Segreteria Generale CEI: Orientamento circa le celebrazioni liturgiche e la visita dei fedeli alla chiesa. Adornò: la sindrome di Stoccolma della CEI

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Sul nuovo sito della Conferenza Episcopale Italiana “Chi ci separerà”, dedicato all’emergenza Coronavirus è stato pubblicato una nota della Segreteria Generale dal titolo “Orientamento circa le celebrazioni liturgiche e la visita dei fedeli alla chiesa”.

A seguito delle comprensibili richieste che giungono dalle Diocesi, la Segreteria Generale, alla luce del confronto quotidiano con la Presidenza del Consiglio e il Ministero dell’Interno, è in grado di comunicare quanto segue.

Nei giorni della Settimana Santa, già prima dell’emanazione del Decreto del 10 aprile, si è tornati a rappresentare alle Istituzioni governative le attese e le esigenze della comunità ecclesiale. Il Decreto, di fatto, ha prorogato fino al 3 maggio le limitazioni già in vigore, che interessano anche l’esercizio pubblico delle attività di culto. Non è prevista la chiusura delle chiese, fatta salva una diversa decisione da parte dell’Ordinario. Sino alla scadenza della proroga, si ritiene di poter continuare nella linea degli Orientamenti condivisi lo scorso 25 marzo, dove si propone che per un “minimo di dignità alla celebrazione, accanto al celebrante sia assicurata la partecipazione di un diacono, di chi serve all’altare, oltre che di un lettore, un cantore, un organista ed, eventualmente, due operatori per la trasmissione”.

Questa linea, precedentemente concordata con la Segreteria di Stato, è stata assunta dalla Nota del Ministero dell’Interno del 27 marzo, che ribadisce: “Le celebrazioni liturgiche senza il concorso dei fedeli e limitate ai soli celebranti ed agli accoliti necessari per l’officiatura del rito non rientrano nel divieto normativo”. Quanto alla possibilità per il fedele di recarsi in chiesa per un momento di preghiera personale, si rimanda alla risposta pubblicata nel sito della Presidenza del Consiglio dei Ministri (15 aprile), che per comodità viene trascritta:

Ci si può spostare per andare in chiesa o negli altri luoghi di culto?
L’accesso ai luoghi di culto è consentito, purché si evitino assembramenti e si assicuri tra i frequentatori la distanza non inferiore a un metro. È possibile raggiungere il luogo di culto più vicino a casa, intendendo tale spostamento per quanto possibile nelle prossimità della propria abitazione. Possono essere altresì raggiunti i luoghi di culto in occasione degli spostamenti comunque consentiti, cioè quelli determinati da comprovate esigenze lavorative o da necessità, e che si trovino lungo il percorso già previsto, in modo che, in caso di controllo da parte delle forze dell’ordine, si possa esibire o rendere la prevista autodichiarazione. Resta ferma tuttavia la sospensione di tutte le cerimonie, anche religiose.

Nel frattempo, e in vista della nuova fase che si aprirà dopo il 3 maggio, si è a lavoro a contatto con le Istituzioni governative, per definire un percorso meno condizionato all’accesso e alle celebrazioni liturgiche per i fedeli.

Coronavirus. Messe e funerali: la Chiesa prepara proposte per la fase 2
Don Ivan Maffeis: «Una delle cose che ci sta più a cuore è il congedo dei defunti». Interlocuzione in corso con il Viminale
di Redazione Internet e Marco Iasevoli
Avvenire, 16 aprile 2020

