I migranti etiopi presi di mira e uccisi sulla frontiera yemenita-saudita. La scoperta di una fossa comune

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[Korazym.org/Blog dell’Editore, 13.11.2022 – Vik van Brantegem] – È stata scoperta una fossa comune con dozzine di corpi di migranti etiopi, che hanno provato ad attraversare il confine dello Yemen con l’Arabia Saudita. Non è che le guardie di frontiera saudite li hanno respinti. Li hanno proprio uccisi. Il media network al-Masirah ha documentano il fatto, portando le atrocità del regno ricco di petrolio contro gli Africani a un livello completamente nuovo. Attendiamo che una delle ONG finanziata da Soros e attiva qui in Italia parli di questi crimini veri commessi sulla rotta orientale della migrazione verso l’Arabia Saudita, invece di favorire il traffico di esseri umani sulla rotto occidentale verso l’Europa, nascondendosi dietro la ipocrita facciata dei diritti umani, chiudendo gli occhi per i Paesi che sono considerati intoccabili e, quindi, non solo i migranti li possono respingere ma persino trucidare.

Il media network yemenita al-Masirah il 12 novembre 2022 ha diffuso il filmato di una fossa comune con i corpi di dozzine di migranti africani uccisi dalle guardie di frontiera saudite alla frontiera con lo Yemen.

Il sito del media network al-Masirah ha diffuso un filmato sul regime saudita che prende di mira e uccide i migranti ai suoi confini con lo Yemen, denunciando le atrocità perpetrate ai danni dei migranti nel regno saudita ricco di petrolio.

Al-Masirah (Il Viaggio) è un media network yemenita con sede a Beirut, di proprietà dell’organizzazione politico-armata islamista yemenita chiamata Anṣār Allāh (Partigiani di Dio) o al-Shabāb al-muʾmin (Gioventù credente), fondata e guidata da al-Ḥūthiyyūn (gli Ḥūthī), un gruppo armato aderente alla variante sciita dell’Islam zaydita (annoverando anche dei sunniti). La parte più significativa dello Yemen è controllata dal governo sostenuto dai Partigiani di Dio, internazionalmente appoggiato dall’Iran e avversato da una coalizione a guida saudita con il sostegno logistico militare di molti Paesi, anche occidentali, tra cui gli USA.

Il filmato di poco più di 4 minuti, trasmesso ieri, 12 novembre 2022, include delle immagini di una fossa comune contenente i corpi di dozzine di migranti etiopi uccisi dalle guardie di frontiera saudite. Il filmato include anche delle testimonianze di sopravvissuti al massacro, affermando che i soldati sauditi hanno fulminato dozzine di migranti etiopi in una stanza in cui erano radunati”. Il filmato mostra inoltre delle guardie di frontiera saudite con dozzine di immigrati etiopi ammanettati, che si ritiene pochi istanti prima di essere uccisi. Un sopravvissuto ha testimoniato che le guardie di frontiera saudite sparano direttamente con armi di piccolo calibro, spesso usando mitragliatrici, mortai e artiglieria, per eliminare gli assembramenti di migranti. Ha aggiunto che al confine uccidono circa cinque migranti ogni giorno e ne feriscono molti di più.

Dopo che al-Masirah ha diffuso il filmato documentando che il regime saudita prende di mira e uccide i migranti africani ai suoi confini con lo Yemen, il Direttore esecutivo dell’Organizzazione per la Difesa dei Diritti Democratici e Libertà yemenita e Ministro ad interim dei Diritti Umani yemenita, Ali Hussain Al-Dailami, ha condannato i crimini delle guardie di frontiera saudite contro i migranti africani, chiedendo un’azione internazionale per fermare questi efferati crimini contro l’umanità. “Il Ministero ha informato l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni di ciò a cui sono esposti i migranti africani ai confini yemenita-saudita, ma sfortunatamente non ha trovato alcuna risposta internazionale a ciò a cui sono esposte queste vittime”, ha detto Al-Dailami in una dichiarazione a al-Masirah e ha invitato il Governo etiope ad agire con urgenza per salvare gli immigrati e condannare i crimini sauditi commessi contro di loro. Al-Dailami ha affermato la disponibilità del Ministero dei Diritti Umani yemenita a fornire alla parte etiope la documentazione a conferma della violazione da parte delle autorità saudite del diritto internazionale sui rifugiati e della Convenzione sullo status dei rifugiati del 1951.

