diritto alla guerra (ius ad bellum) e il diritto di guerra (ius in bello), e condanni la professione militare, teorizzando il dovere dell’obiezione di coscienza
«79. […] La guerra non è purtroppo estirpata dalla umana condizione. E fintantoché esisterà il pericolo della guerra e non ci sarà un’autorità internazionale competente, munita di forze efficaci, una volta esaurite tutte le possibilità di un pacifico accomodamento, non si potrà negare ai governi il diritto di una legittima difesa. I capi di Stato e coloro che condividono la responsabilità della cosa pubblica hanno dunque il dovere di tutelare la salvezza dei popoli che sono stati loro affidati, trattando con grave senso di responsabilità cose di così grande importanza. Ma una cosa è servirsi delle armi per difendere i giusti diritti dei popoli, ed altra cosa voler imporre il proprio dominio su altre nazioni. La potenza delle armi non rende legittimo ogni suo uso militare o politico. Né per il fatto che una guerra è ormai disgraziatamente scoppiata, diventa per questo lecita ogni cosa tra le parti in conflitto.
Coloro poi che al servizio della patria esercitano la loro professione nelle file dell’esercito, si considerino anch’essi come servitori della sicurezza e della libertà dei loro popoli; se rettamente adempiono il loro dovere, concorrono anch’essi veramente alla stabilità della pace» (Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et Spes);
– chi condanni come proselitismo la missione di conversione (cfr. Redemptoris Missio, n. 46) e dichiari di non amarla (la conversione), trascurando che solo in Cristo e nella Chiesa è ordinariamente la salvezza
«7. La ragione dell’attività missionaria discende dalla volontà di Dio, il quale “vuole che tutti gli uomini siano salvi e giungano alla conoscenza della verità. Vi è infatti un solo Dio, ed un solo mediatore tra Dio e gli uomini, Gesù Cristo, uomo anche lui, che ha dato se stesso in riscatto per tutti” (1 Tm 2,4-6), “e non esiste in nessun altro salvezza” (At 4,12). È dunque necessario che tutti si convertano al Cristo conosciuto attraverso la predicazione della Chiesa, ed a lui e alla Chiesa, suo corpo, siano incorporati attraverso il battesimo. Cristo stesso infatti, “ribadendo espressamente la necessità della fede e del battesimo (cfr. Mc 16,16; Gv 3,5), ha confermato simultaneamente la necessità della Chiesa, nella quale gli uomini entrano, per così dire, attraverso la porta del battesimo. Per questo non possono salvarsi quegli uomini i quali, pur sapendo che la Chiesa cattolica è stata stabilita da Dio per mezzo di Gesù Cristo come istituzione necessaria, tuttavia rifiutano o di entrare o di rimanere in essa”. Benché quindi Dio, attraverso vie che lui solo conosce, possa portare gli uomini che senza loro colpa ignorano il Vangelo a quella fede “senza la quale è impossibile piacergli”, è tuttavia compito imprescindibile della Chiesa, ed insieme suo sacrosanto diritto, diffondere il Vangelo; di conseguenza l’attività missionaria conserva in pieno – oggi come sempre – la sua validità e necessità. Grazie ad essa il corpo mistico di Cristo raccoglie e dirige ininterrottamente le sue forze per promuovere il proprio sviluppo. A svolgere questa attività le membra della Chiesa sono sollecitate da quella carità con cui amano Dio e con cui desiderano condividere con tutti gli uomini i beni spirituali della vita presente e della vita futura. Grazie a questa attività missionaria, infine, Dio è pienamente glorificato, nel senso che gli uomini accolgono in forma consapevole e completa la sua opera salvatrice, che egli ha compiuto nel Cristo. Sempre grazie ad essa si realizza il piano di Dio, a cui Cristo in spirito di obbedienza e di amore si consacrò per la gloria del Padre che l’aveva mandato che tutto il genere umano costituisca un solo popolo di Dio, si riunisca nell’unico corpo di Cristo, sia edificato in un solo tempio dello Spirito Santo» (Decreto sull’attività missionaria della Chiesa, Ad Gentes).
Solo per fare qualche esempio.
Salute a voi
in J. et M.
Giovanni Formicola
Respinto al mittente
Il post Facebook del Prof. Massimo Viglione
La frase “Chi non accetta il Concilio Vaticano II è fuori della Chiesa”, potrebbe avere un senso compiuto, e quindi un seppur minimale valore intellettivo e una sorta di misera validità formale, solo se la Chiesa fosse stata costituita nel 1960 (cosa peraltro che viene avallata dei conciliari, nel senso di una “rinascita” della “Nuova Chiesa” della “Nuova Pentecoste”).
