Elogio della “intolleranza”

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[Korazym.org/Blog dell’Editore, 17.11.2022 – Vik van Brantegem] – Vi sarà sicuramente capitato di sentire qualcuno, o forse anche voi stessi, essere apostrofati come “intolleranti”. Questa è divenuta un’offesa mortale, opposta all’essere invece tolleranti ed andare d’accordo con tutti.

Ora, il Maestro Aurelio Porfiri – compositore, direttore di coro, musicologo, educatore, scrittore ed editore – non vuole affermare che nella tolleranza non ci siano valori importanti da considerare, ma a suo avviso ce ne sono ancora di più nell’intolleranza, se ben ci intendiamo sul significato che intendiamo dare a questo termine. Questo perché esiste un’intolleranza positiva ed una negativa. Il suo elogio dell’intolleranza non intende riferirsi naturalmente all’intolleranza negativa, lungi da lui. Parla dell’intolleranza positiva, quell’intolleranza che non solo dobbiamo coltivare, ma che dobbiamo anche tenerci stretta.

Forse rimarrete sorpresi nello scoprire come vi è necessario essere intolleranti in alcuni momenti della vostra vita e questo con buonissima ragione. Ma si pensa che l’intolleranza è buona solo se rivolta a se stessi, alla salvaguardia della propria salute e dei propri interessi. Qui dovremo certamente fare attenzione e mettere le cose in una prospettiva più giusta.

Cominciamo a darci da fare. Iniziando con la lettura del libretto di Aurelio Porfiri Il baratro. Elogio dell’intolleranza (Chorabooks 2022, 57 pagine [QUI]), con la Prefazione di Roberto Giacomelli, che scrive: “Il coraggioso pamphlet del maestro Porfiri denuncia il disagio generato dalla società più ipocrita della storia”.

Corollario

Benedetto Croce.

Un “elogio dell’intolleranza” del maggiore filosofo del liberalismo
di Bennato Bennati
Il Discrimine, 19 settembre 2016


Sfogliando un  vecchio numero de Il Borghese (del 28 Luglio 1966, probabilmente mi avrà fatto compagnia qualche mattina al mare sotto l’ombrellone) ho trovato questo ELOGIO DELL’INTOLLERANZA di Benedetto Croce (da “Filosofia dello Spirito” III “Filosofia della Pratica, Economica  ed Etica., pp. 43-44, Laterza 1932) che, in tempi in cui è la “tolleranza” (e quale ne sia il costo in termini morali e sociali) ad essere l’opzione la più ricorrente non dirò nel coro, ma nel belato generale, ritengo sia utile riproporre ai lettori che non intendano confondersi col gregge (bèheee), non perché lo scrivente sia uno zelatore dell’“intolleranza”, ma per ricordare che nessuna tesi qualsivoglia può stare da sola, senza la sua antitesi, il suo complementare, e che se si invoca la tolleranza, nel mondo della molteplicità e delle opposizioni, altrettanto, mutatis mutandis, deve farsi per l’intolleranza, un corno dell’alternativa non potendo sussistere senza l’altro, e che, se si aspira alla libertà e alla pace, non serve optare per nessuno degli elementi in confronto, occorrendo portarsi in spirito oltre il loro cozzo, in quel punto (che è “metafisico”, non appartenente cioè al “fisico”) noto ai soli iniziati, in cui essi si sintetizzano nella indistinzione del comune principio.

Al di fuori di quel punto, evviva la tolleranza, ma anche l’intolleranza quando ci vuole, ci vuole.
***
«Giustificazione della repressione pratica dell’errore.
Conseguenza dello stabilito principio è la giustificazione di misure pratiche che inducano coloro che errano teoreticamente a correggersi, castigandoli quando questo giovi ad ammonizione ed esempio. Mezzi d’altri tempi (si dice); ora siamo in tempi di libertà e non è più lecito adoperarli; ora si deve contare sulla sola forza persuasiva del vero. Ma coloro che così dicono non hanno occhi per guardare intorno a sé. La Santa Inquisizione è veramente santa e vive perciò della sua eterna idea: quella che è morta, era nient’altro che una sua contingente incarnazione storica. E anche questa incarnazione contingente dovette essere, per un certo tempo, giustificata e benefica [*], se popoli interi la invocarono ne difesero, se uomini di altissimo animo la fondarono e severamente e imparzialmente la ressero e gli stessi avversari l’applicarono per loro uso, e i roghi furono contrapposti ai roghi, onde Roma cristiana perseguitò gli eretici così come Roma imperiale aveva perseguitato i cristiani e i protestanti bruciarono i cattolici, così come i cattolici i protestanti.
Se ai giorni nostri certi espedienti feroci si sono messi da banda (si sono abbandonati definitivamente o non persistono sotto diversa apparenza?), non perciò si cessa dal premere praticamente sui manipolatori di errori. Di codesta disciplina nessuna società può fare di meno, quantunque il modo di applicarla vada soggetto a sua volta alla deliberazione pratica (utilitaria o morale).
Si comincia dall’uomo bambino, la cui educazione mentale è insieme e soprattutto  educazione pratica e morale, educazione al lavoro e alla sincerità (né alcuno è stato mai seriamente educato che non abbia ricevuto, a dir poco, qualche provvida ceffata o tirata di orecchi), e si continua con le pene comminate nei codici per le negligenze e le ignoranze colpevoli, via via fino alla spontanea pedagogica sociale, per la quale l’artista che produca il brutto o lo scienziato che insegni il falso sono redarguiti dagli intellettuali e cadono presso costoro in discredito: al che povero e precario compenso è il plauso e il credito illegittimo e passeggero che ottengono talora dagli intelligenti e dalle moltitudini. La critica letteraria e artistica ha sempre di necessità, e quanto meglio intenda l’ufficio suo, energia pratica e morale. Che si concilia con la più pura esteticità e teorecità nell’esame intrinseco delle opere».
[*] Questo concetto fu già difeso da Joseph de Maistre in “Lettere ad un gentiluomo russo sull’inquisizione spagnola”, rieditato da Edizioni PiZeta, nel 2009.