Fine luglio, l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni – la principale organizzazione intergovernativa attiva in ambito migratorio con sede a Ginevra, composta da 174 Stati membri, integrata nel sistema delle Nazioni Unite come organizzazione associata – ha rivelato l’uccisione di migranti per mano delle guardie di frontiera saudite, a nord del governatorato settentrionale yemenita di Sa’adah. In un breve rapporto su Twitter, l’OIM ha affermato di aver verificato nove incidenti separati che hanno ucciso 189 migranti e ferito gravemente 535 migranti al confine saudita con il governatorato di Sa’adah. L’OIM ha stimato che il numero di vittime delle forze armate saudite che prendono di mira i migranti con artiglieria, mitragliatrici e proiettili è molto più di quella statistica.

Il sogno saudita dei migranti etiopi
di Valentina Giulia Milani

Africa-La rivista del continente nero, 5 marzo 2021

Si ripete la tragica notizia di migranti morti in mare: due giorni fa almeno venti persone sono morte lungo la costa dell’Africa orientale di Obock a Gibuti dopo che, secondo la ricostruzione dell’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni (OIM), trafficanti di esseri umani li avrebbero “spinti fuori da una barca una volta al largo”.

Erano diretti verso lo Yemen, attraverso il quale molto probabilmente avrebbero tentato di raggiungere l’Arabia Saudita. In tutto, alla partenza erano circa 200. Yvonne Ndege, portavoce regionale dell’OIM, ha detto ai media locali che i trafficanti hanno gettato persone in mare, dicendo che la barca era sovraffollata. “La barca è partita da Oulebi, Gibuti, con 200 migranti, tra cui donne e bambini – ha dichiarato -. I trafficanti hanno iniziato a gridare che c’erano troppe persone a bordo e hanno iniziato a gettare persone in mare. I sopravvissuti sono in cura presso il Centro di risposta ai migranti dell’OIM a Gibuti”. Finora sono stati recuperati cinque corpi, ha aggiunto. Secondo l’OIM, questa è stata la terza tragedia del genere in meno di sei mesi.

Ogni anno migliaia di giovani migranti africani cercano di raggiungere i Paesi del Golfo. Il 92% di questi migranti sono etiopi: uomini, donne e ragazzini che si lasciano alle spalle le vaste zone rurali dell’Etiopia con la speranza di coronare il sogno del riscatto in terra saudita, un luogo ai loro occhi così promettente da indurli ad attraversare un Paese in guerra come lo Yemen. Il percorso si snoda infatti da alcune remote regioni etiopi (Tigray, Oromia, Amhara), ma anche dalla capitale Addis Abeba, verso tre principali punti di convoglio, affacciati sulla costa: Gibuti o la vicina Obock e Bossaso (Somalia). Chi opta per le due cittadine più settentrionali deve avventurarsi, per lo più a piedi, nel deserto della Dancalia per poi raggiungere lo Yemen via Mar Rosso con 6 ore di traversata, se tutto va bene. Chi invece passa per la Somalia deve fare i conti con il Golfo di Aden e almeno 24 ore su barche straripanti di un’umanità stremata. Percorsi che possono impiegare, in totale, poche settimane come qualche mese, dipende dalla disponibilità economica del migrante e dal grado di fortuna che veglia su di lui.

