Popoli sacrificabili. Come la regina negli scacchi

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[Korazym.org/Blog dell’Editore, 27.09.2023 – Vik van Brantegem] – Come è noto, nel gioco degli scacchi, la regina è la più potente. Per l’Unione Europea con i suoi “valori” secondo la convenienza, in questa modernità senza diritti e senza dignità che genera disuguaglianze ovunque, innanzitutto a danno dei più deboli, degli ultimi, degli esclusi, ci sono anche dei popoli sacrificabili. Proprio come negli scacchi, nella strategia del giocatore, per fare vincere il re, la regina perde la sua importanza, diventando sacrificabile.

Partendo da questa metafora, osserviamo che due di questi popoli, che non hanno diritto ad una patria, che non hanno confini, che non hanno alcun riconoscimento della non esistente “comunità internazionale”, vengono sacrificati come la regina negli scacchi, sono gli Armeni dell’Artsakh e i Curdi. Dei primi parla oggi Antonia Arslan su La Stampa. Dei secondi ha parlato l’anno scorso Roberto Bertoni su Articolo 21. De seguito riportiamo ambedue i contributi, come un dittico.

Gli Armeni dell’Artsakh, ovvero i canarini nella miniera
Un popolo sacrificabile
di Antonia Arslan
La Stampa, 27 settembre 2023


Moltissimi sono i proverbi che la saggezza popolare ha inventato per descrivere situazioni estreme (e terribili) come quella in cui si trova oggi la popolazione del piccolo ma importantissimo territorio di montagna chiamato Nagorno-Karabakh (Artsakh per gli abitanti, montanari Armeni del Caucaso, essendo l’altro nome per loro una memoria costante di dominazioni straniere).

Ma quello che più trovo adatto al momento attuale, nella sua essenzialità atmosferica, è molto semplice: “Tanto tuonò che piovve”. Dopo la guerra perduta dell’autunno 2020, con un territorio ridotto e minacciato da ogni parte, ci sono stati i tuoni delle ripetute e sempre più accentuate minacce da parte azera: sia verbali, grondanti odio e volontà di annientamento, che fisiche, con progressivi sconfinamenti, rosicchiamenti di chilometri e chilometri di territorio (ora in un punto ora nell’altro del contestato confine), qualche bomba e qualche vittima, contadini impediti di coltivare i loro poveri campi, di vendemmiare le loro uve prelibate, esercitando una pressione psicologica e fisica sempre crescente.

Ma dopo i tuoni, ecco la pioggia: il blocco dal dicembre 2022 del purtroppo famoso Corridoio di Lachin (l’unica strada che collega oggi l’Artsakh all’Armenia e al resto del mondo) che nello stillicidio di ben otto mesi di durata ha prostrato le forze dei circa 120.000 montanari Armeni che ancora vi abitano, attaccati alla loro antica patria come l’ostrica allo scoglio.

Ma non è bastato: ecco la grandinata finale, che distrugge ogni cosa. Con una mossa largamente prevedibile, che solo la volontaria cecità dell’intero Occidente può chiamare sorprendente, qualche giorno fa è stato scatenato l’attacco definitivo, con l’impiego di una potenza bellica tale da travolgere ogni resistenza. Sono bastate 24 ore: il governo autonomo dell’Artsakh si è piegato e sta “trattando” la resa. Di quale trattativa possa trattarsi, e sotto quale manto di ipocrisia possa essere coperta questa parola (a me sembra il discorso dell’agnello col lupo prima di essere mangiato…), lo ha descritto perfettamente – nel suo appassionato e lucido intervento di qualche giorno fa alla Commissione per i Diritti Umani “Tom Lantos” del Congresso degli Stati Uniti – Luis Moreno Ocampo, Procuratore capo della Corte Penale Internazionale dal 2003 al 2012: “Gli Stati Uniti stanno favorendo negoziati fra un genocida e le sue vittime… non si può assistere da spettatori a un negoziato fra Hitler e i deportati di Auschwitz!”

