11 febbraio 2013. Papa Benedetto XVI rinuncia al governo della Chiesa Cattolica Romana

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Oggi è il sesto anniversario dell’annuncio di Sua Santità il Papa Benedetto XVI dato l’11 febbraio 2013, nella memoria liturgica di Nostra Signora di Lourdes (per me una festa, anzi, una solennità), che aveva deciso, dopo molta preghiera e riflessione, di rinunciare al papato. L’ultimo giorno di quell’anno, sono andato in pensione anch’io, dopo aver lavorato per la sede vacante, il conclave e l’inizio solenne di Papa Francesco. Quindi, posso dire che è stato un’anno importante nella via vita, impossibile a dimenticare. Ancora tanti auguri di cuore a Sua Santità il Papa emerito Benedetto XVI, nella sera del giorno dell’annuncio della sua rinuncia. Preghiamo per lui, perché il Signore lo conservi ancora a lungo in serenità e salute.

Papa Benedetto XVI, la mattina di oggi otto anni fa, durante il Concistoro che aveva convocato per i decreti di canonizzazione di alcuni santi, comunicò ai cardinali la sua decisione di rinunciare al ministero di Vescovo di Roma, Successore di San Pietro. Pronunciò le sue parole in latino, di cui segue la traduzione italiana:

«Carissimi Fratelli, vi ho convocati a questo Concistoro non solo per le tre canonizzazioni, ma anche per comunicarvi una decisione di grande importanza per la vita della Chiesa. Dopo aver ripetutamente esaminato la mia coscienza davanti a Dio, sono pervenuto alla certezza che le mie forze, per l’età avanzata, non sono più adatte per esercitare in modo adeguato il ministero petrino. Sono ben consapevole che questo ministero, per la sua essenza spirituale, deve essere compiuto non solo con le opere e con le parole, ma non meno soffrendo e pregando. Tuttavia, nel mondo di oggi, soggetto a rapidi mutamenti e agitato da questioni di grande rilevanza per la vita della fede, per governare la barca di san Pietro e annunciare il Vangelo, è necessario anche il vigore sia del corpo, sia dell’animo, vigore che, negli ultimi mesi, in me è diminuito in modo tale da dover riconoscere la mia incapacità di amministrare bene il ministero a me affidato. Per questo, ben consapevole della gravità di questo atto, con piena libertà, dichiaro di rinunciare al ministero di Vescovo di Roma, Successore di San Pietro, a me affidato per mano dei Cardinali il 19 aprile 2005, in modo che, dal 28 febbraio 2013, alle ore 20,00, la sede di Roma, la sede di San Pietro, sarà vacante e dovrà essere convocato, da coloro a cui compete, il Conclave per l’elezione del nuovo Sommo Pontefice.
Carissimi Fratelli, vi ringrazio di vero cuore per tutto l’amore e il lavoro con cui avete portato con me il peso del mio ministero, e chiedo perdono per tutti i miei difetti. Ora, affidiamo la Santa Chiesa alla cura del suo Sommo Pastore, Nostro Signore Gesù Cristo, e imploriamo la sua santa Madre Maria, affinché assista con la sua bontà materna i Padri Cardinali nell’eleggere il nuovo Sommo Pontefice. Per quanto mi riguarda, anche in futuro, vorrò servire di tutto cuore, con una vita dedicata alla preghiera, la Santa Chiesa di Dio».

Come ho ricordato, quel normalissimo lunedì 11 febbraio 2013 ero ancora in servizio – ma a casa visto il giorno festivo in Vaticano – andando verso la fine del mio ultimo anno e il destino mi ha fatto servire non due, ma tre papi. Nessuno nella comunità dei giornalisti accreditati presso la Sala Stampa della Sede si aspettava che in quella mattinata, di lì a pochi minuti, sarebbe cambiata la storia della Chiesa Cattolica Romana. Una cosa non più vista dai lontanissimi tempi di Celestino V. Papa Benedetto XVI annuncia in latino ai cardinali riuniti nella Sala del Concistoro la sua rinuncia al governo della Chiesa Cattolica Romana.

Una situazione surreale. “Un fulmine a ciel sereno”, è la prima reazione del Decano del Collegio Cardinalizio, il Cardinale Angelo Sodano. L’11 febbraio è festa in Vaticano per l’anniversario dei Patti Lateranensi e, quindi, la Sala Stampa della Santa Sede era quasi deserta. Tra i pochissimi giornalisti presenti nel Palazzo dei Propilei c’era Giovanna Chirri, la vaticanista dell’ANSA che -capendo il latino – annunciò al mondo la decisione del Papa per prima, con il suo primo take d’agenzia alle ore 11.46.

