Il processo callejera e l’adagio di Perón: “Al amigo, todo; al nemigo, ni giusticia”. Il pontificato già in calo da anni, va verso la fine in uno spettacolo disfunzionale con ripercussioni seri per la Santa Sede

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«Vatican’s “trial of the century” could end in a whimper, not a bang [Il “processo del secolo” del Vaticano potrebbe finire con un piagnucolio, non un botto», scrive il decano dei vaticanisti statunitensi John L. Allen Jr. oggi, 19 novembre 2021 su Crux Now [QUI]: «T.S. Eliot potrebbe essere il più grande di tutti i poeti americani, e il suo poema del 1925 “Gli uomini vuoti” contiene forse i versi più citati di qualsiasi opera letteraria americana del XX secolo, di solito da persone che non hanno idea da dove provengano i versi: “Questo è il modo in cui finisce il mondo/Non con un botto ma con un piagnucolio”. Per “uomini vuoti”, Eliot intendeva persone che sono spiritualmente morte. La sua battuta, però, mi viene in mente in questi giorni anche con riferimento al tanto declamato “processo del secolo” del Vaticano, che potrebbe rivelarsi anch’esso abbastanza vuoto» (nostra traduzione italiana dall’inglese).

Ho accennato ieri alla stanchezza che mi sento addosso, dovendo occuparmi del processo da Alice nel Paese delle Meraviglie in Vaticano, che iniziato non è neanche partito. Ma non possiamo far di meno di occuparsene, purtroppo. Sono molto stanco di tutto ciò, perché in mezzo secolo di servizio ecclesiastico attivo [di cui 15 anni con Aiuto alla Chiesa che Soffre a Königstein im Taunus (Germania) e a Tongerlo (Belgio) e 30 anni con la Sala Stampa della Santa Sede, quindi, certamente non come spettatore sugli spalti] – non ho mai visto niente, che minimamente potrebbe essere paragonato alla stagione callejera (che si traduce “di strada”, ma anche “randagio”, quindi “sciatto” come ama definirla una caro amico giornalista, radiofonico e di agenzia internazionale), che ci viene imposta da alcuni anni, in contemporanea con mio ritiro dal servizio attivo, per raggiunte limite di età.

Quindi, dopo la nostra documentazione in Cinque Parti pubblicata ieri – Procedimento penale n. 45/2019 RGP vaticano: il Papa tirato in ballo e tutto ridotto ad un’arrampicata sugli specchi. Uno spettacolo indecoroso con Becciu già giustiziato – oggi ritorniamo ad occuparsi del Caso 60SA sfociato nel Processo 9+1, poi diventato 5+1, in sostanza il Processo Becciu, intavolato con una dispendio di energia e di spesa mai visto prima nella storia dello Stato Pontificio e lo Stato della Città del Vaticano dopo. È oltremodo facile capire – con l’ausilio del Rasoio di Occam – che tutto questo pateracchio indecoroso del sistema giudiziario vaticano ha uno scopo solo: tenere il Cardinale Angelo Becciu fuori dal prossimo Conclave. Nonostante abbiamo sempre anticipato gli eventi, un nostro lettore mi ha detto ieri: “Ho la sensazione che c’è qualcosa che mi sfugge… chissà perché ho questa sensazione…”. Ecco, questa sensazione è comprensibile, perché tutto questo scempio ha dell’incredibile e dell’inconcepibile.

Per cogliere bene la disperata arrampicata sugli specchi, portata in scena ieri nel Tribunale vaticano dal Promotore di Giustizia, il Professore Avvocato Alessandro Didi del Foro di Roma, vale la pena leggera la Quinta Parte, che è risolutiva [QUI]: «Basta andare a rileggere la risposta del Papa a Caricato, per costatare che quanto ha offerto balbettando il Professore Avvocato Alessandro Diddi nella quarta Udienza del Procedimento penale n. 45/2019 RGP di ieri, come spiegazione della sua frase rivolta all’imputato Mons. Alberto Perlasca durante l’interrogatorio, non sta in cielo né in terra».

Ho ricordato ieri – e non lo era la prima volta – che quello che ha visto tutto in modo chirurgico molto giusto, era il Giudice Tony Baumgartner della Southwark Crown Court di Londra. Il giudice britannico ha criticato i Promotori di Giustizia vaticani per aver fornito false dichiarazioni alla corte di Londra, sulla loro indagine sull’investimento della Segreteria di Stato dell’affare immobiliare di Londra, determinando che hanno poco o niente in mano contro il loro principale sospettato di estorsione ai danni della Santa Sede (il broker Gianluigi Torzi).

Un mito, lo Zio Tony, che ha fatto fare una figura di merda globale a questo specie di pubblico ministero vaticano, che pensa di nascondere le offese per un giudice inglese nel suo papiello di 500+19.000 carte (parlando di “aberranti conclusioni”, niente di meno, rivolto al un giudice della Corona brittanico), pensando che non le avremmo sottolineate, evidenziate e fatte emergere. Questo Promotore di Giustizia lo devono radiare! E in questo caso – per la prima volta – saremo d’accordo senza riserva con una “cacciata”, o almeno un “non farti più vedere”, a cui l’Uomo che Veste di Bianco ha destinate una lunga fila di uomini e amici valorosi, nel trascorso della sua stagione callejera.

Alessandro Diddi, Promotore di Giustizia vaticano, parla durante la quarta sessione del processo a sei imputati accusati di reati finanziari, tra cui il Cardinale Angelo Becciu, presso il Tribunale penale dello Stato della Città del Vaticano il 17 novembre 2021. Gli avvocati che rappresentano gli imputati rilevano che i pubblici ministeri vaticani hanno omesso prove e testimonianze, che sono cruciali nella preparazione della loro difesa (Foto di Vatican Media).