Gilbert Keith Chesterton.

Riflettendo su Chesterton
Elogio dell’intolleranza contro il politically correct
di Rino Cammilleri

La Nuova Bussola Quodidiana, 6 marzo 2017

La tolleranza produce galera, quando non linciaggi e morte civile. Per forza: se ho una convinzione, vuol dire che io ho ragione e chi non la pensa come me ha torto. Tanto più forte sarà la mia convinzione, tanto più dura sarà la mia reazione contro chi non è d’accordo. E’ il nemico interno della Chiesa: il politicamente corretto che invoca dialogo e tolleranza.

Quando ho letto l’aforisma che la benemerita agenzia cattolica Zenit.org ha posto a esergo del suo lancio del 2 marzo 2017 ho fatto un salto sulla sedia. Eccolo: «La tolleranza è la virtù dell’uomo senza convinzioni». Sarà sfuggito di penna in un’agenzia in genere pacata e clericalmente corretta che, lodevolmente, mai si discosta dallo stile della Conferenza Episcopale Italiana? Boh.

L’aforisma in questione l’ha scritto Gilbert K. Chesterton (1874-1936). Lo scrittore profetico (non a caso c’è chi ne propugna la beatificazione) aveva anche previsto che spade sarebbero state sguainate per sostenere che l’erba è verde e il cielo è azzurro. Infatti – tanto per dirne una – in Spagna le autorità hanno multato e sequestrato un autobus che recava la scritta «I bambini hanno il pene e le bambine hanno la vagina». Sì, perché l’ovvio non si può più dire: è reato di «intolleranza».

Come il goyano sonno della ragione produce mostri, così la c.d. tolleranza produce galera, quando non linciaggi e morte civile. Per forza: se ho una convinzione, vuol dire che io ho ragione e chi non la pensa come me ha torto. Tanto più forte sarà la mia convinzione, tanto più dura sarà la mia reazione contro chi non è d’accordo. Chi ha una convinzione forte farà di tutto per mettere a tacere chi si permette di dissentire. È nella natura delle cose.

La «tolleranza» è una forzatura, non ha senso. Infatti, la natura si ribella e rimette le cose a posto. Qualche tempo fa il principe britannico William, figlio di Diana Spencer, fu visto a una festa – privata – mascherato da nazista e successe il finimondo. Era il massimo dell’autoironia in un inglese, ma venne costretto ad abiurare come Galileo. Se si fosse mascherato da khmer rosso nessuno avrebbe avuto da ridire; anzi, nessuno se ne sarebbe accorto.

Potremmo produrlo, ma sarebbe inutile, perché lo conoscono tutti: c’è un elenco preciso di cose che, se le fai o le dici, finisci in galera, e va sotto il nome generico di «politicamente corretto». E’ la dimostrazione che la «tolleranza» non esiste, è stata solo un grimaldello dialettico usato per disarmare gli avversari, ora non serve più. Il famoso detto attribuito a Voltaire? Sì, quello che recita: non sono d’accordo con quel che dici ma darò la vita perché tu possa dirlo. Balle, non solo Voltaire non l’ha mai detto, ma gli insulti riservati a chi non la vedeva come lui dimostrano pure che si sarebbe guardato bene dal dirlo.

Sì, perché chi ha una convinzione chiara, precisa e decisa non «tollera» dissenso. Al massimo lo sopporta momentaneamente. Basta vedere che fine fanno quelli che si permettono di dissentire col papa della «misericordia». Papa Francesco, infatti, ha una convinzione ben precisa e, come tutti quelli che ne hanno una, cerca di imporla. Bando alle ipocrisie, anche io farei lo stesso.

Chesterton ha avuto la vista lunga e ci aveva avvertiti che il re è nudo, ma lo abbiamo ascoltato – ahimè vanamente – soltanto noi «intolleranti», colpevoli solo di avere le idee chiare. E ancora, tanto per cambiare, la Chiesa si ritrova come è sempre stata, con due nemici da combattere, uno interno e l’altro esterno. Quello esterno è, ari-tanto per cambiare, l’islam. Quello interno è il «politicamente corretto», che invoca, a scopo autodemolitorio, il «dialogo» e la «tolleranza», due concetti cioè che – ci si faccia caso – fanno a cazzotti tra loro.

