Carmelo Musumeci: un ergastolano si racconta

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Carmelo Musumeci è uno degli ergastolani trasferiti dal carcere di Spoleto alla fine di luglio 2012 quando il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria ha deciso di chiudere la sezione ‘AltaSicurezza’ di quell’istituto, interrompendo bruscamente l’esperienza forte e significativa degli ergastolani di Spoleto, che da anni portavano avanti con volontari e operatori tante iniziative. Carmelo Musumeci, da anni promotore di una campagna contro l’ergastolo, due lauree, diversi encomi e un percorso importante di rieducazione, confermato anche da eccellenti relazioni trattamentali, è stato trasferito nel carcere di Padova. A Padova ha ripreso un percorso all’interno della Redazione di Ristretti Orizzonti, grazie alle numerose occasioni di confronto e di incontro con scolaresche e persone esterne al carcere. Incuriosito dalla sua storia ho provato a scrivergli, sottoponendogli alcune domande, e mi ha risposto: “Ciao Simone, scusa il tu, ma mi trovo meglio e ovviamente tu fai altrettanto. Ho appena letto la tua lettera e mi ha colpito la tua frase conclusiva e il‘Buona settimana’, per un attimo queste due parole mi hanno fatto sentire quasi una persona normale. Solo però per una frazione di secondo, perché poi mi sono ricordato che l’uomo ombra è l’unico umano che sa cosa farà domani, dopodomani e dopodomani ancora, perché farà per tutta la vita quello che hai fatto ieri, l’altro ieri e l’altro ieri ancora… E adesso mi accingo a rispondere alle tue domande. Un sorriso fra le sbarre”.

Quello che mi ha colpito immediatamente è che hai scritto a papa Francesco: ‘Caro Papa Francesco, scusa il tu ma mi trovo meglio. Io sono ateo, ma la tua elezione, non so perché, mi ha entusiasmato e mi sei piaciuto subito. In questi giorni nei giornali ho letto tante cose su di te… Papa Francesco, prega Dio per noi di farci morire affinché la nostra sofferenza abbia finalmente una fine. Lo so, non lo puoi fare perché è peccato, ma lui non è cattivo come gli umani e capirà che per molti uomini ombra è molto meglio morire che vivere. Papa Francesco, il dolore di un uomo ombra, che per legge non tornerà mai libero, è come l’acqua di una fonte: non si arresta mai. E molti di noi hanno perso persino il desiderio di pensare, altri anche di vivere una non-vita… Papa Francesco, hai chiesto di pregare per te, ma io non so pregare, ti posso mandare solo un sorriso fra le sbarre’.

Puoi spiegarci il motivo: “Una notte non avevo sonno. Non riuscivo a dormire. Ed ho girato per tutta la notte per la cella. Su e giù. Dalle sbarre della finestra a quelle del cancello. Per cercare una strada di uscita, una via di uscita, una via di scampo, una meta, ma non riuscivo a trovare nulla. Non mi era rimasto altro che cercare un po’ di speranza nella mia mente e nel mio cuore, ma non ho trovato niente neppure lì. A quel punto non mi è rimasto altro che addormentarmi. Poi al mattino mi è venuta l’idea di scrivere a Papa Francesco per chiedergli un po’ della sua voce e della sua luce per fare conoscere all’opinione pubblica in Italia, la Patria dei Diritto Romano e della Cristianità, l’esistenza della ‘Pena di Morte Viva’ molto più lunga, crudele e dolorosa di quella normale”.

Che cosa significa essere un uomo ombra? “Morire un po’ tutti i giorni e tutte le notti al rallentatore, per sempre”.

Cosa è l’ergastolo ostativo? “Una ‘Pena di Morte Viva’ bevuta a gocce”.

Tu sei anche scrittore con un libro per bambini: cosa racconti nelle avventure di Zanna Blu? “Le fiabe che non ho mai potuto raccontare ai miei figli prima e ai miei nipotini adesso”.

Poi gli ho chiesto di raccontarci brevemente la sua vita: “Più che dei miei reati, vi parlerò della mia infanzia. L’infanzia di un bambino criminale. Sono nato in un piccolo paesino ai piedi dell’Etna, in provincia di Catania, dieci anni dopo la fine della seconda guerra mondiale. Appena nato, fui già abbastanza sveglio, per capire che in quello strano mondo che mi circondava, sarei stato solo e che comandavano i grandi. Mi accorsi anche che nella mia famiglia mancava l’amore, probabilmente perché era un lusso che non si poteva permettere, soprattutto perché l’amore in casa mia non era roba da mangiare. La mia famiglia era poverissima, talmente povera che mi raccontarono i parenti che mio padre non pagò il prete per le spese del battesimo e che questo mi portò sfortuna per tutta la vita. Sono cresciuto in mezzo alla strada, scalzo, affamato e a fare a botte e a sassate con gli altri bambini. Per passare il tempo a volte andavamo a impiccare i gatti ai rami degli alberi e ad ammazzare lucertole e rane. Spesso la sera, quando rientravo a casa, non trovavo nulla da mangiare e sia io che i miei fratelli andavamo a letto dopo aver mangiato solo pane bagnato con lo zucchero o insalata di limoni.