Di seguito riportiamo due contributi:

– Il primo articolo – in una nostra traduzione italiana dall’inglese – è a firma di Christopher R. Altieri per Catholic World Report di ieri, 18 novembre 2021: «XXXX». Altieri è un giornalista e autore di tre libri, tra cui Reading the News Without Losing Your Faith [Leggere le notizie senza perdere la tua fede] (Catholic Truth Society 2021). Ritorna su alcuni questioni che abbiamo già trattato ampiamente, offrendo però alcuni ulteriori e interessanti valutazioni.

– Il secondo articolo, a firma di Lucio Cincinnato, riportiamo dal Foglio di oggi, 19 novembre 2021: «Altro che processo del secolo, quello in Vaticano è uno show imbarazzante», con «tutto ciò che non torna nell’inchiesta». Il Tac del disastro in corso e il presagio della sua ingloriosa imminente fine, con nell’incipit e nella conclusione l’essenza, come da manuale del buon giornalista

L’incipit: «“Al amigo, todo; al enemigo, ni justicia”. “All’amico tutto, al nemico nemmeno la giustizia”. Il vecchio adagio di Juan Domingo Perón si può benissimo applicare alla giustizia misericordiosa applicata nello Stato della Città del Vaticano, dove si sta celebrando un processo che sarebbe stato tutto da rifare, o perlomeno da annullare».

La conclusione: «Sono i dubbi degli osservatori internazionali, tra i quali Moneyval, il comitato di esperti antiriciclaggio del Consiglio d’Europa, che non mancano di notare come il Vaticano usi codici obsoleti, non in linea con gli standard sui diritti dell’uomo e perfino applicati senza riguardo delle garanzie previste dal diritto canonico, prima fonte normativa in Vaticano. C’è ancora il Papa-re, e Papa Francesco, intervenendo nel processo, si è comportato da tale. Ma questo può essere controproducente. Perché anche se il pm rinunciasse alle sue tesi, di certo non saranno messe da parte le richieste risarcitorie da parte di coloro che sono stati ingiustamente accusati e comunque danneggiati. E così, la Santa Sede potrebbe avere oltre al danno, la beffa». Ed ecco, il Re è nudo e il Promotore di Giustizia aggiunto va avanti per la sua strada come un kamikaze – con l’assist della bassa manovalanza, incluso qualche giornalista embedded, rimasto ancora compiacente – per scongiurare questa fine, di cui il Papa-callejera dovrà rispondere, visto che in Vaticano non si muove foglia che lui non sappia… E se non lui, suo successore.

– Poi, visto che ci piace di andare a leggere ogni tanto – anzi spesso – articoli “stagionati” (essendo molto devoti e con la particolare devozione alla lente e la memoria da elefante), riportiamo anche alcuni contributi precedenti del Foglio, che dimostrano l’inesorabile declino della stagione callejera peronista della Roma locuta, causa finita non est.

Papa Francesco  arriva per l’Udienza generale nell’Aula Paolo VI, mercoledì 17 novembre 2021 (Foto di Gregorio Borgia/AP Photo).

Il processo al Cardinale Becciu è uno spettacolo disfunzionale con gravi ripercussioni
L’affare di Londra è più disordinato di quanto avrebbe dovuto essere; soprattutto, è il risultato del governo di Papa Francesco
di Christopher R. Altieri
Catholic World Report, 18 novembre 2021

[Nostra traduzione italiana dall’inglese]

Sono abbastanza sicuro che il video che ho ricevuto da un amico a Roma non fosse – come pretendeva di essere – un vero filmato dall’Aula del Tribunale della Città del Vaticano, ripreso mentre il processo al Cardinale Angelo Becciu e cinque presunti co-cospiratori, era in Aula all’inizio di questa settimana. In effetti, sono quasi certo che il video fosse uno spezzone di uno spettacolo di clown.

L’intera faccenda è in sospeso per ora, comunque, perché l’accusa non vuole mostrare alla difesa ciò che ha. L’accusa sostiene che le lacunae nella scoperta – lo scambio ufficiale di prove tra le parti in una controversia legale [1] – siano dovute in parte alla natura sensibile di alcuni materiali, che vengono utilizzati nell’ambito di indagini in corso non collegate al caso attualmente a processo [2].

Potrebbe anche essere, ma ci sono molti modi per aggirarlo. In ogni caso, è una massima universalmente riconosciuta della giurisprudenza civile, che il diritto alla difesa include il diritto di esaminare le prove che l’accusa ha utilizzato per sostenere le proprie ragioni.

I giudici hanno già archiviato diversi capi d’accusa, adducendo un errore dell’accusa.

Alla fine dell’Udienza di circa tre ore di mercoledì 17 novembre 2021, il Presidente del Tribunale ha aggiornato il processo al 1° dicembre. “Non inizieremo l’esame delle questioni di questo processo”, ha detto il Giudice Giuseppe Pignatone, “fino a quando la difesa non avrà completa conoscenza degli atti”. Ciò potrebbe significare che è stata fissata una data di inizio effettiva alle calende greche.

La grande novità nel processo di questa settimana ha riguardato il testimone chiave del Vaticano, Mons. Alberto Perlasca, che ha condotto da parte della Segreteria di Stato l’impresa di sviluppo da 400 milioni di dollari in Sloane Avenue Londra, ed era un sospettato nelle indagini prima di diventare testimone dell’accusa.

Si scopre che mons. Perlasca potrebbe essere stato influenzato da una narrazione offerta da uno dei suoi ex superiori nella struttura di potere del Vaticano: Papa Francesco.