Si tratta di una rotta che per gli Etiopi è decisamente più allettante rispetto a quella del Mediterraneo: è infatti più breve e meno costosa. Quasi tutti gli uomini sperano di poter lavorare, una volta giunti a destinazione, come braccianti agricoli o come pastori, puntando a guadagnare in media circa 600 dollari al mese che, agli occhi di chi è abituato a vivere con l’equivalente di 60 dollari mensili, non sono pochi. Le donne, invece, partono certe di essere “assunte” come domestiche e, a differenza degli uomini, migrano spesso attraverso vie legali: numerose sono infatti le agenzie istituite appositamente per reclutare colf, una figura decisamente richiesta in Arabia Saudita.

Ad attirare, inoltre, molte persone nell’inganno dell’Arabia Saudita, vi è il fatto che la rotta del Corno d’Africa è avviata e decisamente più pubblicizzata rispetto a quella mediterranea. A stimolare e guidare, ammiccanti, il cammino sono infatti i cosiddetti smugglers, collaboratori locali delle diverse organizzazioni di trafficanti che infestano lo Yemen; a fare da motore la speranza, ma anche una buona dose di inconsapevolezza. «È stato mio cugino a consigliarmi di partire, quindi mi sono fidato: mi disse che in Arabia Saudita avrei trovato facilmente lavoro. Non mi sono fatto tante domande su come sarebbe stato il viaggio, mi interessava l’obiettivo: tornare dopo qualche anno in Etiopia, comprare una casa, una macchina e garantire una vita dignitosa ai miei figli. Dopo due giorni, sono partito senza dire nulla alla mia famiglia: li avrei contattati una volta giunto a destinazione», racconta Abdu Ahmad, 40 anni, il cui corpo sembra essere imploso, rosicchiato dalla sofferenza. Dopo qualche settimana, giunto in Yemen, quella telefonata, però, l’hanno fatta i trafficanti alla moglie: «35.000 Birr (circa 700 dollari) in cambio della vita di Abdu». L’uomo ripercorre i ricordi ancora spaventato, nonostante si trovi, finalmente al sicuro, nel centro di primo soccorso di MSF (Medici Senza Frontiera) per migranti appena rimpatriati ad Addis Abeba, dove vengono garantiti pasti, indumenti e supporto psicologico.

Le restrizioni alla mobilità di Covid-19 – secondo i dati OIM – hanno ridotto i viaggi ma non li hanno fermati; circa 138.000 persone hanno fatto il viaggio nel 2019, rispetto alle 37.500 del 2020. Nel gennaio 2021, oltre 2.500 migranti hanno raggiunto lo Yemen da Gibuti e il timore è che, con l’allentamento delle restrizioni, altri migranti siano in attesa di attraversare, aumentando la prospettiva di future tragedie.

Background sulla rotta orientale dell’emigrazione
a cura di Alessandro Lutman per Inside Over

(ottobre 2020)

Il flusso emigratorio lunga la cosiddetta rotta orientale parte dal Corno d’Africa, attraverso il golfo di Aden o lo stretto di Bab el-Mandeb che separa Yemen e Gibuti, e raggiunge l’Arabia Saudita. È più silenziosa della rotta mediterranea, ma altrettanto percorsa ogni anno, da coloro che intraprendono il viaggio, abbagliati dalla speranza di migliorare la propria condizione economica, con una netta maggioranza di etiopi (il 92%).

Senza un quadro del contesto etiope è difficile comprendere come mai molti giovani scelgano di intraprendere un viaggio che può risultare mortale e che, molto spesso, è ben differente dal loro immaginario. Sono gli stessi migranti intervistati da organizzazioni internazionali e giornalisti a invitare di non migrare e lasciare il proprio Paese. Almeno, non illegalmente. Comunque, la via regolare risulta impraticabile e ben più costosa. Al contrario l’alternativa irregolare richiede un piccolo investimento iniziale, che tuttavia può aumentare a seconda delle situazioni che si vengono a creare. Consapevoli del fenomeno, il business del traffico di migranti è cresciuto esponenzialmente, in particolare a partire dall’inizio della guerra civile in Yemen.

