Ode a Galina Staravojtova, che diede la vita per la libertà degli Armeni
[Korazym.org/Blog dell’Editore, 02.02.2024 – Renato Farina] – Dopo aver inviato questa, proprio questa lettera a Tempi [QUI], che voi spero stiate leggendo – e se leggete queste mie parole, è già un miracolo di libertà che i discendenti di Luigi Amicone consentono accada, grazie! -; spedita la rubrica, dicevo, ho raccolto nel fagotto coperte bianche come la neve, tessute di candida lana dei nostri agnelli Molokani, e mi sto dando alla macchia per valli precipitose e monti grinzosi verso l’Artsakh, accompagnato da Griselda, la mia dolce mucca, con la quale, sfiorando sentieri sconosciuti agli azeri, e ignoti anche al KGB di Baku e a quello di Mosca, raggiungerò piccoli tumuli di fieno conservati in luoghi ombreggiati, perché si nutra e mi dia latte in attesa dei germogli fragranti della primavera caucasica.
Ci arriveremo intatti? Che importa. Conta la verità, e che Iddio conservi un piccolo resto, scalcinato eppure Suo, tutto e solo Suo. Anche i nemici lo sono, e vorrei essere degno di essere infimo imitatore dei monaci martiri di Tibhirine. Ma figuriamoci, che paragone esagerato.
Scusatemi se mi appoggio a immagini epiche, che mi fanno impropriamente somigliare a un guerriero della compagnia dell’anello (di sicuro non all’elfo). Non sono fatto per esercitarmi in eroismi di alcun tipo né per offrire incanti bucolici di tipo funebre. Non ho fucile, neppure ad uso letterario: sarebbe risorsa patetica contro i puntatori satellitari dei droni azeri di marca israeliana. Puf, e sarei, saremmo, tutti fulminati, come nel 2020, quando i soldatini armeni finirono maciullati dalla supertecnologia di Erdoğan e Netanyahu, divisi su Hamas ma ahimè uniti contro i Cristiani eredi di San Gregorio l’Illuminatore. Non cerco la bella morte mia né quella brutta dei nemici. Ma desidero e chiedo al Dio-Amore pace e verità. Questa è oggi la realtà. Equivale ad essere destinati allo sterminio, perché di pace e verità non interessa un fico secco all’astuto dittatore Ilham Aliyev, che ci perseguita fiancheggiato dai suoi alleati Turchi, e da altri insospettabili tra cui Russia e Italia, nonché dalla neutralità pelosa dell’Occidente.
Fa un po’ ridere, se non fosse grottesco, ripetere qui, credendoci, le proposte di Baku per consentire il rientro nelle loro case, godendo di libertà religiosa e sicurezza, dei centomila e più cacciati dalla loro patria dopo essersi caricati sulle spalle le ossa dei defunti. Non è realistico credere alle promesse date senza pegno da chi ha già dichiarato che l’intera Armenia è Azerbajgian Occidentale, e la capitale armena è atavicamente azera. Lindsey Snell, giornalista americana senza collare e con sguardo puro, vede, legge, giudica: «L’Azerbajgian non vuole la pace, vuole il Syunik (regione sud orientale della Repubblica di Armenia)». E poi vorrà ancora e ancora. Fino a dove? Fino a completare un grande arco senza soluzione di continuità del nuovo impero ottomano, partendo da Tripoli fino all’Afghanistan uzbeko e quindi alla Cina.
Se una trattativa a vasto raggio dovesse partire per ridare stabilità al mondo, sarebbe precipuo per il mantenimento di un equilibrio il riconoscimento dell’Armenia e del Nagorno-Karabakh come statualità sovrane e neutrali, intercapedini pacifiche tra Europa e Asia. Oppure ci avete già venduti ai Turchi e ai Turcomanni destinando noi Armeni e Molokani a diventare i loro giannizzeri? Se lo fate, lo diventerete voialtri. Anzi, lo siete già diventati, se ci trattate come una pedina sacrificabile per tirare a campare in vista del futuro mondo green.
Ho scritto tomba. Ma non parlavo della sepoltura che ci aspetta tutti, e nel caso specifico, e per me interessante, quella del Molokano. Mi riferivo a una dimora funeraria lontana dal Caucaso, e dai monti pietrosi attraversati dai cammellieri mercanti e dagli invasori mongoli e persiani e tartari sui loro cavalli e i carri. Parlo del sepolcro di lei, di Galina Vasileva Starovojtova, a San Pietroburgo. Ella fu deputata alla Duma di Mosca, dove fu eletta in rappresentanza dell’Armenia, quindi – dopo la fine dell’Urss -, proprio dell’oblast dell’ex Leningrado.