Apparentemente Mons. Perlasca ad un certo punto ha detto ai pubblici ministeri che lo stesso Papa Francesco aveva autorizzato le macchinazioni che ora dicono facessero parte di un complotto criminale ai danni del Vaticano. Nel corso di un interrogatorio, però, i pm hanno detto a Perlasca di aver sentito dal Papa una storia diversa. I pubblici ministeri potrebbero o non potrebbero aver parlato con Papa Francesco nell’ambito della loro indagine, ma le prove suggeriscono che lo hanno fatto – e questo è un problema per gli avvocati del Vaticano e per il Papa.

I giudici vaticani Giuseppe Pignatone e Venerando Marano arrivano durante la quarta udienza del processo di sei imputati accusati di reati finanziari, tra cui il Cardinale Angelo Becciu, presso il Tribunale penale dello Stato della Città del Vaticano, 17 novembre 2021. Gli avvocati che rappresentano gli imputati hanno eccepito che i pubblici ministeri vaticani hanno omesso prove e testimonianze che ritengono cruciali nella preparazione della loro difesa (Foto di Vatican Media).

Gli avvocati difensori vogliono che il Tribunale ordini ai pubblici ministeri di consegnare le trascrizioni delle osservazioni del Papa – vogliono che l’accusa consegni tutte le prove in suo possesso, e sembra una richiesta ragionevole – ma i pubblici ministeri vaticani insistono sul fatto che “non hanno mai sentito il Santo Padre [agli atti]” e dicono che le osservazioni alle quali Perlasca ha reagito con “supremo sconcerto” sono state “quanto il Santo Padre… ha testimoniato riguardo a questa vicenda in tempi non sospetti”.

Il pm, Alessandro Diddi, ha detto [QUI] che riferiva alle osservazioni fatte da Papa Francesco ai giornalisti a bordo dell’aereo che lo portavo da Tokyo a Roma nel 2019 [QUI].

Nella parte di registrazione che l’avvocato difensore Luigi Panella ha tentato di far sentire nell’Aula del Tribunale, però, il pm racconta a mons. Perlasca: «Noi, prima di fare questo che stiamo facendo siamo andati dal Santo Padre e gli abbiamo chiesto cosa è accaduto».

Nei commenti ai giornalisti durante la conferenza stampa in volo, Papa Francesco ha ammesso di essere stato coinvolto fin dall’inizio nelle indagini che hanno portato al processo attualmente in corso. Ha ammesso di aver autorizzato le perquisizioni pasticciate, che hanno portato clamore mediatico intorno all’affare immobiliare di Londra, che a sua volta ha portato alla sospensione temporanea della Santa Sede dalla rete di condivisione di informazioni critiche delle unità di intelligence finanziaria del Gruppo Egmont.

Ulteriore copertura mediatica [QUI] ha fortemente suggerito [QUI] che Papa Francesco era meglio informato sull’oscuro accordo di Londra di quanto lui o i suoi collaboratori in Vaticano abbiano lasciato intendere, e potrebbe aver approvato almeno alcuni dei passaggi nell’accordo che i pubblici ministeri ora sostengono fosse un enorme imbroglio e truffa.

The Associated Press ha ottenuto una nota del Sostituto della Segreteria di Stato della Santa Sede – grosso modo, il capo di stato maggiore pontificio – l’Arcivescovo Edgar Peña, in cui Peña afferma che il desiderio espresso di Papa Francesco era quello di perdere meno soldi possibile, e che il modo migliore per farlo era trattare con l’ex intermediario, Gianluigi Torzi, piuttosto che querelarlo [3].

Fondamentalmente, il Vaticano ha deciso di riscattare Torzi dall’accordo, dopo che Torzi ha superato in astuzia i tipi vaticani. Con quell’opzione «“si è anche semplicemente allineato con il desiderio del Superiore”, un riferimento a Francesco», secondo la nota citata dall’AP.

Come sono riusciti a perdere soldi su un’affare immobiliare londinese di alto livello?

Quella domanda – nella forma di un’affermazione dalla bocca di un esperto immobiliare del Financial Times – è quella che John Allen ha scelto [QUI] per il vincitore della “sound bite sweepstakes” (classifica dei migliori frasi ad effetto) nelle notizie del Vaticano della scorsa settimana. È stata una scelta solida, perché parla dell’inveterata disfunzione dell’intera banda.
Tuttavia, è solo una parte del motivo per cui le persone dovrebbero interessarsi a questa storia.

Andrea Gagliarducci della CNA, nella sua analisi del processo fino ad oggi [QUI], ha osservato che il processo si sta svolgendo sotto le leggi e la giurisdizione della Città del Vaticano – un microstato, la cui principale ragion d’essere è quella di proteggere e facilitare le interessi dell’attore sovrano noto come la Santa Sede, ma le implicazioni dell’intera faccenda sono di vasta portata e potenzialmente disastrose per la stessa Santa Sede.

È certamente un punto traballante, ma come molte distinzioni traballanti, è cruciale.

“Il Vaticano” è nella migliore delle ipotesi un’astrazione, di solito non più o meno significativa di qualsiasi altra semplificazione giornalistica. La Città del Vaticano esiste per garantire l’indipendenza temporale del papato. È il soggetto territoriale della Santa Sede. Il suo scopo è sostenere la Santa Sede, che è la vera espressione sovrana e veicolo del papa nel mondo.

“L’equilibrio di potere è stato invertito”, ha scritto Gagliarducci. “Oggi, gli interessi dello Stato sembrano in qualche modo andare a ‘mangiarsi’ la Santa Sede”, ha osservato. “Questo è un segno della ‘Vaticanizzazione’ della Santa Sede”. Una storia gigantesca, in altre parole, è che si tratta di un caso istituzionale della coda che scodinzola il cane.