La Conferenza Episcopale Italiana vuole riprendere ad «abitare la Chiesa» anche come contributo alla «coesione sociale nel Paese», se pur con modalità diverse dal passato e fino a quando non finisca l’emergenza, la vita ecclesiale. Le modalità sono allo studio ma restano i principi fondamentali, tra cui quello del rispetto delle distanze, della igienizzazione dei locali e dell’uso dei dispositivi di sicurezza (mascherine, guanti, etc) nei casi in cui sia necessario.
I vescovi italiani stanno approfondendo l’interlocuzione con il ministero dell’Interno e si apprestano a completare un documento di proposte entro la fine della settimana.
Con numeri contingentati, da far rispettare attraverso l’opera di volontari, si potrebbe riprendere dopo il 3 maggio la vita ecclesiale. “Sappiamo tutti che il 4 maggio – ha spiegato don Ivan Maffeis, sottosegretario della Conferenza episcopale italiana – l’emergenza non sarà finita. Per questo chiediamo che ci venga riconosciuta la possibilità di riprendere, certamente senza sconti, sarebbe irresponsabile. Però noi chiediamo che venga data una risposta alle attese di tanta gente”.
L’esperienza della Settimana Santa, con un minimo di persone accanto al celebrante, resta. “Non si torna indietro anche perché abbiamo dimostrato che si può celebrare in sicurezza”, spiega don Maffeis. Come anche restano aperte le chiese per la preghiera personale nel rispetto della distanza di almeno un metro.
“Nel frattempo, e in vista della nuova fase che si aprirà dopo il 3 maggio, si è al lavoro a contatto con le Istituzioni governative, per definire un percorso meno condizionato all’accesso e alle celebrazioni liturgiche per i fedeli”.
“Una delle cose che ci sta più a cuore – sottolinea don Maffeis – è il congedo dei defunti. Non possiamo lasciare che una intera generazione, e i loro familiari, siano privati del conforto sacramentale e degli affetti, scomparendo dalla vita, e improvvisamente diventando invisibili. Ci deve essere la possibilità di celebrare i funerali, magari solo con i familiari stretti, non possiamo non essere vicino a chi soffre. Troppe persone stanno soffrendo perché la morte di un caro oggi è come un sequestro di persona, certo motivato, ma dobbiamo farci carico di questo dolore dal punto di vista umano oltre che cristiano».

La Nota dell’Avv. Fabio Adernò
MESSA NEGATA. LA SINDROME DI STOCCOLMA DELLA CEI
Stilum Curiae, 17 aprile 2020