Oggi vorrei ricordare quell’11 febbraio 2013 con il contributo di due vaticanisti, che quel giorno hanno vissuto. Per primo, il ricordo di Giovanna Chirri, su quanto successo al termine del Concistoro. Per secondo, la riflessione dell’amico e collega Andrea Gagliarducci, su come c’interroga quella storica decisione di Benedetto XVI.

Giovanna Chirri.

L’emozione mi paralizzava
di Giovanna Chirri
Famiglia Cristiana, 11 febbraio 2016


Benché il Concistoro a quel punto debba essere finito, il Papa resta seduto, e comincia a leggere, sempre in latino, da un foglio bianco che tiene in mano. Dice subito due cose: che non ha convocato i cardinali solo per i decreti delle canonizzazioni, ma deve dire una cosa “importante per la vita della Chiesa”, e che sta diventando vecchio: “ingravescente aetate”. A queste parole è come se una mano mi afferrasse la gola e mi si gonfiasse un palloncino dentro la testa: la “Ingravescentem aetatem” è il documento con cui Paolo VI tolse ai cardinali ultraottantenni il diritto di eleggere i papi, sono le parole per il pensionamento.

Benedetto XVI continua a parlare nel suo latino che per fortuna mi suona molto più comprensibile di quello del cardinale Amato, parla a lungo, dicendo di non aver più le forze per governare la barca di Pietro in un mondo sempre più veloce. Spiega che in coscienza ha deciso di lasciare, che i cardinali dovranno tenere un conclave per l’elezione del successore e stabilisce l’inizio della sede vacante alle 20 del 28 febbraio.

Io sento ma è come se non sentissi, continua a mancarmi il fiato e le gambe mi tremano da seduta, la sinistra non riesco proprio a tenerla ferma, neppure bloccandola con il palmo della mano. Comincio a telefonare a raffica cercando aiuto e conferme. In Vaticano, dove ovviamente tutti avevano altro a che pensare, nessuno mi risponde. Sono in preda ad una sensazione di terrore che non ho mai provato in vita mia. Intanto papa Ratzinger ha finito di parlare. Alcuni volti dei presenti sono attoniti, monsignor Guido Pozzo, vicino a lui, sembra impietrito, diversi porporati hanno lo sguardo fisso e i muscoli facciali immobili. Nel silenzio irreale il decano del collegio cardinalizio, Angelo Sodano, dice, in italiano, che “la notizia ci coglie come un fulmine a ciel sereno”.

“Hai capito eccome – mi dico per rassicurarmi – il Papa si è dimesso”. Scrivo la notizia, telefono in redazione e dico alla collega caporedattore che il Papa si è dimesso, le spiego che lo ha detto in latino e che per un Papa non si parla di dimissioni ma di rinuncia al Pontificato. Mi sembra che quando sente “latino” la collega abbia qualche attimo di incertezza, ma poi si fida di me, e cominciamo a valutare il testo della notizia. Mentre ci parliamo concitatamente, sul fisso della sala stampa chiama il portavoce padre Federico Lombardi, ha trovato la mia chiamata e gentilmente richiama. “Padre Federico – gli faccio – ma ho capito bene? Il Papa si è dimesso?”. “Hai capito bene – mi dice con tono molto sereno, operativo – va via dal 28 febbraio”. Nella concitazione attacco il telefono credo senza neppure salutare, “vai, trasmettiamo”, dico alla collega, e dopo pochi secondi il flash è sulla rete dell’Ansa, e la notizia viene rilanciata in tempi rapidissimi dalle grandi agenzie internazionali.

A questo punto crollo e scoppio in singhiozzi, e tra un singhiozzo e l’altro scrivo qualche altro dettaglio su come è venuta fuori la notizia, sulla frase di Sodano, un po’ di atmosfera circa le facce dei cardinali.Piango e scrivo, poi tiro giù un tweet per il mio account di “Vaticanista fuori moda”: “B16 si è dimesso lascia il pontificato dal 28 febbraio”, sintetizzo, preferendo l’imprecisione, visto che un Papa non si dimette, ma rinuncia al pontificato, imprecisione che in questo caso significa comunicazione immediatamente comprensibile.