Siccome infatti la Chiesa l’ha fondata quasi 2000 anni fa Nostro Signore Gesù Cristo, e ha avuto – tra tutte le altre cose – 265 papi riconosciuti prima di Bergoglio e 20 (21) Concili prima del CVII, tutti dogmatici a differenza di questo, l’unico espressamente convocato come pastorale dal pontefice di turno, e siccome ha un suo Magistero universale e una sua Tradizione perenne, possiamo dichiarare che l’affermazione di cui sopra avrebbe valore solo se tale conciliabolo pastorale fosse totalmente, integralmente in linea di fedeltà a tutto il pregresso.
Cosa che si contraddice in sé, visto che:
1) se così fosse non sarebbe mai esistito alcun problema con il suddetto Concilio pastorale che sarebbe sempre stato accettato da tutti senza necessità di essere criticato o difeso (o piegato alla “ermeneutica della continuità”), come avviene invece dal 60 anni;
2) sono proprio tutti i più grandi sostenitori e difensori del CVII che insistono sempre, e da sempre, sulla sua rottura con la esecrata Chiesa “preconciliare”, foriera di tutti i mali, mentre il Vaticano II avrebbe salvato la Chiesa da se stessa;
3) basta guardare i risultati pratici di questi 60 anni postconciliari, per verificare quotidianamente la devastazione dottrinale, spirituale, morale, liturgica, ecclesiastica e pure umana apportata, prova effettuale inconfutabile della rottura con la Chiesa di sempre.
Pertanto, il discorso è esattamente da rovesciare: è nella Chiesa chi ama e segue la Chiesa di sempre nella misura in cui è fedele alla Chiesa di sempre, da Pietro in poi.
Inoltre, affermare dopo sessant’anni ciò che né Giovanni XXIII, né Paolo VI, né Giovanni Paolo I, né Giovanni Paolo II, né Benedetto XVI (e nemmeno Bergoglio nei suoi primi quasi otto anni di pontificato, che, evidentemente, costituiscono un periodo di tempo enorme per un problema di tale gravità) hanno detto a riguardo, è intrinsecamente ridicolo.
Qualsiasi pontefice avrebbe certamente messo una tale epocale affermazione nell’agenda “dei primi cento giorni”, e non l’avrebbe tirata fuori dopo otto anni, magari perché si è dormito male, o perché l’indicazione è arrivata in ritardo…
Un elevato numero di ecclesiastici, anche cardinali e vescovi, teologi, anche laici di provata dottrina e fede, hanno sempre criticato lo spirito del Concilio e alcuni documenti, fin dagli stessi giorni conciliari e con un crescendo esponenziale negli anni e decenni successivi. Sempre. Sono tutti fuori dalla Chiesa? Ma se perfino Benedetto XVI ha criticato alcuni aspetti della prassi conciliare e postconciliare! L’ermeneutica della continuità non è altro che il vano tentativo di rimediare al male compiuto. È pure lui fuori dalla Chiesa?
E quale sarebbe la misura, il confine, della criticabilità oltre la quale non si è più nella Chiesa? Posso dire di non condividere lo “spirito”? Posso criticare il post-concilio? Posso criticare l’ecumenismo ereticale? Posso criticare alcuni aspetti di alcuni documenti, che peraltro sono tutti pastorali? Oppure basta che fiato che sono scomunicato? Cerchiamo di non avallare reminiscenze metodologiche argentine… Oppure rischiamo di finire desaparecidi pure noi? Ma non eravamo, solo pochi mesi fa, “fratelli tutti”? Oppure la nostra colpa è di non essere immigrati, eretici, islamici o idolatri?
E chi è che ci metterebbe fuori, chi ha fatto entrare Pachamama in Vaticano?
Del resto, il Concilio ha insegnato a non condannare nessuno e che tutti si salvano, e lo stesso Bergoglio solo pochi mesi fa ha scritto una eretizzante e pienamente massonica nello spirito enciclica intitolata “Fratelli tutti”. Pertanto, di cosa stiamo parlando?
Di quale fedeltà a chi e a cosa?
O vogliamo forse sostenere che tutti si salvano, anche eretici, scismatici, pagani, atei, nemici della Chiesa, figli di satana e quant’altro, eccetto chi segue la Chiesa di sempre nella Verità di sempre e nella tradizione dottrinale, spirituale, liturgica e morale di sempre?
Ecco, possiamo dormire sonni tranquilli: noi che rifiutiamo Pachamama e tutto il suo pregresso siamo, per quanto personalmente peccatori, nella Chiesa Cattolica fondata da Nostro Signore Gesù Cristo.
Seguiamo Pietro e tutti i suoi successori, nella misura in cui sono fedeli al Depositum Fidei di cui sono i custodi e nella misura in cui confermano le pecorelle che Dio ha affidato loro in piena fedeltà al Vangelo e al Magistero di sempre.