Al di là delle note considerazioni sull’autonomia della Chiesa nei confronti dello Stato, premetto che la Chiesa italiana non avrebbe, né in diritto né in fatto, nessun tipo di esigenza di concordare una “strategia comune” con il Governo, né dovrebbe – avendo piena avvertenza di ciò essa è come Istituzione teandrica e del fine che deve conseguire per mandato divino – scendere a patti per scegliere “cosa” debba essere lecito fare e cosa non, per il semplice motivo non è certo da un dialogo con lo Stato che può venir fuori una definizione del problema di cosa possa essere necessario al bene spirituale dei fedeli.
Ma posto che sulle cose si ragiona in base a come sono (e non a come dovrebbero essere), vengo alla questione della “trattativa”, anche se già il termine mi sa tanto di sequestro degli Anni di piombo.
Innanzitutto – onestamente – preferirei che tale trattativa fosse pubblica, cioè vorrei tanto che la Conferenza Episcopale Italiana esplicitasse (pubblicandole) le proposte presentate al Governo e non si limitasse a offrire delle ipotesi “in pillole”. Ciò anzitutto favorirebbe la trasparenza (sicuramente più opportuna rispetto ai penosi rendiconti sbandierati circa le opere di carità svolte per fronteggiare l’emergenza sanitaria) e obbligherebbe in coscienza l’Esecutivo a prendere maggiormente in considerazione le proposte che la CEI presenta, non tanto per questioni materiali e ristrette ad un ambito meramente amministrativo, ma piuttosto in ragione del comune bene spirituale dei fedeli ad oggi palesemente valutato come inversamente proporzionato ad altre esigenze materiali.
Qui mi si consenta un inciso: presso alcuni colleghi che paiono essersi allineati non solo alla lettera ma anche alla spirito (parlare di ratio sarebbe un po’ forzato) della legislazione dell’emergenza sembra aleggi l’idea che, in ragione del noto (e spesso abusato) principio del dualismo cristiano (cfr. Mt 22, 21), il perfetto adeguamento convergente delle due istituzioni coinvolte sia assolutamente insindacabile così come si è visto disporsi.
Al di là del fatto che quel principio (sancito, peraltro, dal Signore unicamente per ciò che attiene all’ordine temporale) comporta che Cesare non sia certo esente da dare «quae sunt Dei Deo», è di tutta evidenza che se la CEI avesse voluto davvero essere protagonista nella gestione di questa emergenza non avrebbe dovuto comportarsi come qualsivoglia associazione di pubblici esercenti abbassando le saracinesche all’ora stabilita, ma avrebbe dovuto agire in modo conforme a quella che è la missione della Chiesa nella società. Non mi riferisco ad un incosciente e irrazionale (e quindi anticristiano) “far finta di niente”, ma al dovere di considerare ogni cosa con oggettiva proporzionalità, tentando il più possibile di non privare i fedeli dei benefici sacramentali ma magari moltiplicandoli, così come ha sempre fatto nei secoli, anziché tollerare di imballare la Fede all’interno di uno smartphone, permettendo che fosse ridotta a mera (spesso pietosa e squallida) recita teatrale.
Avrebbe dovuto, anche nei momenti più complessi dell’emergenza, mantenere la barra sulle questioni di principio inderogabili, tollerando magari un accesso contingentato, ma, al tempo stesso, avrebbe dovuto esigere garanzie per i Ministri di culto (tutti, non solo i cappellani degli ospedali) affinché potessero svolgere liberamente il loro ministero (facendo loro concedere particolari deroghe di mobilità); avrebbe dovuto esigere il divino conforto, celebrando almeno un rito esequiale all’aperto per le migliaia di morti che, anche contro ogni volontà, sono stati letteralmente presi in ostaggio dallo Stato e sono finiti inceneriti; avrebbe dovuto invocare il rispetto dei luoghi sacri nei quali, abusando chiaramente del loro potere, spesso la Forza pubblica ha dato assai sgradevoli esempi di zelo poliziesco degno delle pagine più atee della storia; avrebbe dovuto non subordinarsi alle pretese dello Stato circa lo svolgimento dei Riti della Settimana Santa, nella quale poco è mancato che il Viminale indicasse financo il numero di candele da mettere sull’altare; avrebbe dovuto, insomma, impedire che la Religione (e il sentimento religioso in genere) venisse considerata come un qualcosa di assolutamente marginale e inconsistente per l’identità e la dignità di quanti compongono, in modo non distonico, e la Chiesa e lo Stato.
In base alle circostanze, non dubito, infatti, che si sarebbe stati capaci perfettamente di contingentare l’ingresso nelle chiese per lo svolgimento ordinario dei Divini Misteri e si sarebbe potuto svolgere un costante ministero di apostolato, senza far mancare a nessuno il divino conforto, specie in un’ora buia come quella dell’epidemia. Pur evitando ogni impropria equivalenza, non si comprende, infatti, come un impiegato di un supermercato possa essere considerato in grado di regolare il flusso degli avventori ma non possa esserlo egualmente un sagrestano davanti la porta della chiesa, peraltro rispetto a numeri notoriamente inferiori.
