Il popolo cristiano armeno dell’Artsakh combatte per la sopravvivenza, animato dalla fede in Cristo: “Dobbiamo vincere con amore e credere”

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Sull’aggressione armata dell’Azerbajgian musulmano contro l’Artsakh cristiano armeno abbiamo richiamato l’attenzione il 28 settembre 2020, come primi, immediatamente dopo l’inizio dell’offensiva azzera-turca-jihadista islamica di domenica 27 settembre. E abbiamo anche spiegato subito la retroscena, con scopi e obiettivi dell’ennesima aggressione azera, attuata con il sostegno militare turco e di mercenari salafiti-jihadisti, schierati dalla Turchia per combattere nell’Artsakh, che erano stati precedentemente armati e addestrati dalla CIA e/o dal Pentagon per portare il caos in Siria. Una guerra imposta a tutti gli effetti dalla Turchia per proseguire il “Medz Yeghern” (in lingua armena, il “Grande Crimine”), ovvero il genocidio armeno iniziato con le deportazioni e l’eliminazione di circa 1,5 milioni di Armeni cristiani perpetrate dal governo dei “Giovani Turchi” dell’Impero ottomano tra il 1915 e il 1916.

Civili armeni cristiani in marcia forzata verso il campo di prigionia di Mezireh, sorvegliati da soldati turchi armati. Kharpert, Impero Ottomano, aprile 1915.
Saremo costretto di osservare il ripetersi della storia nella totale indifferenza?

Il 96% della popolazione della Repubblica dell’Azerbajgian è musulmana (per l’85% sciita e il 15% sunnita). La lingua ufficiale è l’azero, appartenente alla famiglia delle lingue turche. Dal punto di vista etno-geografico l’Azerbaigian rappresenta l’anello di congiunzione tra la Turchia nell’Asia occidentale e i Paesi del Turkestan nell’Asia Centrale.

Oggi, dopo la terza tregua infranta dalle Forze armate di aggressione dell’Azerbaijan, condividiamo l’articolo di testimonianza a firma di Benedetta Frigerio per La Nuova Bussola Quotidiano, che ha incontrato l’Armenia cristiano nel Nagorno-Karabakh, la terra della Repubblica dell’Artsakh, che combatte per difendersi dall’attacco musulmano azzero-turco-jihadista: «Le preghiere del soldato 23enne che si arruola e viene ferito per difendere la patria, quello che si sposa in mezzo alle macerie, i preti che partono per stare coi combattenti. E il giornalista russo ferito nel bombardamento della cattedrale che descrive il miracolo della sua salvezza nella bambina che lo ha medicato: “Ero ateo ma ora credo in Dio”. Testimonianze di un popolo che combatte animato dalla fede in Cristo».

La bandiera della Repubblica dell’Artsakh.

Presidente Arayik Harutyunyan: non è l’Azerbaigian, è la Turchia che combatte contro l’Artsakh. Circa 4.000 jihadisti della Syria combattendo con i turchi dalla parte azera – 28 settembre 2020
L’Azerbaigian oggi ha lanciato un attacco su larga scala nell’Artsakh e ha ripreso i bombardamenti di Stepanakert e Shushi – 6 ottobre 2020
La guerra dell’Azerbaigian contro l’Artsakh, con la Turchia e i mercenari jihadista islamici per proseguire il genocidio degli Armeni cristiani – 8 ottobre 2020
Stepanakert è di nuovo bombardato dall’Arzaibaigian, riferisce l’Infocenter Unificato Armeno – 11 ottobre 2020

Così un popolo lotta con fede mentre c’è chi si converte sotto le bombe
di Benedetta Frigerio
La Nuova Bussola Quotidiana, 28 ottobre 2020