Era stata Galina nel 1990 a condurre – come ho raccontato nella precedente missiva dal lago di Sevan, Tempi N. 1, gennaio 2024 [QUI] – Ryszard Kapuściński (Pinsk, 1932 – 2007) il più grande reporter degli ultimi 50 anni, a Stepanakert, capitale del Nagorno-Karabakh-Artsakh.
Era il 1990, quando il giornalista polacco violò l’assedio degli Azeri e superò il blocco dell’esercito sovietico, travestendosi da pilota del piccolo aereo che doveva condurre la deputata sovietica tra i suoi elettori Armeni di Stepanakert, che era strangolata dai due eserciti (di Baku e di Mosca), mentre i suoi abitanti erano destinati – secondo Kapuściński – «all’annientamento».
Il reporter aspettò cinque anni, infine nel 1995 apparve il racconto di quel viaggio pazzesco, essendo l’autore convinto che giunta la democrazia nella Federazione Russa, avendo prevalso incredibilmente gli Armeni nella guerra con gli Azerbajgiani, sarebbero state impossibili «ritorsioni». Be’, si sbagliava.
Ci fu una tremenda vendetta. Perché Galina Starovojtova insisteva. Non stava con gli Armeni e con altre minoranze dell’ex Urss per convenienza politica, ma perché aveva appreso l’essenziale, che solo giustifica il dare la vita in politica: il diritto delle persone e dei popoli alla libertà, cioè a essere sé stessi. Non per questioni di irredentismo nazionalistico: esigeva l’autodeterminazione di Armeni e Ceceni e Abkhazi per il bene che ne sarebbe derivato a ogni «famiglia spirituale» (Jacques Maritain) se ciascuna avesse potuto abitare un nido sovrano guidato dalle rispettive classi dirigenti, in splendida armonia polifonica e non digrignando i denti l’una contro l’altra. Quello che aveva scoperto con i suoi studi di antropologia sul Nagorno-Karabakh e il Caucaso e con quelli di diritto internazionale, in base alla Costituzione sovietica e alle Carte dell’ONU, assegnava l’ovvia prerogativa all’indipendenza repubblicana.
Cominciò insieme a Sakharov (non un pericoloso terrorista ma un liberale a tutto tondo, Premio Nobel per la Pace) a esigere da Gorbaciov la presa d’atto della realtà e del buon diritto degli Armeni dell’Artsakh sin dal 1988, cercando un buon compromesso. Respinto!
Lei che aveva sostenuto Gorby nel cambiamento, da ragazza prodigio della politica russa (era nata sugli Urali nel 1946), ora gli chiedeva fosse coerente con gli ideali della perestroika e della glasnost. Restò delusa. Si schierò allora con Eltsin. Il quale dopo i primi anni cedette piano piano ogni potere ai servizi segreti sovietici, che non erano mai stati liquidati.
E dalla parte di chi si schierò il vecchio sistema riemerso con prepotenza? Non pretendo qui di scrivere un trattato sui nuovi equilibri post-sovietici. Lei, Galina, deputata di immenso genio intellettuale, politico, umano, femminile di San Pietroburgo aveva stravinto le elezioni nel 1995 battendo tutti. Da quelle parti stava costruendo la sua ascesa Vladimir Putin, espressione apicale del KGB.
Nel 1998 Galina fu assassinata nell’androne del suo condominio a colpi di pistola, il suo segretario ferito. I killer, legati al KGB, furono presi, condannati e sono liberi da un pezzo. I mandanti? Mah.
La Starovojtova si stava battendo ancora per il definitivo status di indipendenza dell’Artsakh e per l’autonomia della Cecenia, non voleva guerre. A Baku regnava sin dagli anni 70 la dinastia degli Aliyev. Heidar, padre di Ilham, l’attuale autocrate, era nel 1998 Presidente dell’Azerbajgian islamo-nazionalista, dopo essere stato ai tempi dell’URSS, vice di Breznev e capo del KGB caucasico. Nel 2003 passò lo scettro e l’odio per gli Armeni al figlio. Che dire? J’accuse. E sto accorto.
(La Starovojtova è sepolta nel cimitero Nikolskoe della Lavra Alexander Nevsky di San Pietroburgo. Il monumento raffigura una bandiera russa a brandelli e, a quanto pare, utilizza come base le piastrelle del pavimento su cui cadde assassinata. Amen).
Il Molokano
Foto di copertina: Galina Starovojtova nell’aula della Duma.