Crisi e sviluppo, la ricetta della Santa Sede. In un documento del 1986

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“Per evitare il ritorno a delle situazioni di crisi con mutamenti troppo bruschi dell’ambiente internazionale, una riforma delle istituzioni finanziarie e monetarie è da promuovere”. Chi lo scrive? Il Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace. Ma non in un documento recente. Perché “Al servizio della comunità umana: un approccio etico al debito internazionale” fu divulgato il 27 dicembre 1986. Preistoria. Ma i temi del documento, le proposte che contiene, l’analisi della situazione economico/finanziaria sono attualissimi. Il che, in fondo, dice due cose. La prima, che la Chiesa quando vuole sa essere profetica. La seconda: che quando i media prima criticano le proposte della Santa Sede e poi le applaudono, a seconda della situazione, dovrebbero prima di tutto avere la memoria storica di quali sono sempre state storicamente le posizioni della Santa Sede.

 

Nel 1986 ancora non era caduto il Muro di Berlino, non c’era stato l’11 settembre, la bolla speculativa di fine anni Novanta non era nemmeno immaginabile e la crisi che stiamo vivendo oggi era qualcosa di così lontano che i futuristi pensavano addirittura in un 2012 fatto di macchine volanti e autostrade inesistenti. Ma c’era anche allora una crisi economica. E si cominciava a sollevare il problema del debito dei Paesi in via di sviluppo. Allo stesso tempo, la Santa Sede intravedeva già gli effetti di una economia che era cominciata a diventare troppo finanziaria già – e lo scrive nell’introduzione l’allora presidente del Pontificio Consiglio Giustizia e Pace Etchegaray – con gli “choc petroliferi” del 1974 e del 1979.

Il problema segnalato nel documento è quello della crescente interdipendenza. “Per essere conforme all’equità – si legge – questa interdipendenza, anziché condurre al dominio dei più forti, all’egoismo delle nazioni, alle ineguaglianze e alle ingiustizie deve far sorgere delle forme nuove ad allargate di solidarietà che rispettino l’eguale dignità di ciascun popolo. Per questo, la questione finanziaria e monetaria si impone oggi con urgenza e novità”.

A scorrere il documento, un dato salta agli occhi: nelle note è più volte citata L’istruzione su libertà cristiana e liberazione della Congregazione della Dottrina della Fede, uno dei due documenti della Cdf sulla teologia della liberazione. Quasi una “prima enciclica sociale di Joseph Ratzinger”, a leggerne alcuni dei passaggi citati. Come questo: “I gravi problemi economici, che oggi si pongono, non potranno essere risolti se non creando nuovi fronti di solidarietà: solidarietà dei poveri tra loro, solidarietà con i poveri, alla quale son chiamati i ricchi, solidarietà dei lavoratori con i  lavoratori. Le istituzioni e le organizzazioni sociali, a diversi livelli, così pure lo Stato, devono partecipare a un movimento generale di solidarietà”.

E solidarietà è una parola che nel documento risuona moltissime volte. La Santa Sede chiede al Fondo Monetario Internazionale di aiutare gli Stati membri a “superare gli squilibri delle loro bilance dei pagamenti e di porre rimedio alle loro difficoltà momentanee”; sostiene l’importanza del multilateralismo, del dare voce ad ogni componente degli organismi internazionali, sia esso ricco o povero, maggioritario o minoritario; chiede ai Paesi industrializzati di essere corresponsabili dello sviluppo degli altri Paesi, perché “è passato il tempo in cui potevano agire senza tener conto degli effetti delle loro proprie politiche sulle altre nazioni”; chiede loro anche di “rinunciare alle misure protezionistiche che potrebbero ostacolare le esportazioni dei Paesi in via di sviluppo”; la Chiesa, insomma, non è contraria al libero mercato. Ma questo deve essere inserito in un principio cardine: la corresponsabilità internazionale. Regole precise per tutti, e uno sviluppo armonioso che metta da parte gli squilibri mondiali, e che passi dal risanamento dei “comportamenti individuali e collettivi”, dalla denuncia delle ingiustizie “accompagnata ad una chiarificazione delle proprie azioni”. Il dito è puntato anche sulle multinazionali, che “dispongono di un largo potere economico, finanziario e tecnologico. Le loro strategie passano i confini e oltrepassano le nazioni. Esse debbono partecipare alle soluzioni di alleggerimento del debito dei Paesi in via di sviluppo”.

E via così, una serie di proposte che sono state più volte riprese in questi ultimi tempi. Perché l’appello della Santa Sede – “Che sia accolto prima che non sia troppo tardi!”, concludeva il documento – è stato in qualche modo disatteso. Gli squilibri – economici, finanziari, geopolitici – sono aumentati. Il Fondo Monetario Internazionale continua a concedere prestiti, ma a quale prezzo (a volte persino chiedendo riforme strutturali delle economie dei  Paesi cui concede prestiti). Lo “sviluppo etico”, basato sulla cooperazione, non c’è stato. Per ripristinare gli equilibri, la Santa Sede ha proposto di tassare le transazioni finanziarie. Una proposta che era stata ampiamente criticata nel momento in cui fu formulata. Ora che è diventato un cavallo di battaglia dei governi europei – ma verrebbe da chiedersi in quali forme – si afferma con sorpresa che la Santa Sede sarebbe a favore della cosiddetta “Tobin tax”.

Però si mette da parte l’idea di una autorità con competenze universali – portata avanti fin dal tempo di Giovanni XXIII (vedi il dossier di korazym.org) – così come le proposte di riforma dell’ONU. È come se si volesse dipingere una Santa Sede non al passo con i tempi. Ma la realtà dei fatti non è questa, e lo dimostra il documento del 1986 qui presentato. La Chiesa sa essere profetica. Ma il rischio che questa profezia la perda c’è. E va a tutto favore di quelli che vorrebbero che la Chiesa non parli pubblicamente, non faccia proposte etiche, non si mischi con le cose del mondo; di quelli, insomma, che vorrebbe una Chiesa rinchiusa nelle sacrestie e dei cristiani che non vivano la loro fede nella vita, ma solo nella preghiera. E la Chiesa? Vuole rinchiudersi nelle sacrestie o vuole comunicare la sua profezia?

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