In queste ore, si sta verificando proprio questo. Mentre i cosiddetti negoziati sono in corso, la gente dell’Artsakh ha gettato la spugna e ha cominciato a scappare. Nella piccola capitale Stepanakert, una cittadina linda e piacevole al centro di una conca verdeggiante, arrivano con tutti i mezzi e con le loro povere cose i contadini dei villaggi. Hanno distrutto quello che potevano, ma sanno – per triste esperienza – che le loro chiese saranno dissacrate e vandalizzate, le loro tombe aperte e le ossa dei loro cari sparse al vento, come è già successo nei territori perduti dopo la guerra del 2020. Sanno che l’intento preciso dei conquistatori è quello di fare terra bruciata di migliaia di anni di civiltà armena in quei luoghi e di riscrivere la storia, come è puntualmente e totalmente avvenuto nell’altro territorio – armeno da millenni – che era stato attribuito da Stalin alla sovranità azera, il Nakhicevan. E questo è propriamente genocidio, come da definizione dell’ONU del dicembre 1948: dopo l’eliminazione fisica, estirpare anche ogni traccia della cultura del popolo annientato.

E non a caso, mi è arrivata anche la dichiarazione molto esplicita in proposito di 123 intellettuali Turchi, tutte persone coraggiose che ben conoscono il rifiuto ancora totale da parte di tutti i loro governi di riconoscere il genocidio compiuto dai Giovani Turchi più di cent’anni fa: e che  – fra l’altro! – stanno rischiando di persona. Mettono in guardia contro la politica genocida portata avanti dall’Azerbajgian (stretto alleato della Turchia) nel Nagorno-Karabakh, e chiedono alla comunità internazionale di agire per prevenire nuove tragedie, invece di restare a guardare. Il regime azero, del tutto incurante delle sollecitazioni ricevute da organizzazioni internazionali e da molti Paesi per interrompere il blocco del Corridoio di Lachin, ha lanciato operazioni militari durante l’Assemblea generale delle Nazioni Unite, scrivono, “mentre il mondo intero osservava in silenzio. […] Esiste un chiaro pericolo di pulizia etnica e di genocidio. […] Loro [gli Azeri] cercano di prendere il controllo completo dell’Artsakh e di eliminare gli Armeni dai territori dove hanno vissuto per secoli, e in caso di resistenza semplicemente di ucciderli”.

Chiaro e partecipe, ma non basta. Nel silenzio colpevole dell’Unione Europea, forse però qualcosa si muove al Congresso americano. Sono state presentate ben tre proposte di legge per un intervento umanitario diretto e chiedendo sorveglianza per le popolazioni in pericolo. L’autorevole Congressman Chris Smith, co-capo della Commissione per i diritti umani del congresso, e un gruppo bipartisan hanno fatto audizioni, compresa la situazione e appena depositata una proposta di legge chiamata Preventing Ethnic Cleansing and Atrocities in Nagorno-Karabakh Act of 2023 (H.R.5686), che esige che “il Dipartimento di Stato crei una strategia dettagliata per promuovere la sicurezza a lungo termine e il benessere degli Armeni del Nagorno-Karabakh, attraverso importanti misure di sicurezza”.

Questo piccolo popolo cristiano, con le sue chiese di cristallo, i monasteri antichissimi, i preziosi manoscritti miniati e le celebri croci di pietra è immagine forte per noi occidentali, immersi in un’inerzia distratta e malata; e non può non far venire in mente le gabbiette dei poveri canarini che i minatori portavano con sé come segnale di pericolo, perché morivano prima degli esseri umani in caso di perdite di gas…

I curdi, che importano niente quasi a nessuno
Un popolo sacrificabile
Roberto Bertoni
Articolo 21, 8 dicembre 2022