Mi telefona il direttore per dirmi “brava”, e io mi scuso per aver pianto: mi hanno insegnato che un giornalista non applaude e non fischia, figuriamoci se può piangere. Il direttore è molto affettuoso e non eccepisce, io mi giustifico in cuor mio: sono stati momenti terribili, a livello umano e professionale, e Benedetto XVI è un papa che amo. La sala stampa ha cominciato a popolarsi come nelle grandi occasioni, perché padre Lombardi ha avvertito con sms che terrà un briefing. In stato di choc mi sposto dal box dell’Ansa alla vicina sala del briefing e mi siedo. Si avvicina una collega di Radiovaticana, mi piazza il microfono davanti alla faccia e mi fa: “Giovanna, tu che sei stata la prima al mondo a dare la notizia della rinuncia di Benedetto XVI, puoi farci in poche parole un primo bilancio di questo pontificato?”.

Raccolgo le idee e ne esprimo qualcuna di senso compiuto. Quando la collega mi ringrazia e si allontana, realizzo le sue parole: sono stata la prima al mondo dare la notizia della rinuncia. Quello che ho provato lo possono capire, credo, solo i vaticanisti d’agenzia: siamo vissuti nel terrore di bucare “la” notizia, che per noi è la morte del Papa, terrore che non si era mai spinto a immaginare il primo papa dimissionario da quasi sei secoli. Credo di aver capito prima con la pancia che con la testa, e certo la pancia mi ha aiutato: la sensazione di una mano che ti afferra la gola era identica a quella che avevo provato, giovane vaticanista, svegliandomi nel cuore della notte con il terrore di aver bucato la morte del Papa, o di non aver pronti i coccodrilli (articoli che raccontano la biografia di un personaggio e ne tracciano il bilancio, ndr.)  o di aver perso la chiavetta con i coccodrilli.

La domanda che (forse) Benedetto XVI avrebbe voluto
di Andrea Gagliarducci
Vatican Reporting, 11 febbraio 2021


È vero che essere giornalisti ci costringe a guardare al qui ed ora, e che dunque tutto assume un respiro diverso. Otto anni fa, mentre Benedetto XVI leggeva la sua famosa declaratio con cui annunciava che di lì a poco avrebbe rinunciato al pontificato, eravamo tutti consapevoli che ci si trovava di fronte a un fatto storico, epocale. Ne eravamo sconvolti, perché era la Storia che bussava alla nostra porta, e lo faceva in modo inaspettato ma sommesso, come sorprendete e umile era il Papa che quella Storia la stava facendo, proprio in quel momento. Ma il limite del giornalista è proprio quello: guardare la storia mentre si compie, non riconoscere la storia quando si è compiuta.

Così è successo per Benedetto XVI, un Papa moderno e tradizionale allo stesso tempo, un albero con le radici ben piantate nella storia e nella tradizione della Chiesa e con le fronde così alte che in pochi potevano guardarle, figuriamoci avventurarsi a quell’altezza. E così abbiamo lasciato indietro un intero magistero che è rimasto nascosto non solo dal luccicare del presente, che abbaglia e non permette di vedere oltre, ma anche dalla cecità dell’oggi, che ci ha portato a cercare rivoluzioni, a magnificare cambiamenti, e decidere, per il gusto della notizia o dell’iperbole, che la Chiesa era qui ed ora, e che il pontificato che arrivava sarebbe dovuto giocoforza essere diverso.

E lo è, diverso, perché diverso è il Papa, diverse le priorità, diverse le prospettive, diverso il modo di vivere. Ma oggi, mentre Benedetto XVI ha trascorso più anni da Papa emerito che da Papa, viene logico pensare se molti degli entusiasmi che ci sono stati con il nuovo pontificato fossero giustificati o meno. Perché c’è un intero magistero nascosto che magari abbiamo raccontato, ma che poi abbiamo dimenticato. O che abbiamo raccontato con categorie ideologiche e politiche, ma con le categorie di Benedetto XVI.

Categorie che erano diverse, più cattoliche direi: la fede (e infatti la prima eredità, la più immediata, di Benedetto XVI è l’Anno della Fede); la famiglia (perché Benedetto XVI sentiva profondamente i legami famigliari); la gioia (perché, al di là di ogni amarezza, per Benedetto XVI vivere il Vangelo non poteva che portare gioia); la Verità (come qualcosa da vivere, non da cercare, perché per Benedetto XVI la verità ti arriva, e non può essere altrimenti venendo da Dio).

 Se cominciamo a leggere tutto attraverso lenti non pregiudiziali, non ideologiche, ci troviamo di fronte ad un’altra verità. E cadono molti castelli di carta che abbiamo costruito.

Va ripercorso, questo magistero nascosto, per comprendere. Il 9 novembre 2006, Benedetto XVI incontra i vescovi svizzeri in visita ad limina. E dice loro: “Non dovremmo permettere che la nostra fede sia resa vana dalle troppe discussioni su molteplici particolari meno importanti, ma aver invece sempre sotto gli occhi in primo luogo la sua grandezza”.