Ciò ha reso questa attività londinese più ingarbugliata di quanto avrebbe dovuto essere, ma è un problema più generale. È il risultato della gestione di Papa Francesco e ha gravi ripercussioni, solo alcune delle quali hanno cominciato a farsi sentire.

[1] Per iniziare a prepararsi per il processo, entrambe le parti si impegnano nella scoperta. Questo è il processo formale di scambio di informazioni tra le parti sui testimoni e le prove che presenteranno al processo. La scoperta consente alle parti di sapere prima dell’inizio del processo quali prove possono essere presentate.

[2] Questa è stata una novità, scoperta nella quarta udienza e di cui qualche giornalista embedded compiacente ha avuto notizia, dai fascicoli degli investigatori vaticani, in violazione del segreto istruttorio, pure invocato dal pubblico ministero vaticano per motivare gli omissis. Nel frattempo questa dichiarazione del pm vaticano, offre la spiegazione delle allora non meglio illustrati tagli negli audio e audio-video registrazioni, adoperate “per ragione di interesse investigativo, ovvero perché riguardanti temi non pertinenti ne rilevanti al Procedimento 45-19 R.G.P.”, come scrive il Commissario Stefano De Santis nella sua lettera al Comandante della Gendarmeria, nel giorno di Tutti i Santi, il 1° novembre 2021.

Il passaggio contestato durante l’interrogatorio dal Promotore di Giustizia Alessandro Diddi all’imputato Mons. Alberto Perlasca riguardante Papa Francesco fa riferimento ad una udienza che il pontefice concesse al finanziere molisano Gianluigi Torzi il 26 dicembre 2018, nel tentativo di mediare direttamente per restituire alla Segreteria di Stato la titolarità del palazzo al numero 60 di Sloane Avenue di Londra. Il Papa voleva chiudere la faccenda (Foto di Adnkronos).

[3] « In una nota ai pubblici ministeri ottenuta in precedenza da The Associated Press, Peña Parra ha affermato che Francesco aveva chiarito entro novembre 2018 che voleva perdere meno soldi possibile per assicurarsi finalmente la proprietà dell’edificio e “girare pagina e ricominciare da capo”. Dopo aver realizzato che Torzi controllava effettivamente l’edificio e basandosi sul desiderio di Francesco di andare avanti, Peña Parra ha affermato che il Vaticano aveva due scelte: citare in giudizio Torzi o ripagarlo per le 1.000 azioni con diritto di voto che possedeva. “Tra queste due opzioni, con la consulenza di avvocati ed esperti, è stata scelta l’opzione n. 2 perché ritenuta più economica, con rischi più contenuti e in un lasso di tempo più gestibile”, ha scritto Peña Parra, che non è un sospettato. “Si è anche semplicemente allineato con il desiderio del Superiore”, un riferimento a Francesco. Durante l’interrogatorio di Perlasca, Diddi ha insistito sul fatto che il Papa non ha mai autorizzato nessuno a negoziare un pagamento di uscita per Torzi, interrompendo ripetutamente il Monsignore in mezzo a un’accesa discussione, secondo la trascrizione. “questa storia che il Santo Padre ha detto a qualcuno di trattare non sta né in cielo e né in terra, , e fortunatamente le carte e… convergono verso questa conclusione”, ha insistito Diddi. “. E dire che si è trattato con Torzi perché il Santo Padre lo ha detto di fare è veramente qualcosa che grida vendetta”» (Nicole Winfield – The Associated Press, 17 novembre 2021).

Altro che processo del secolo, quello in Vaticano è uno show imbarazzante
Il Promotore di Giustizia dovrà riprendere in mano gli atti, procedere con nuovi interrogatori, e forse perfino ridefinire i capi di accusa nel processo sulla gestione dei fondi della Segreteria di stato. Ecco tutto ciò che non torna nell’inchiesta
di Lucio Cincinnato
Il Foglio, 19 novembre 2021


“Al amigo, todo; al enemigo, ni justicia”. “All’amico tutto, al nemico nemmeno la giustizia”. Il vecchio adagio di Juan Domingo Perón si può benissimo applicare alla giustizia misericordiosa applicata nello Stato della Città del Vaticano, dove si sta celebrando un processo che sarebbe stato tutto da rifare, o perlomeno da annullare. Alla fine, si è deciso che è un processo da rifare solo in parte.

La saga vaticana del processo sulla gestione dei fondi della Segreteria di stato continua, così, su due binari paralleli: da una parte, si continua con i procedimenti già avviati; dall’altra, dopo oltre due anni di “istruzione sommaria” autorizzata da Papa Francesco e condotta unilateralmente dagli inquirenti, senza adeguate garanzie per la difesa, si ricomincia da capo su diversi capi di accusa e per gli imputati principali. Così, il Promotore di Giustizia (il pm vaticano), per decisione del Tribunale presieduto da Giuseppe Pignatone, dovrà riprendere in mano gli atti, procedere con nuovi interrogatori, ed eventualmente perfino ridefinire i capi di accusa.

Dopo due anni di clamore mediatico, per i giustizialisti e colpevolisti della prima ora c’è ora il rischio che buona parte del processo si vada a sgonfiare, e che quello annunciato come “il processo del secolo” possa assumere il tono di un processo-show. E ci deve chiedere quali saranno le conseguenze per la Santa Sede nel caso emergessero violazioni di diritti.

Il “maxiprocesso”, riguarda diversi soggetti, il più in vista quali è il cardinale Giovanni Angelo Becciu, e vicende anche sconnesse fra di loro, ma che vedono al centro di tutto l’acquisto di un palazzo a Londra da parte della Segreteria di stato vaticano.