Luigi Nono: Intolleranza 1960. Rasendes Kollektiv. Prime prove con il regista e coreografo Jan Lauwers. Festival di Salisburgo, 2021.

Sulla tolleranza “attiva” ovvero elogio dell’intolleranza
di Luciana Bellatalla
Ricerche pedagogiche, Anno LIV, n. 215, aprile-giugno 2020


(…) il pensiero di quel Locke che, a torto o a ragione, è considerato se non proprio il teorico, almeno una pietra miliare nel dibattito sulla tolleranza in età moderna e, quindi, nella pratica di questo atteggiamento culturale, morale e educativo. (…) chi si occupa di educazione non può non interessarsi anche e contemporaneamente della “tolleranza”. La ricchezza semantica del termine, infatti, fa capire che la tolleranza è, per così dire, un concetto (e quindi, come ho già detto, anche una pratica culturale e comportamentale) dalla doppia faccia: da un lato, c’è la tolleranza, che definirei negativa perché suggerisce, in nome del suo presunto indiscutibile valore, di accettare anche quanto non vorremmo accettare; dall’altro, c’è la tolleranza positiva o attiva (per dirla con Bobbio [*]), grazie alla quale la resistenza ad un determinato “peso” (sociale, politico, culturale) si trasforma in spinta propulsiva verso la liberazione da quello stesso peso. Nel primo caso, si dovrebbe piuttosto parlare di rassegnazione, passività, indifferenza e spesso silenzio in una esistenza che si avvicina al lasciarsi vivere più che alla necessaria pienezza della vita; il secondo atteggiamento è costruttivo, vitale e fecondo e, non a caso, lo ritroviamo al fondo di tutte le rivoluzioni dell’età moderna, da quella scientifica con la sua lotta contro il dogmatismo e la sua cecità a quelle più propriamente politiche. In tutti questi casi, questo atteggiamento non solo ha mostrato la sua valenza trasformativa, ma ha anche e necessariamente sopportato persecuzioni, apparenti sconfitte e, soprattutto determinazione e coraggio in chi lo assumeva e non si dava per vinto dinanzi all’intolleranza della tradizione, del dogmatismo e spesso addirittura del fanatismo. (…)
[*] Citando esplicitamente Bobbio, Genovesi ricorda che in questa accezione la tolleranza è da considerarsi un “elemento fondamentale per la convivenza pacifica basata sui valori del pluralismo, della laicità e del dialogo” (Le parole dell’educazione. Guida lessicale al discorso educativo, Ferrara, Corso Editore, 1998, p. 468).

Luigi Nono: Intolleranza 1960. Scena “Un mondo fuori di testa”. Rasendes Kollektiv. Premiere con il regista e coreografo Jan Lauwers. Salzburger Festspiele, 15 agosto 2021.

Elogio dell’“intolleranza”
di Giuseppe Panissidi
Micro Mega, 16 settembre 2022


Con i chiari di luna incombenti, la volterriana “sostanza della democrazia” innerva e legittima il “diritto all’intolleranza”, pur tassativamente scevra da violenza.

Uno spettro si aggira per l’Italia: l’equivoco della “tolleranza”. Whatever it takes, scandirebbe il serafico Draghi. Tolleranza a qualsiasi costo. Ce l’ha insegnato e raccomandato Voltaire, si recita, quale viatico e promessa di una società libera, ragionevole e umana. Voltaire, con la sua raison souriante, la ragione sorridente, intendiamo pure beffarda. (…)

Ragione, tolleranza, umanità, la nuova parola d’ordine della tradizione culturale occidentale, della società vagheggiata dall’illuminismo francese. In modo particolare, la tolleranza diventa la grande bandiera dell’intera filosofia del Lumi. Tale l’obiettivo del “Trattato sulla tolleranza”, è il 1763, l’opera di alto valore civile e politico di un combattente contro le ingiustizie del fanatismo clericale, volta a “rendere gli uomini più tolleranti e più miti”. Se è vero, com’è vero, che la tolleranza “non ha mai provocato una guerra civile, mentre l’intolleranza ha coperto la terra di massacri”. E il Trattato si conclude con un appello: “Questo scritto sulla tolleranza, è un’istanza che l’umanità presenta molto umilmente al potere e alla prudenza”. La fiducia nelle spontanee facoltà razionali del genere umano spinge Voltaire ad appellarsi alla capacità di ragionare propria di ogni uomo: “Supplico il lettore imparziale perché pesi queste verità, perché le rettifichi e le propaghi. Gli attenti lettori che si comunicano i loro pensieri sono sempre più efficaci dell’autore stesso”. Gli uomini sono dunque chiamati a lottare per la tolleranza. Se non che, la virtù della tolleranza risiede nell’amore per la giustizia della religione naturale, che, grazie all’azione illuminatrice della ragione, svuotato il patrimonio dogmatico, unisce spiritualmente tutti gli uomini al di là delle differenze di costumi, di usanze e di religione. (…)

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