Epperò, da queste piccole cose risulta sciaguratamente evidente che il retropensiero che sottende alle limitazioni della libertà religiosa (in tutto il mondo) sia ideologico piuttosto che igienico; e d’altra parte, basta risalire al burattinaio principale (rectius l’Organizzazione Mondiale della Sanità) per capire da quali intenzioni sia animato il tentacolare Leviatano dell’odierna distopica dittatura sanitaria.
E, in via indiretta, anche le stesse parole rilasciate all’ANSA del Sottosegretario della CEI confermano questa lettura: «Con tutta l’attenzione richiesta dall’emergenza dobbiamo tornare ad ‘abitare’ la Chiesa – dice don Maffeis – il Paese ne ha un profondo bisogno, c’è una domanda enorme e rispondere significa dare un contributo alla coesione sociale».
«Tornare ad abitare»: non comporta forse la dolorosa constatazione di averla abbandonata?
In queste parole di evidente gravità, come nelle altre che seguono circa la doverosa attenzione al congedo dei defunti e al conforto spirituale per i loro cari, si ravvisano una preoccupazione e un senso di disagio che certamente sono condivisibili ma che però, dette oggi, assumono quasi i toni d’uno sterile pianto greco per una situazione che, in qualche modo, si è favorita sul nascere, assumendo (irrilevante se fatto in buona fede) il ruolo di meri esecutori di ordini secolari (nonostante siano stati poi stiracchiati in forme pseudo-canoniche), assecondando pretese statali neo-giurisdizionaliste che hanno abusivamente ritenuto (e tuttora, evidentemente, ritengono) la Religione come un fattore accessorio dell’uomo, in una visione chiaramente post-giacobina, materialista e secolarizzata; d’altra parte, la Storia ci insegna che la chiusura delle chiese e la creazione della “chiesa di stato” è sempre stato uno dei primi passi delle rivoluzioni, civili e religiose.
In modo tardivo, dunque, ora si tenta di raccogliere i cocci di ciò che si è rotto maldestramente, ergendo la paura (di essere considerati come incoraggiatori di focolai di contagio? Di essere tacciati di “oscurantismo” pensando alla salus animarum? Di essere considerati come retrivi sol perché si difendono i diritti di Dio?) a criterio valutativo al posto della ragione, e si avverte con preoccupazione il cono di vuoto creato nel contesto sociale con l’assenza della Chiesa dal palcoscenico dell’emergenza.
Eppure, a ben guardare, tale vuoto si è generato anche perché si è vista l’Istituzione, che per secoli è stata sollecita al centro della gestione dei problemi dell’uomo, come automarginalizzatasi, autoconfinatasi in un alveo inconsueto e innaturale, quale quello domestico, e peggio ancora intimistico. Ma ancor più gravemente in quell’alveo solipsistico s’è preteso di rinchiudere Dio, quasi fosse il genio che ritorna nella sua lampada, in un’assai triste fiaba paradigma dell’esistenza umana.
Ma il ritorno alla normalità – se così possiamo definirla – non sarà affatto facile perché il varco è segnato, l’eccezione è stata normalizzata in regola.
Ci è stato detto che l’#iopregoacasa è sufficiente; che desiderare di andare alla Messa pasquale è “da fascisti” e che privarsene non è stata una violenza ma “un atto di generosità”; che è sufficiente la comunione spirituale a colmare il bisogno di Gesù Eucaristia (indipendentemente dalle disposizioni d’animo personali e dallo status di regolarità canonica di ciascuno); che la Messa può bastare vederla in TV (il precetto, naturalmente, è un istituto ormai inattuale); che basta guardare un’immagine sacra e chiedere perdono per essere assolti (o addirittura ottenere il frutto dell’indulgenza plenaria) quasi fosse un rito magico; che la Domenica delle Palme sarebbe bastato mettere davanti la TV una pianta verde per averla benedetta… la nostra è stata trasformata in una religione fai-da-te dove tutto è permesso, tutto è soggettivo, basta che sia “creativo”… insomma tutto il contrario di ciò che è e non può che essere il Cattolicesimo.
Tutto ciò, però, non è l’incubo dei tradizionalisti: queste parole sono state dette, dichiarate, scritte, affermate con sicumera… e non le si può rimangiare. Perché la norma di oggi, è la stessa che ieri era l’anomalia. Come si farà, domani, a tornare a sottolineare (e a esigere) l’osservanza del precetto e delle norme sacramentali ecclesiastiche? Con quale forza si chiederà di ripristinare le prassi di sempre? Andare a Messa sarà forse solo un modo come un altro per passare un’oretta la domenica? La Religione appare sempre più assumere i toni dell’opzione e non della esigenza: sinceramente ciò è insieme intollerabile e affliggente.