Ed è già cui che nascono le domande. Perché il sostituto (numero due della Segreteria di stato, ndr) è sempre tenuto a riferire al Papa ogni atto di ordinaria amministrazione, e Mons. Penã Parra, insieme al cardinale Pietro Parolin, segretario di sato, ha deciso e autorizzato l’acquisto dell’immobile. Il Papa non solo sapeva, ma sembra che sia persino intervenuto nelle negoziazioni successive all’acquisto di quell’immobile.

Ne Penã Para né Parolin né altri soggetti coinvolti a diverso titolo in tutte le fasi delle operazioni sono tuttavia interessati dalle inchieste. Gli inquirenti sostengono che i superiori sono stati fuorviati da servitori infedeli. Quanto ai subordinati, invece, le sorti sono state disparate. “Al amigo, todo; al nemigo, ni giusticia”, appunto.

Al di là delle accuse, colpisce il modo in cui si è arrivati al processo. Perché Papa Francesco ha autorizzato un procedimento sommario (fatto, cioè, senza garanzie processuali per le difese e senza passare per un giudice istruttore) e poi ha stilato quattro diversi rescripta ex audiencia SS.MM. che sono intervenuti direttamente sul processo e sulle indagini, concedendo un mandato in bianco ai pm vaticani, autorizzando la sospensione dell’applicazione di alcune leggi, consentendo intercettazioni senza una legge in materia, esonerando dalla considerazione del segreto d’ufficio e altro. Il primo di questi documenti è stato redatto il 2 luglio 2019, addirittura lo stesso giorno della denuncia dello Ior, quindi in assenza di qualsiasi indagine preliminare.

A questo, si aggiungevano le sospensioni dal servizio senza seguire i regolamenti vigenti, una serie di interrogatori fatti senza che le persone sapessero nemmeno a quale titolo erano coinvolti nel processo; a perquisizioni in abitazioni private in suolo non vaticano da parte della Gendarmeria vaticana; a una serie di altre irregolarità procedurali che i difensori non avevano mancato di far notare.

Fino al colpo di scena del 5 ottobre, con la richiesta del pm Diddi di riprendere in mano gli atti per ricominciare daccapo, le accuse di un “garantismo di ritorno” da parte degli avvocati e la salomonica decisione di Pignatone di rimandare al pm solo parte degli atti. Lanciando di fatto un segnale: l’impianto accusatorio è debole, vanno messe in discussione le indagini della Gendarmeria e il loro modo di condurle, nonché le tesi dei pm.

Ma chi potrà difendere l’immagine pubblica di Papa Francesco, promotore della dignità umana, se dovessero essere denunciate violazioni? Può l’ordinanza del Tribunale sanare le carenze strutturali del sistema giudiziario vaticano? E ancora: può l’ordinanza di Pignatone sanare i danni subiti dagli indagati e dagli imputati?

Sono i dubbi degli osservatori internazionali, tra i quali Moneyval, il comitato di esperti antiriciclaggio del Consiglio d’Europa, che non mancano di notare come il Vaticano usi codici obsoleti, non in linea con gli standard sui diritti dell’uomo e perfino applicati senza riguardo delle garanzie previste dal diritto canonico, prima fonte normativa in Vaticano.

C’è ancora il Papa-re, e Papa Francesco, intervenendo nel processo, si è comportato da tale. Ma questo può essere controproducente. Perché anche se il pm rinunciasse alle sue tesi, di certo non saranno messe da parte le richieste risarcitorie da parte di coloro che sono stati ingiustamente accusati e comunque danneggiati. E così, la Santa Sede potrebbe avere oltre al danno, la beffa.

Il giustizialismo vaticano fa acqua da tutte le parti
L’idea di sacrificare alcuni e proteggere altri ostentando al mondo una ritrovata purezza del sistema non regge
In un governo autocratico come quello della Santa Sede, si può credere che la Suprema autorità e il Sostituto non fossero pienamente consapevoli delle operazioni che passo dopo passo hanno autorizzato? Qualche domanda
di Lucio Cincinnato

Il Foglio, 8 febbraio 2021

Colpo di scena: dopo la mancata convalida da parte dei magistrati italiani delle misure cautelari nei confronti di Cecilia Marogna – cittadina italiana indagata oltretevere per il reato di peculato – gli inquirenti vaticani hanno ritirato la richiesta di estradizione in Vaticano. Per consentire – si legge nel bollettino della Santa Sede del 18 gennaio – “all’imputata di partecipare al processo in Vaticano, libera dalla pendenza di misura cautelare nei suoi confronti”. Gli inquirenti vaticani, in pratica, fanno sapere alla Marogna che può serenamente recarsi dall’altra parte del Tevere e farsi giudicare. Noblesse oblige. E questo dopo che la Marogna era stata arrestata e incarcerata in Italia per oltre quindici giorni in esecuzione di provvedimenti adottati dagli inquirenti vaticani, provvedimenti poi cassati dai magistrati italiani per “vuoto motivazionale”, contrarietà ai principi sanciti dalla Costituzione, richieste irrituali e non in linea ai protocolli internazionali. Perché non confidare nel sistema giudiziario vaticano?

Il trionfo del giustizialismo vaticano
Perquisizioni irrituali, arresti annullati, epurazioni continue. La gestione degli ultimi scandali sta compromettendo la credibilità morale della Santa Sede. Inchiesta
di Lucio Cincinnato
Il Foglio 1° febbraio 2021


L’autorità giudiziaria vaticana appare essere più vicina che mai all’operato di una qualunque procura italiana. Informazioni poche, trasparenza scarsa, misteri ovunque.