Il Papa teologo, il Papa che aveva dedicato tutta la sua vita allo studio, era in fondo prima di tutto un uomo di fede. Sì, belle le discussioni accademiche, ma queste non devono mettere da parte la fede. Si parla di teologia perché si parla di Dio. Ogni sovrastruttura è vana.

Il 24 aprile 2005, nella Messa di inizio del Ministero Petrino, Benedetto XVI ricorda che “una delle caratteristiche fondamentali del pastore deve essere quella di amare gli uomini che gli sono stati affidati, così come ama Cristo, al cui servizio si trova”. E aggiunge: “Amare significa: dare alle pecore il vero bene, il nutrimento della verità di Dio, della parola di Dio, il nutrimento della presenza, che egli ci dona nel Santissimo Sacramento”.

Sono parole che dimostrano quanto, alla fine, Benedetto XVI sia rimasto il confessore – viceparroco che ascoltava la gente comune parlare dei loro peccati, e che cercava di dare loro una strada. Un “pastore con l’odore delle pecore”, si direbbe oggi, che chiedeva a tutti di essere allo stesso modo. Anche questo, un aspetto dimenticato.

Il 25 settembre 2011, Benedetto XVI incontra a Friburgo i cattolici impegnati nella Chiesa e nella società. E ci sono tre passaggi fondamentali per comprendere come Benedetto XVI guarda alla storia della Chiesa, e ai suoi problemi profondi.

“Nello sviluppo storico della Chiesa – dice il Papa emerito –  si manifesta anche una tendenza contraria: quella cioè di una Chiesa soddisfatta di se stessa, che si accomoda in questo mondo, è autosufficiente e si adatta ai criteri del mondo”. Ancora: “Non di rado dà così all’organizzazione e all’istituzionalizzazione un’importanza maggiore che non alla sua chiamata all’essere aperta verso Dio e ad un aprire il mondo verso il prossimo”. E infine: “Liberata dai fardelli e dai privilegi materiali e politici, la Chiesa può dedicarsi meglio e in modo veramente cristiano al mondo intero, può essere veramente aperta al mondo”.

Perché in fondo, “non si tratta qui di trovare una nuova tattica per rilanciare la Chiesa. Si tratta piuttosto di deporre tutto ciò che è soltanto tattica e di cercare la piena sincerità, che non trascura né reprime alcunché della verità del nostro oggi, ma realizza la fede pienamente nell’oggi vivendola, appunto, totalmente nella sobrietà dell’oggi, portandola alla sua piena identità, togliendo da essa ciò che solo apparentemente è fede, ma in verità è convenzione ed abitudine”.

Cade, qui, ogni idea di un Benedetto XVI ancorato al potere, o che considera la Santa Sede come una struttura di potere. La Santa Sede, per Benedetto XVI, è uno strumento con il suo linguaggio da rispettare perché è un linguaggio che racconta una storia. Ma, come strumento, non può venire prima di tutto il resto. Ci vuole sobrietà, ci vuole demondanizzazione. Oggi si direbbe “una Chiesa povera per i poveri”, ma sarebbe riduttivo.

Di certo, a Benedetto XVI interessa solo la Verità. Tanto che il 12 settembre 2008, parlando al Colleges des Bernardins a Parigi, sottolinea “Di fatto, i cristiani della Chiesa nascente non hanno considerato il loro annuncio missionario come una propaganda, che doveva servire ad aumentare il proprio gruppo, ma come una necessità intrinseca che derivava dalla natura della loro fede: il Dio nel quale credevano era il Dio di tutti”.

Ed è un Dio misericordioso, come spiega, prima del conclave che lo elegge, nella Missa Pro Eligendo Romani Pontifice del 18 aprile 2005: Gesù Cristo è la misericordia divina in persona: incontrare Cristo significa incontrare la misericordia di Dio. Il mandato di Cristo è divenuto mandato nostro attraverso l’unzione sacerdotale; siamo chiamati a promulgare – non solo a parole ma con la vita, e con i segni efficaci dei sacramenti, l’anno di misericordia del Signore”.

Si è detto che in quella messa c’era già il programma di governo di Benedetto XVI. Ed è vero. Ma non nel senso che si pensa. Benedetto XVI anticipava già che prima di tutto, per lui, veniva la fede in un Dio misericordioso. Non ci sarebbe stato giustizialismo, ma non ci sarebbero stati programmi di governo se non quello di fare la volontà di Dio.