Per molti migrare non significa ricerca di un miglioramento della propria condizione economica, bensì l’unica strada che si prospetta di fronte ai loro occhi ed è vissuta come un vero fallimento. Al tempo stesso, stando ai rapporti dell’OIM, la decisione viene presa in maniera frettolosa, non tenendo conto dei rischi che si può correre durante il percorso: solo il 30% dei migranti è a conoscenza della guerra che perdura in Yemen, mentre neppure il 50% è conscio dei potenziali pericoli della traversata.

Chi vuole giungere in Arabia Saudita deve necessariamente attraversare il Golfo di Aden, partendo da Bosaso in Somalia o da Gibuti. Una traversata che può rivelarsi fatale, sia a causa delle precarie condizioni delle imbarcazioni su cui vengono ammassati i migranti, sia a causa delle forze armate yemenite, che in passato hanno ostacolato brutalmente l’arrivo dei migranti, come ha documentato Human Rights Watch (HRW).

Una volta giunti in Yemen, le difficoltà non diminuiscono. I migranti si trovano in balìa dei loro aguzzini trafficanti, che sono l’unico riferimento e che sfruttano la loro condizione di vulnerabilità per trarre il massimo profitto da ognuno. Ai maltrattamenti e le violenze che subiscono, documentate da OIM e HRW, si aggiunge il pregiudizio della popolazione yemenita nei confronti dei migranti, che li porta a essere esclusi da qualsiasi tipo di assistenza, anche quella basilare. Ed è per questo motivo che in aprile 2020 le forze Houthi hanno fatto svuotare celermente il campo di al-Ghar, situato a qualche chilometro dal confine saudita. Secondo le testimonianze raccolte da HRW, i migranti all’interno del campo sono stati espulsi e mandati verso il confine, uccidendo chi rimaneva e sparando a chi fuggiva. Al tempo stesso chi ha camminato, si è trovato in mezzo al fuoco saudita e dei militari Houthi, rimanendo in una sorta di limbo infernale che può durare anche per mesi.

Poi, raggiungere l’Arabia Saudita non è sinonimo di salvezza. I migranti che vengono fermati dai soldati sauditi perdono ogni avere che possiedono, gli uomini vengono separati dalle donne per poi essere portati ad al-Dayer e in seguito nei centri di detenzione presenti a Jeddah e Jizan. Luoghi che chi è stato detenuto ha descritto come veri e propri centri della morte. Sul tema è intervenuto HRW denunciando le precarie strutture dei centri: sovraffollati, come testimoniato dal rapporto pubblicato su The Middle East Eye, dove si parla di 16mila detenuti in una sola struttura – senza un numero sufficiente di letti e coperte, mancanti delle basilari cure mediche. Alcuni hanno testimoniato di essere stati colpiti brutalmente per essersi lamentati della situazione in cui si trovavano. Parole che trovano conferma nelle immagini pubblicate nell’inchiesta portata avanti da The Telegraph a fine agosto 2020, il cui titolo non lascia spazio ad alcun dubbio: “Migranti africani ‘lasciati a morire’ negli infernali centri di detenzione Covid dell’Arabia Saudita”, nonché nell’ultimo rapporto pubblicato da Amnesty International. Gli autori dell’inchiesta hanno riportato la brutalità con cui i migranti vengono trattati dalle guardie, vessati, colpiti e derisi come ha raccontato una delle persone raggiunta dal quotidiano britannico.

È sul Governo etiope che bisogna richiamare l’attenzione, che se non connivente, non si è mosso per venire incontro alle denunce e testimonianze dei detenuti. Al contrario, in seguito alla pubblicazione dell’inchiesta di The Telegraph, la testata Middle East Eye ha posto l’attenzione sulla minaccia da parte delle autorità etiopi di ripercussioni legali nei confronti di chi avrebbe continuato ad aumentare la consapevolezza delle condizioni dei centri di detenzione sui social media. Se non bastasse, oltre al pressoché silenzio nei confronti di come vivono migliaia di Etiopi sul suolo saudita, sempre a distanza di qualche giorno il Governo etiope ha tenuto a ringraziare la monarchia saudita per “accettare i migranti che entrare nel Paese”.

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