A volte mia nonna mi portava a fare la spesa al mercato perché mi aveva insegnato a rubare. Una volta mi scoprirono e mia nonna mi diede uno schiaffo davanti a tutti. Poi a casa mi diede il resto, sia perché mi ero fatto scoprire, sia perché le avevo fatto fare brutta figura. All’età di sei anni andai a scuola, ma le mie assenze furono così tante che fui bocciato, la stessa cosa accade in seconda elementare. A nove anni per la mia famiglia ero già abbastanza grande per lavorare e mio zio mi portò in un cantiere edile a trasportare sacchi di cemento di cinquanta chili sulle mie gracili spalle. In seguito, a causa della separazione dei miei genitori, fui costretto a emigrare in Liguria per poi essere rinchiuso in collegio. I primi tempi furono durissimi. Non mi piacevano le suore. Non mi piacevano i preti. Non mi piacevano quegli strani bambini tutti educati che vedovo intorno a me. Non riuscivo ad adattarmi alle regole rigide del collegio. Non volevo farmi il segno della croce prima di mangiare. Non riuscivo a stare composto a tavola. Non riuscivo a mangiare con le posate.

Ero siciliano, selvaggio, anarchico, indisciplinato, parlavo una strana lingua che gli altri non capivano. E mi chiamavano terrone. Mi sentivo solo. Mi mancava la Sicilia. Mi mancava la nonna. Mi mancavano persino le botte e i calci in culo che mi dava mio zio quando lavoravo. Poi la cosa che odiavo più di qualsiasi altra era che tutte le mattine mi portavano in chiesa ad ascoltare la messa. E io non capivo perché dovevo stare in ginocchio a pregare un Signore messo in croce che non conoscevo. Non avevo fatto nulla da farmi perdonare da Dio a parte la colpa di essere nato. Dopo un po’ di tempo scappai dal collegio. Fui ripreso dopo un paio di giorni. Per punirmi il capo dei preti e delle suore mi massacrò di botte con un bastone. E poi mi chiuse in una stanza al buio senza bere e senza mangiare per diversi giorni. Quando ricordo e racconto questo episodio, provo la stessa ira di allora. Da quella volta crebbe in me la voglia e il desiderio di vendicarmi di tutti e di tutto. E giurai a me stesso e al mio cattivo cuore che da grande sarei diventato cattivo. E che sarei diventato il più cattivo di tutti. Non avrei più creduto a quel Dio di cui quel prete parlava. Non avrei più creduto a nessun Dio. Dopo un mese da quell’episodio mi vendicai a tradimento, alle spalle, perchè quel prete era più grosso di me. Mentre lui era seduto a mangiare, con tutta la mia forza gli diedi una botta in testa con una sbarra di ferro. Fui subito espulso da quel collegio.

E ne girai diversi, fin quando mia madre mi riprese in casa. Una volta a casa mi accorsi subito delle difficoltà finanziarie in cui la mia famiglia si trovava. E intrapresi la strada di violare la legge. All’inizio con piccoli reati. Poi in seguito vedendo il facile guadagno iniziai a commettere reati sempre più gravi. Pensai che fosse la via migliore per aiutare la mia famiglia. Una volta però le cose andarono male. E durante una rapina fui arrestato. Era il 1972. Avevo appena 16 anni. L’impatto con la prigione fu tremendo come lo era stato con il collegio. Ebbi subito molti problemi con le guardie perché non ero abituato a ubbidire a nessuno. Ed andai in escandescenza diverse volte con un brigadiere della sezione. Fin quando una volta non gli sbattei in faccia un piatto di patate. Prima le guardie mi diedero un sacco di botte. Poi mi presero per un pazzo. E mi misero la camicia di forza. In seguito mi legarono al letto di contenzione per una settimana. Uscii dal carcere un anno dopo. Quella brutta esperienza mi aveva segnato molto. Ero entrato buono ed ero uscito cattivo, arrabbiato e in guerra con il mondo intero. A 24 anni per la prima volta conobbi l’amore. E da quest’amore nacquero due bambini: Mirko e Barbara.

Provai a cambiare vita ma non ebbi abbastanza forza per riuscirci. E nel giro di qualche anno mi ritrovai di nuovo in prigione. Ora mi trovo in carcere ininterrottamente da 22 anni, vado per i 23, e i miei figli e la mia compagna mi stanno aspettando inutilmente e senza speranza perché non uscirò mai più dal carcere se non da morto. Mi hanno condannato all’ergastolo ostativo a qualsiasi possibilità di liberazione se non collaboro con la giustizia, se al mio posto non ci metto qualcun altro. Ho raccontato la mia infanzia non per cercare attenuanti, ma per dire che prima sono nato colpevole poi ho deciso io di diventarlo”.

 

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