Tra istruzioni sommarie avvallate pare dal Papa in persona, perquisizioni al di fuori delle procedure e delle regole, richieste di arresto irrituali e considerate prive di fondamento dai giudici italiani, fughe in avanti e repentini dietrofront degli inquirenti vaticani su richieste di estradizione di cittadini italiani, la Santa Sede rischia di diventare una sorta di paria nel mondo internazionale. Monarchia assoluta e giustizialista si direbbe, la Santa Sede partecipa però ai tavoli internazionali, firma convenzioni e trattati, si impegna a difendere la dignità umana ovunque nel mondo, anche a costo di essere impopolare e di andare controcorrente. Un’autorità morale che le è sempre stata riconosciuta e che ora scricchiola di fronte al modo in cui sono condotte in Vaticano le indagini riguardo gli ultimi scandali finanziari

Il Papa non è più pop. Cronaca di un pontificato che si è incartato
di Matteo Matzuzzi
Il mondo che tanto aveva sostenuto la rivoluzione di Francesco ora gli volta le spalle. Dalla caccia alle streghe sulla pedofilia allo stallo delle riforme finanziarie, la stagione callejera inizia a dare segni di stanchezza
Il Foglio, 23 gennaio 2018


Stavolta non è stato uno dei “cospiratori”, uno di quelli che per dirla con l’arcivescovo argentino Víctor Manuel Fernández, teologo tra i più ascoltati da Francesco, ragionano e parlano come se Jorge Mario Bergoglio non fosse stato eletto al Soglio di Pietro per rispettare “il disegno di Dio” (copyright del cardinale Oscar Maradiaga, coordinatore del Consiglio della corona che da cinque anni studia e ragiona sulla riforma della curia). L’official statement, la dichiarazione ufficiale pubblicata sul sito dell’arcidiocesi di Boston contro le parole del Papa che aveva difeso a spada tratta il vescovo Juan Barros, accusato – senza prova alcuna, come ha ribadito più volte il Papa durante la conferenza stampa in aereo a conclusione del viaggio apostolico in America latina – d’aver partecipato agli abusi praticati su minori dal suo mentore, padre Fernando Karadima, è scritto da Sean Patrick O’Malley, cardinale cappuccino che proprio Francesco ha voluto alla guida della Pontificia commissione per la tutela dei minori. Che O’Malley, rettore della diocesi di Spotlight, non potesse condividere il todas calumnias pronunciato davanti alle telecamere da Francesco, era abbastanza chiaro. Che decidesse di rendere nota una dichiarazione a mezzo stampa, è ben altra faccenda. Il Pontefice ha ammesso di aver esagerato nei toni, chiedendo alle vittime “le prove” degli abusi coperti da Barros, aggiungendo che la dichiarazione di O’Malley è giusta. Ma non arretra di un millimetro: nemo malus sine probetur, non c’è il delitto se questo non viene provato. E però poco cambia, ormai il fronte ulteriore nell’incedere del pontificato s’è aperto, e stavolta non sono virili dispute sulla comunione da dare o no ai divorziati risposati, sul sacramento più o meno svilito o sulla morale famigliare.

È di nuovo la pedofilia, la caccia alle streghe che aveva logorato l’ultima fase del pontificato ratzingeriano, con improbabili mandati di comparizione spediti in Vaticano per il vescovo di Roma, a scuotere la Barca che pare barcollare in marosi sempre più agitati.

Francesco, che tra i punti qualificanti dell’agenda aveva la “tolleranza zero” contro i preti rei d’aver abusato di minori e allo scopo aveva creato una commissione ad hoc al cui interno erano presenti vittime con licenza di denunciare a mezzo stampa le lentezze del Vaticano nel purificare la chiesa e nell’indicare cardinali e vescovi ostili a indossare le vesti degli inquisitori giacobini, ha sbottato. Se l’è presa pubblicamente con chi ha contestato una sua nomina (Barros) ribadendo che è lui e lui solo a decidere e che non vuole sentire chiacchiere o pettegolezzi, ché sono roba “da terroristi”. ¿Está claro? aveva poi detto troncando la conversazione con i giornalisti che gli esponevano le presunte e mai documentate malefatte criminali del vescovo di Osorno.

C’è la sensazione che Francesco, assai più del predecessore, si senta accerchiato, assediato dalle stesse armi che avevano stretto la morsa attorno alla stagione di Benedetto XVI. I pontificati non s’incartano nelle strade semivuote di Santiago del Cile dove più che folle festanti si vedevano i portoni anneriti delle chiese date alle fiamme. I pontificati vanno in crisi a Roma, nei corridoi dei Palazzi apostolici pieni di spifferi, di serpenti pronti a sibiliare e di ostacoli spesso invisibili ma decisivi nello scoraggiare ogni tentativo di superarli. Il pontificato fa sentire tutti gli acciacchi e le sofferenze, le tensioni e le tossine incubate da mane a sera. Declina, prima o poi. In un altro mondo, con i reporter che contavano i singhiozzi di Pio XII, cercando nel ritmo della respirazione di Papa Pacelli qualche segno che indicasse un declino fisico irreversibile. O, più di recente, con le telecamere che indugiano sul calvario di Giovanni Paolo II, il Papa sportivo benedicente senza voce dalla sua finestra. E poi Paolo VI, che il Golgota lo scalò per dieci anni, gli ultimi del suo pontificato, travolto dall’insurrezione di manipoli di vescovi ribelli che si ritenevano delusi da come Montini aveva condotto in porto la Barca nelle agitate acque conciliari. Assediato nella cittadella, pur nella sua ieraticità mostrata fino in fondo.