Del popolo curdo, con ogni evidenza, non importa niente quasi a nessuno. Non all’Unione Europea, che ha deciso, di fatto, di sacrificarlo in cambio dell’assenso di Erdoğan all’ingresso di Svezia e Finlandia nella NATO. Non all’Iran e alle potenze del Golfo, che lo vivono come una minaccia costante, specie in una fase storica così delicata. Non certo al governo turco, che lo considera sostanzialmente alla stregua di un’organizzazione terroristica, non tracciando poi tutte queste gran distinzioni fra i leader del PKK, su tutti Abdullah Öcalan, e la cittadinanza in generale. E non importa nemmeno ai meta-stati che fanno il bello e il cattivo tempo nelle nostre democrazie, dato che su Facebook anche solo postare una riflessione su questi argomenti può costare sanzioni piuttosto gravi, poiché noi, difensori dei valori occidentali e delle supreme virtù democratiche, riteniamo un’organizzazione politica un’associazione criminale, volta a compiere azioni destabilizzanti. Dallo scorso 13 novembre, giorno dell’attentato in viale İstiklal ad Ankara, non lontano da piazza Taksim, la situazione è addirittura peggiorata, anche perché il satrapo attualmente al potere deve affrontare le elezioni l’anno prossimo e si sente, evidentemente, meno saldo di quanto non appaia a noi che lo guardiamo da fuori. Del resto, sta lì da vent’anni e un certo logoramento è fisiologico persino nei regimi, specie se si considerano le numerose crisi cui ha dovuto far fronte e l’opposizione strisciante che serpeggia nel Paese. Peccato che alle nostre latitudini sia pressoché vietato schierarsi dalla parte del popolo curdo, come avviene per quello palestinese, per la drammatica vicenda di Julian Assange e per qualunque forma di opposizione che non sia gradita ai padroni del vapore. Tutto ciò che si richiama, in qualche misura, al comunismo o a qualcosa di affine, sembra infatti non poter essere tollerato all’interno della nostra società, come se si trattasse di uno stigma, di una colpa senza appello, di una condanna preventiva, come se fosse accettabile compiere distinzioni pelose fra il dramma di alcuni popoli e quello di altri, allentando così i vincoli di solidarietà universale e indebolendo le nostre meritorie battaglie a sostegno dei civili ucraini o di quelli iraniani.

L’aspetto più tragico di questa modernità senza diritti e senza dignità è che genera disuguaglianze ovunque, innanzitutto a danno dei più deboli, degli ultimi, degli esclusi, di coloro che non hanno patria, non hanno confini  non hanno alcun riconoscimento, vivono in una prigione a cielo aperto come i palestinesi a Gaza o sono scacciati da chiunque come i curdi. E non possiamo certo essere noi, con la nostra ipocrisia al diapason, il nostro finanziamento annuale alla Turchia affinché si tenga i profughi in fuga dagli inferni del mondo, i nostri silenzi imbarazzanti sulla repressione in atto in numerosi paesi e le nostre vergogne, da Bolzaneto a Guantánamo ad Abu Ghraib, a farci paladini della giustizia e della libertà. Peccato che, nel frattempo, un popolo sia soggetto a continue vessazioni, a continui insulti, al massacro della propria gente, alle condanne esorbitanti nei confronti dei propri leader, a orrori d’ogni sorta e a una barbarie verso cui siamo sostanzialmente accondiscendenti. Del resto, abbiamo mai speso una parola per il popolo yemenita? Ci siamo mai indignati per le mattanze che avvengono in Africa? Ci siamo mai davvero battuti contro la brutalità delle dittature latinoamericane? Diciamo che la nostra, da alcuni decenni a questa parte, sembra essere diventata un’indignazione selettiva, ed è evidente che i curdi non rientrino nelle grazie di chi stabilisce contro cosa è lecito scagliarsi e contro cosa no, quale repressione è possibile condannare e quale, invece, dev’essere lasciata agire indisturbata.

Noi, nel nostro piccolo, pensiamo al contrario che esistano unicamente i valori universali, che la dignità umana vada posta sempre e comunque al primo posto, che le discriminazioni e le violenze siano tutte inaccettabili, che la libertà d’espressione vada garantita a tutti i popoli, senza distinzioni, e che ci si debba battere, al contempo, per gli ucraini, per gli iraniani, per i curdi e per chiunque soffra sotto il tacco di tirannie sempre più feroci e disumane. Ci battemmo per Öcalan nel ’98, ci battiamo per Assange oggi e continueremo a batterci al fianco di chiunque, in ogni parte del pianeta, subisca un sopruso o un’ingiustizia. Magari eviteremo di pubblicare quest’articolo dove, ahinoi, non è gradito ma non abbiamo alcuna intenzione di smettere di far sentire la nostra voce. Se non altro per uscire dal gregge, per costituire la classica stecca nel coro, per non arrenderci all’inciviltà di una fase storica che sta travolgendo chiunque e conducendo il pianeta nel baratro. Esiste un limite anche alla pavidità e, a nostro giudizio, è stato oltrepassato da tempo.

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