A Colonia, nel 2005, per la Giornata Mondiale della GioventùBenedetto XVI dà voce all’inquietudine del mondo di fronte ad una vita senza Dio. La gente – afferma – tende ad esclamare: La vita non può essere questa. Ed è vero. E quindi, insieme con la misericordia di Dio c’è una certa nuova esplosione di religione. (…) Ma una religione fai da te non può aiutarci. Può essere confortevole, ma in tempi di crisi siamo lasciati a noi stessi”.

Ma perché il Papa emerito raccontava questo? Perché, spiegava una volta, “tutta la mia vita è sempre stata attraversata da un filo conduttore, questo: il cristianesimo dà gioia, allarga gli orizzonti. In definitiva un’esistenza vissuta sempre e soltanto ‘contro’ sarebbe insopportabile”.

Eppure, la gioia può essere incrinata. E lo è quando la Chiesa viene considerata una struttura ideologica, e come tale viene trattata dagli uomini di Chiesa, che non guardano alle radici, ma guardano ad altri criteri. Così, la sera dell’11 ottobre 2012, cinquanta anni dopo il “discorso alla luna” di Giovanni XXIII, anche Benedetto XVI si affaccia dalla finestra del suo studio nel Palazzo apostolico.

Guardando le persone arrivate in processione a ricordare quello storico discorso del Papa buono prima del Concilio, dice: “Anche oggi siamo felici, portiamo la gioia nel nostro cuore, ma direi una gioia forse più sobria, una gioia umile: in questi 50 anni abbiamo imparato e esperito che il peccato originale esiste e si traduce sempre di nuovo in peccati personali, che possono divenire strutture di peccato, visto che nel campo del Signore c’è sempre anche la zizzania, che nella rete di Pietro ci sono anche pesci cattivi”.

Sono pezzi di discorsi, estratti, che già raccontano un magistero diverso, ben lontano da quello del Papa conservatore, legato alle strutture, lontano dalle persone e complicato nel modo di parlare. Quello che probabilmente era intollerabile per il mondo è che Benedetto XVI credeva in quello che faceva. Aveva fede. Ogni sua decisione era permeata di fede. Ogni suo atto guardava prima di tutto a come questo avrebbe impattato sulla fede.

C’era sempre Dio al centro, per Benedetto XVI, e lui lo rese plasticamente visibile quando chiese di porre, durante le sue celebrazioni, il crocifisso al centro, davanti l’altare, perché lo sguardo fosse fisso su Cristo, e non sul sacerdote. Si parlò di un ritorno al tradizionalismo, ma non era altro che una mossa per ridare un senso alla Chiesa.

E così, lette in questa ottica, si può comprendere che il Magistero nascosto di Benedetto XVI racconta di una rivoluzione tranquilla che aveva come primo obiettivo quello di rimettere al centro Cristo, senza proclami. Anche in questo, c’era una fede profonda: si doveva lasciare uno spiraglio aperto, perché così Cristo avrebbe potuto passare e ci avrebbe pensato lui ad entrare nel cuore degli uomini.

Ma è un magistero nascosto che abbiamo raccontato e compreso poco. Un magistero nascosto che resta lì, sospeso, ma pronto ad essere raccolto da chiunque abbia voglia di andare a leggere senza pregiudizi i discorsi, i testi, gli atti di Benedetto XVI.

Fino a quell’atto finale, rivoluzionario e straniante della declaratio della rinuncia. E lì viene da chiedersi: ma noi giornalisti ci siamo fatti le domande giuste? Perché sta tutto lì il mestiere. Non guardare al qui ed ora. Non raccontare i fatti. Sta nel farsi le domande giuste.

Quale sarebbe stata, allora, la domanda che Benedetto XVI avrebbe voluto ci facessimo di fronte a quella declaratio? Io credo che avrebbe semplicemente voluto che ci chiedessimo se lui aveva pregato su quella decisione. Se lui la aveva davvero presa in dialogo sincero con Dio. E quindi, avrebbe voluto rivolgessimo la domanda a Cristo, più che al suo vicario. Avrebbe voluto gli chiedessimo: cosa ci vuoi dire con questo? Dove dobbiamo andare?

Parlando con Peter Seewald nella biografia Benedetto XVI. Una vita, il Papa emerito ha detto: “Io non appartengo più al vecchio mondo, ma quello nuovo in realtà non è ancora cominciato…” Ha ragione. Ma forse il nuovo mondo non è cominciato non perché non sia un mondo possibile oggi. Semplicemente perché non si è capaci di farsi le domande giuste. Non lo abbiamo fatto noi giornalisti. Forse non lo hanno fatto neanche altri.

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