Quarant’anni dopo, il Papa non dimora più tra i fasti dei palazzi, in quell’appartamento da lui definito “un imbuto rovesciato” che rendeva l’aria soffocante, che imbrigliava l’energia che Jorge Mario Bergoglio voleva dare a una chiesa che aveva visto logorarsi durante il pontificato ratzingeriano, tra corvi che planavano sulle scrivanie del Papa rubandogli i documenti e donandoli a giornalisti e romanzieri, scandali a orologeria, derive trash e una gestione pasticciata della Segreteria di stato, che si dimenticava di segnalare al Pontefice le teorie negazioniste di vescovi scomunicati e misericordiosamente riammessi in seno alla madre chiesa. Pulizia, trasparenza, ventate d’aria fresca e pura: ecco le parole chiave che precedettero il Conclave del 2013, con la pioggia che batteva Roma, i gabbiani appollaiati sul comignolo della Sistina in attesa della fumata bianca e il vecchio Papa salito sul monte che silenziosamente tutto guardava seduto davanti a un televisore. “Un manager, abbiamo eletto un manager”, diceva il cardinale Timothy Dolan, arcivescovo di New York e capofila del gruppo degli americani che voleva una netta cesura con il modus operandi di Tarcisio Bertone che dallo Ior in giù tanti problemi, secondo il j’accuse generale, aveva determinato. Riforme e ancora riforme, si chiedeva a gran voce, sia dal fronte conservatore sia da quello progressista.

L’attivissimo cardinale Oscar Rodríguez Maradiaga, arcivescovo salesiano di Tegucigalpa, già presidente di Caritas internationalis, snocciolava a taccuini aperti e microfoni accesi i cahiers de doléances dei cardinali estranei agli intrighi romani e sciorinava l’elenco delle cose da fare, sottolineando (lui come altri) che prima di tutto bisognava “mettere ordine in casa”, come disse il cardinale Francis George, capostipite riconosciuto del conservatorismo muscolare statunitense che confessò poco prima di morire di avere un solo desiderio: arrivare fino a Roma per domandare al Papa che cosa davvero volesse fare della chiesa. Una casa, si osservava da ogni parte, che sarebbe dovuta diventare trasparente. Nelle congregazioni del pre Conclave, eminenze stimate (Christoph Schönborn, ad esempio) si spingevano a domandare la chiusura dello Ior, considerato il ricettacolo di tutti gli scandali e del malaffare petrino.

Francesco, una volta eletto, metteva in pratica il programma. Primo: trasferimento del domicilio in albergo, aperto al contatto con la gente. Niente più soluzioni “rinascimentali e principesche”. Secondo: istituzione del C8 (che poi diverrà C9 quando si deciderà di aggiungere al tavolo un posto per il segretario di stato, giacché sarebbe stato assurdo che il primo ministro del Papa non fosse incluso nel gran consiglio), una speciale consulta di cardinali consiglieri costituita da nove porporati presi qua e là e rappresentativi delle chiese locali. L’incarico, si spiegò dalla Santa Sede, era finalizzato a consigliare il Papa circa il governo della chiesa universale e – soprattutto – a elaborare la madre di tutte le riforme, quella della curia romana, della governance. Riunioni ogni tre mesi, audizioni a vescovi e monsignori, esame punto per punto delle funzioni dei vari dicasteri vaticani. Maradiaga disse che bisognava rendere la struttura “più agile”, che c’erano troppi uffici e che quindi andavano ridotti. Cinque anni dopo, nonostante le riunioni procedano, il risultato è l’accorpamento di qualche pontificio consiglio, l’istituzione di una Segreteria per la comunicazione e poco altro. Della costituzione che avrebbe mandato in archivio la riforma magna di Paolo VI poi ritoccata da Giovanni Paolo II, non s’è vista ancora nemmeno una riga.

E poi l’economia: nei primi mesi arrivarono motu proprio, chirografi papali che istituivano commissioni e sottocommissioni incaricate di aggiornare ritoccare ed eliminare scrivanie e organismi. Francesco dava subito seguito ai desiderata espressi nella Sede vacante, chiamando a Roma l’energico cardinale australiano George Pell, incaricato di rendere trasparente il palazzo mettendo il naso in tutti quei dossier fino a quel momento considerati off limits per gli estranei alla cerchia romana. E infatti subito finivano sui giornali verbali di riunioni cardinalizie in cui si definiva l’opera di Pell una sorta di “sovietizzazione”, con il cardinale Jean-Louis Tauran che riteneva sbagliato che uno facesse “tutto” e gli “altri niente”, mentre il cardinale Giovanni Battista Re, già prefetto della congregazione per i Vescovi vedeva nell’istituzione del nuovo dicastero un qualcosa di “pericoloso”. L’irritazione nei confronti di Pell cresceva, lui comunicava con la curia attraverso la posta elettronica, un modus operandi non di casa al di là del Tevere. All’inizio, Francesco diede corda al porporato australiano, sostenendolo e confermando l’impegno per la pulizia, anche quando i bilanci fino a quel momento secretati venivano sciorinati in conferenze stampa ed esposti, ça va sans dire, al pubblico ludibrio. Intanto, accuse vecchie di decenni costringevano Pell a tornare in patria per difendersi nel processo riguardante presunti abusi sessuali su minori, il Revisore generale – altro pilastro della lustracija finanziaria vaticana – veniva allontanato senza troppi complimenti e il vicedirettore generale dello Ior, Giulio Mattietti, veniva accompagnato alla porta. In pochi mesi, la struttura messa in piedi per dare corso a quella grande riforma teorizzata nei primi giorni dopo l’elezione di Francesco si sbriciolava come un castello di sabbia. La Segreteria per l’Economia è vacante, un corpaccione senza testa e senza guida privato dei poteri che aveva in origine. Il Revisore generale non c’è e la Segreteria di stato ha progressivamente riconquistato campo e capacità di manovra. Curioso, se si considera che fu proprio la Segreteria di stato allora a guida Bertone a essere messa sul banco dagli imputati nel pre Conclave.