Ci si può considerare fuori dalla Chiesa perché non si segue chi ha modificato la dottrina morale, scritto encicliche palesemente panteiste, rivoluzionarie, ecologiste e ultramoderniste? Chi ha intronizzato un idolo ctonico in Vaticano permettendone la presenza anche nelle chiese?
Il papa, qualsiasi papa, nella misura in cui è papa veramente, è servo, non padrone (“Servus servorum Dei” è uno dei titoli pontificali). Nella misura in cui tradisce il mandato del suo vero e unico Padrone e la stessa Fede, può anche restare “papa” nel senso materiale del concetto, ovvero: occupa la cattedra, perché “prima sedes a nemine judicatur”, nessuno può giudicare e deporre un papa. Ma in realtà anche questa verità effettiva non è mai stata veramente definita nel senso dogmatico del concetto, tanto che da secoli si discute sul problema del “papa eretico” e sul cosa si può e deve fare in questa eventualità, discussione che in sé già prevede la possibilità reale del caso, sebbene non vi sia una soluzione condivisa al problema; ma certamente non va più seguito nei suoi errori, perché ha perduto il munus formale.
Un pastore che conduce le pecore verso l’abisso, perde il diritto a essere seguito.
Perché Christus semper idem, heri, hodie, in saecula saeculorum.
Ha istituito la Chiesa e il Papato per conservare, propagare e definire il Vangelo.
Chi lo muta, lo tradisce o lo scolora, è fuori dalla Chiesa.
Perché la Chiesa non si fonda sull’opinione mutabile dei suoi uomini, fosse anche un papa, ma sul Logos eterno e immutabile e qualsiasi papa può e deve insegnare e definire sempre e solo nei confini di questo Logos e del Vangelo, oltre che nel solco della Tradizione di sempre della Chiesa stessa.
Il Pontefice che non lo facesse tradendo il suo mandato, sarebbe di fatto fuori dalla Chiesa.
Perché “nessun servo è più del suo padrone”.
Il problema, pertanto, lo respingiamo al mittente. (MV)
Postilla
Lo “scisma indotto” o la “mossa del cavallo”: lasciare una via di fuga
Quando tempo fa lessi “L’arte della guerra” di Sun Tzu (VI-V secolo a.C.) una delle idee che più mi avevano colpito è quella di lasciare sempre una via di fuga per il nemico – “Lascia una via d’uscita a un esercito accerchiato” – che si può commentare con Cao Cao: “La regola degli antichi aurighi dice: ‘Accerchia da tre lati ma lasciane uno libero, per indicare così la strada alla vita’”.
Se la vita è presente nella loro mente, i soldati nemici si batteranno con meno ardore. Del resto lo stesso Sun Tzu subito dopo dice anche di: “Non incalzare un nemico disperato”, perché: “Un animale atterrito lotterà fino alla fine, è una legge naturale”.
Non è una mossa strategica, sconosciuta all’occidente, tant’è che come racconta Machiavelli nel suo “Arte della guerra”, fu adottato da Cesare contro delle tribù germaniche: queste, completamente circondate si battevano con furia; aprendo loro una via di fuga, Cesare preferì farsi carico del successivo inseguimento piuttosto che avere a che fare con un nemico così combattivo e furioso.
Quello che cambia, e questo lo abbiamo capito leggendo Francois Jullien, è che quello che per gli occidentali è solo un espediente, un aneddoto su cui neanche soffermarsi, per i cinesi è un concetto dalla portata molto più profonda. Nella mentalità cinese quello che rende pavidi o coraggiosi e il “potenziale della situazione”, e quindi quello che il generale deve fare non è chiedersi come rendere i suoi uomini coraggiosi e i suoi nemici pavidi, ma come agire, come operare per costringerli in quelle determinate situazioni.
Se lasciare una via di fuga serve per rendere “pavido” il nemico, tagliare i ponti, bruciare le navi, “far salire in alto e poi togliere la scala” è un modo per rendere coraggiosi i propri soldati. Portati in territorio nemico e isolate le vie di comunicazione, gli uomini non avranno scelta e saranno costretti al coraggio.
“Il bruciare i ponti”, secondo gli economisti Avinash Dixit e Barry Nalebuff e anche un modo per rendere credibili i propri impegni.
Premesso che la credibilità è fondamentale per la buona riuscita di ogni strategia, chiarito che “stabilire una buona credibilità in senso strategico significa far sì che ci si aspetti che portiate a termine le vostre mosse incondizionate, manteniate le vostre promesse e mettiate in atto le vostre minacce”, si può sostenere che bruciarsi i ponti alle spalle è proprio uno dei possibili modi per obbligarsi a mantenere i propri impegni. Citando ancora Dixit e Nalebuff: “Credibilità implica trovare il modo per non tornare indietro. Se non c’è un domani, l’impegno di oggi non può essere ritrattato” (Ivano Paolo Todde).
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Foto di copertina: Angelo del dolore in un cimitero.