E mi preoccupa molto perché ancora oggi sembra non esser chiaro d’aver implicitamente (e certamente inconsapevolmente, per via della paura) favorito il processo di marginalizzazione, con logico conseguente snaturamento annichilente, del fenomeno religioso nella società: infatti, mentre da una parte si esterna l’esigenza di ripristinare il culto, si insiste a ritiene che ciò debba farsi non tanto d’intesa con lo Stato (ormai, del resto, è tardi per ritornare sui binari del sistema di coordinamento), ma piuttosto che sia lo Stato a farlo (ed è irrilevante, ai fini giuridici, che ciò avvenga su richiesta dei Vescovi).
Anziché, dunque, proporre al Governo una trattativa, e dunque contrattare “quali riti celebrare” e quali no, “come” celebrarli e con “quante persone”, la Chiesa – utilizzando l’interlocuzione della CEI – dovrebbe rivendicare la propria autonomia normativa e regolatrice (nei modi e nelle forme stabilite dal sistema pattizio) ed esigere sin da orache dalle disposizioni statali venga cassata la frase che sospende le cerimonie religiose, e soprattutto dovrebbe pretendere che lo Stato nulla dica circa la celebrazione delle Messa con o senza popolo, poiché esso è del tutto incompetente sulla materia (v. qui). Nient’altro, dunque. Nessuna concessione e nessuna proibizione. Solo l’assicurazione che i luoghi di culto sono e restano sotto la vigilanza dell’Autorità ecclesiastica che ne risponderà con la consueta diligenza: lasciare che sia lo Stato a dire ancora una volta qualcosa sul culto sarebbe l’ennesima prova d’una assai pericolosa rinuncia ai propri diritti e ai propri doveri.
Indipendentemente, dunque, dalla progressiva riapertura di varie attività, la Chiesa – che non è un ente di commercio né è un ufficio pubblico dell’apparato dello Stato né è, almeno fino a prova contraria, “Chiesa patriottica” – non dovrebbe scendere a patti come si fosse in un bazar contrattando il prezzo finale credendo di fare un affare (che tale, peraltro, non è), ma dovrebbe solo esigere la rimozione di quel divieto che lede le disposizioni vigenti in Italia a tutela della libertà di culto dei cittadini cattolici, al cui presidio è obbligata.
La Chiesa, d’altra parte, è una istituzione dotata e retta da un sistema giuridico proprio, e per ciò non le risulterebbe difficile dettare norme specifiche che siano volte, con un sano e proporzionato equilibrio, alla salvaguardia della salute del corpo senza mutilare quella dell’anima.
Continuare a pietire dallo Stato concessioni e permessi, quasi fossero dei benefici per privilegiati anziché diritti preordinati e riconosciuti, assume toni inusuali in un ordinamento giuridico pluralista che ha confinato nella storia le aspirazioni giurisdizionaliste decidendo di vivere di un sistema pattizio.
Assecondare questa forma di ingerenza “concessiva”, quantunque apparentemente filtrata da una serie di passaggi interistituzionali, è stato e continua essere insalubre per la reputazione dell’Istituzione stessa, che nei fatti viene considerata assoggettata allo Stato non solo in via di prevenzione (che sarebbe pure ammissibile) ma, vieppiù, in via di normazione interna.
A fronte, però, di quanto dichiarato oggi all’ANSA dal Sottosegretario, appena ieri il Segretario Generale della CEI, Mons. Russo, in una lettera agli Ordinari non ha esitato a inserire la cattura di schermo della risposta fornita sul sito del Governo circa la possibilità di andare in chiesa (sulla quale ci siamo già espressi), rimandando dunque in modo poco dubbio a disposizioni esterne.
Tale allineamento arrendevole persistente, dunque, appare essere fortemente limitativo, e non permette all’Istituzione-Chiesa di affrancarsi dai vincoli nei quali si appalesa irretita.
Non conoscendo i contenuti delle proposte (che peraltro leggiamo siano non ancora definire) da parte dei Vescovi italiani, è giusto concedere il beneficio del dubbio e auspicare che le instaurande trattative Stato-Chiesa si concludano positivamente con un ripristino innanzitutto dell’autonomia gestionale interna del culto e permettendo a ciascun Ordinario di poter regolare la liturgia nella propria Diocesi a norma di diritto in modo proporzionato alle concrete necessità del territorio.
Rivendicare la libertà di culto, sia per l’Istituzione sia per i singoli, non è tracotanza, ma coerenza con la fede professata; stigmatizzare l’infrazione dei luoghi sacri e l’interruzione dei legittimi atti di culto è un obbligo; evitare che altri sacerdoti e altri fedeli incorrano in misure sanzionatorie sol perché dimostrano di essere credenti è un dovere che i Pastori hanno nei confronti dei loro interlocutori, specie in una Nazione che tutela la libertà religiosa come un diritto soggettivo prestatale.
I cattolici, d’altra parte, non sono soggetti disordinati né disubbidienti, e credono in Dio in modo razionale, senza isterie né squilibri. Ma a nessuno è lecito abusare di questa docilità.
Ciò che si auspica, dunque, è un dialogo a testa alta su questioni di una evidente gravità, smarcandosi da questa sorta di inquietante sindrome di Stoccolma nei confronti del Governo nella quale sembra essersi avviluppata la Conferenza Episcopale Italiana.

Fabio Adernò

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