Si è tornati, in sostanza, allo status quo ante, seppur reso più presentabile dai rapporti sulla trasparenza migliorata e l’allineamento agli standard bancari internazionali. Ma il Caterpillar che doveva rifondare tutto si è rovesciato. Lasciando vistose macchie d’olio dietro di sé, visto che il Revisore generale licenziato, Libero Milone, nel frattempo convocava i giornalisti per dire di essere stato minacciato e costretto a dimettersi dal sostituto della Segreteria di stato, mons. Becciu, che per tutta risposta faceva sapere alla stampa che “Milone ci spiava”. Il Revisore generale deposto chiamava in causa il Papa, facendo intendere che Francesco è una sorta di marionetta manovrata da una cerchia di consiglieri – magari coloro i quali hanno allestito il matrimonio in aereo tra due assistenti di volo cileni, talmente estemporaneo da essere stato annunciato dagli stessi un mese prima a un giornale locale – determinata a far seguire alla Barca petrina una rotta ben determinata. Una rotta che porta all’abbraccio con il mondo che nella chiesa di Roma e nella sua auctoritas ha sempre visto tutto il peggio, un accrocchio di potere e segreti degno dei romanzi di Dan Brown. Bergoglio reagiva, pochi giorni prima di Natale, nel consueto messaggio augurale alla curia, additando i “traditori di fiducia” e gli “approfittatori della maternità della chiesa, ossia le persone che vengono selezionate accuratamente per dare maggior vigore al corpo e alla riforma, ma – non comprendendo l’elevatezza della loro responsabilità – si lasciano corrompere dall’ambizione o dalla vanagloria e, quando vengono delicatamente allontanate, si autodichiarano erroneamente martiri del sistema, del ‘Papa non informato’, della ‘vecchia guardia’…, invece di recitare il ‘mea culpa’. Accanto a queste persone ve ne sono poi altre che ancora operano nella Curia, alle quali si dà tutto il tempo per riprendere la giusta via, nella speranza che trovino nella pazienza della chiesa un’opportunità per convertirsi e non per approfittarsene”. Se le cose stanno così, “allora è difficile considerare Francesco un grande riformatore”, scriveva il vaticanista americano John Allen: “Ha lanciato un Consiglio per l’economia per impostare una linea politica, un Segretariato per l’economia per attuarla e un Revisore generale indipendente. Oggi, il Segretariato e l’ufficio del Revisore sono alla deriva, mentre il vero potere sulle finanze vaticane è tornato in capo alla Segreteria di stato, il bastione della ‘vecchia guardia’”.

Ma poi bisogna vedere anche altro, lasciare perdere la riforma delle strutture e andare al sodo, alla rievangelizzazione di un mondo che vive come se Dio non esistesse, soprattutto l’occidente stanco e appagato. Un cardinale, all’indomani del Conclave, diceva che ora le cose sarebbero cambiate, che Bergoglio aveva il pregio di parlare chiaro e semplice. E in effetti, il plauso corale fu totale: piazze piene, folle esultanti e commozione generale per il Papa che va in giro con le scarpe nere ortopediche e indossa i pantaloni neri e non quelli bianchi. Semplicità e frugalità per il Papa dei poveri e degli ultimi che alla Casa Bianca arrivò a bordo di una Fiat 500 L per ribadire l’idiosincrasia per fasti, ricchezze, cortei e fanfare. Il Papa pop dei selfie, le riviste che gli dedicano copertine, settimanali stampati ad hoc che spiegano i gesti quotidiani di Francesco. E’ l’idillio, qualcuno si sbilancia e dice che è l’uomo che salverà la chiesa. E che la salverà proprio grazie all’ascolto dello Zeitgeist, dello spirito del tempo. L’amore del circolo mediatico mainstream è così sincero che gli slanci bergogliani vengono usati per fare del Papa il personaggio perfetto da sbattere sulla copertina della rivista gay Advocate, che lo elesse nel 2013 personaggio dell’anno. Il Papa del “chi sono io per giudicare?” – la frase era ben più complessa, “Se una persona è gay e cerca il Signore e ha buona volontà, chi sono io per giudicarla?” – era il testimonial perfetto.

E pazienza per tutto quel che Jorge Mario Bergoglio sul tema aveva detto, tuonando contro le “lobby gay”, difendendo il matrimonio tra uomo e donna, definendo il “gender uno sbaglio della mente umana”, la “espressione di una frustrazione e di una rassegnazione”. Tutto cancellato nella narrazione consona a sostenere l’immagine del Papa ultraprogressista che piace al mondo. La liaison però non è stata eterna, ed è bastato ritrovare il vecchio grimaldello della pedofilia per mettere alla berlina Francesco, accusandolo di deludere le vittime degli abusi, di non ascoltare le loro richieste finalizzate a rimuovere vescovi e preti. Così, in men che non si dica, delle campagne contro le metrature degli appartamenti cardinalizi e delle docce sotto il colonnato petrino fatte installare per i clochard, è rimasto ben poco. Il Papa del chi sono io per giudicare è così diventato sì quello che giudica ma che giudica male perché al mondo che tanto piaceva non ha dato più corda; è diventato il Papa che ora viene messo a confronto con Benedetto XVI circa il riempimento delle piazze e perfino rispetto allo share televisivo degli Angelus, quasi a denotare che lo stile ammaliante non cattura più come all’inizio, avendo perso la spinta propulsiva così evidente e forte fino a uno-due anni fa.

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