Sua Santità Karekin II, patriarca supremo dell’Armenia, dopo la terza tregua infranta dell’Azerbaijan, ha lanciato un appello (QUI) parlando della “guerra che ci è stata imposta oggi dall’Azerbaijan”, del “suo atteggiamento negativo nei confronti di qualsiasi iniziativa volta a stabilire un cessate il fuoco umanitario” con “i suoi ostacoli ai negoziati attraverso i suoi ultimatum, il bombardamento delle località e della popolazione di Artsakh, le numerose distruzioni e perdite di vite umane, la sua volontà di risolvere la questione dell’Artsakh con le armi, come dimostra la storia dell’Artsakh negli ultimi decenni”. Il patriarca ha poi indicato il “sacrificio dei nostri figli… i nostri valorosi soldati” che “continuano coraggiosamente a resistere, respingendo costantemente il nemico con l’assoluta convinzione che la vittoria è la garanzia della sicurezza e della stabilità della Repubblica dell’Artsakh”.
Ma chi sono questi giovani che partono anche appena 18enni, che sorridono nelle foto che li ritraggono sul fronte, che si dipingono le croci sugli elmetti e le divise e che chiedono ai sacerdoti di pregare con loro prima di ogni azione di guerra? “Vahe e Edgar sono nati insieme e sono morti insieme”, racconta la madre di due gemelli armeni che hanno lasciato i propri interessi per difendere la patria. “Studiavano musica e amavano tantissimo suonare… Dove c’erano loro, c’era la musica e gioia”. Nel video in cui la madre li ricorda qualche giorno dopo la loro morte sul confine armeno si racconta che “sono partiti molto felici per la guerra” portando con sé “gli strumenti musicali, quando c’erano 10 minuti di pausa suonavano per tutti i ragazzi (dell’esercito, ndr)”.
Questa la stoffa dei soldati armeni che abbiamo visto cantare l’amore alla loro terra e alla fede e che abbiamo ammirato testimoniare un senso per cui dare la vita. Per cui anche Vahe e Edgar quando riuscivano a chiamare la famiglia raccomandavano di non “preoccuparvi per noi, piuttosto diteci come state voi”, mentre alcuni amici hanno dichiarato “che sono eroi della patria”.
Ma c’è un’altra intervista che dimostra la pasta di questi giovani: Hamlet Badalyan, 23enne e futuro regista, volontario dal primo giorno in cui gli azeri hanno attaccato gli armeni (il 27 settembre), spiega alla Nuova Bussola Quotidiana che “con gli amici ci siamo iscritti come volontari e siamo subito partiti in prima linea. Eravamo presso la comunità di Mataghis, un villaggio del Nerkin Horatagh… lì abbiamo subìto bombardamenti di artiglieria e sono stato ferito. È successo il primo ottobre: stavamo andando verso la prima linea, eravamo appena arrivati. Stavamo per sistemare le armi per sorvegliare il posto di guardia quando sono iniziati i bombardamenti di artiglieria”. Badalyan durante il primo bombardamento ha fatto da scudo ad un amico, “per difenderlo, poi, durante il secondo bombardamento, un frammento del proiettile ha colpito il mio tallone, poi altri frammenti hanno ferito la mia schiena, gli organi interni, il polmone, l’intestino”.
L’uomo è stato trasferito all’ospedale dove ha subìto quattro interventi chirurgici, ma non è pentito di essersi arruolato: “Sono partito per la guerra come volontario in piena coscienza. L’unica cosa che mi dispiace è di essermi ferito”, di aver “perso il mio migliore amico, un amico d’infanzia”, perciò “dopo la guarigione partirò subito per la guerra, per difendere la mia patria e continuare la lotta incompiuta del mio amico…non ho nessuna paura”.
Sentendo parlare questo soldato che in attesa di guarire prega Dio per i suoi compagni, si capisce da dove venga tanto coraggio: Karekin II nel suo appello lo ha spiegato parlando degli antenati armeni che “rifiutarono coraggiosamente la paura e la disperazione e vinsero la morte con la Risurrezione di Cristo e con la loro fede. Questo è il modo in cui hanno assicurato gloriose vittorie per la nostra patria. In verità, ‘I coraggiosi generano sempre coraggio!’”. Luise Ghahramayan, titolare dell’Armen Tour, spiega alla Nuova Bussola Quotidiana che “Sicuramente il fatto che la chiesa sia sul fronte con i soldati fa sentire questi giovani accompagnati. Alcuni di loro vengono anche battezzati (QUI) in battaglia dai sacerdoti, sono quelli nati durante il regime sovietico che impose l’ateismo di Stato. Tanti sacerdoti hanno lasciato le loro case e chiese per assistere quanti difendono la nostra terra”.
Ma a dire della forza morale degli armeni è stato anche un giornalista di guerra russo, gravemente ferito durante il bombardamento (doppio) della cattedrale di Ghazanchetsots (san Salvatore) nella cittadina di Shushi. Intervistato mentre era in convalescenza, Levon Arzanov (nella foto in basso a destra) ha spiegato che quel giorno gli azeri hanno colpito “un ospedale, un centro culturale locale e una chiesa…I luoghi principali per infliggere un colpo morale e psicologico alla popolazione. Questo è l’obiettivo. Vale a dire, più o meno: cultura, salute e fede”. Non a caso “nel ShushI, oltre alla cattedrale, ci sono altre due moschee restaurate… nessuno le ha distrutte”.
Arzanov insieme ad altri due giornalisti era appunto nella cattedrale quando è stata colpita la seconda volta dopo venti minuti dal primo bombardamento. Era senza elmetto perché “anche i soldati lo tolgono in Chiesa”. Gravemente ferito, il giornalista è riuscito a trascinarsi fuori dalla Chiesa: “C’era un anziano, gli ho chiesto di venire. Sette persone sono venute fuori dal rifugio insieme a lui…hanno iniziato ad aiutarci…e siamo andati in ospedale…Sono stato portato in un ospedale che è stato bombardato”, perciò “non c’erano i vetri…ma finestre rotte e alcune uniformi insanguinate. E non c’era nessuno! L’uomo che mi accompagnava gridava per i corridoi dottore, dottore. E poi da qualche parte nel seminterrato ci hanno risposto. Siamo andati giù….Siamo stati messi su questi materassi e sono stato medicato per la prima volta lì. E dato che eravamo tutti coperti di fuliggine abbiamo cominciato a lavarci le mani…questa procedura è stata eseguita da una bambina di circa otto anni. Ci lavava con l’acqua e diceva qualcosa in armeno…con fermezza e fiducia…in quel momento ho quasi pianto per il fatto che una bambina piccola era seduta in questo seminterrato ad aiutare i feriti”.
Infine Arzanov ha sottolineato la “caratteristica assolutamente sorprendente di questa guerra: non esiste saccheggio domestico. Ho visto molte guerre. E ho visto spesso cosa succedeva ai negozi, colpiti da sassi…saccheggiati dal cibo”. Ma “le persone nel Karabakh hanno un approccio diverso. Avevamo una Lexus quando siamo arrivati presso la chiesa e non abbiamo nemmeno chiuso i finestrini. Pensavamo di rimanere lì per cinque minuti. Invece la macchina è rimasta lì per tre giorni con i finestrini aperti, non mancava nulla”. Anche se “i negozi con le finestre rotte sono tutti pieni, a nessuno viene in mente di prendere qualcosa”.
La sopravvivenza in una Chiesa bombardata, gli anziani che lo hanno soccorso, una bimba che lo medicava, un popolo che non cede all’immoralità disperata nemmeno durante la guerra e la fame hanno fatto dire al giornalista che “onestamente, io sono un ateo… non credevo in Dio prima. Prima. Fino al giorno prima in cui Dio in Chiesa ci ha riparato con il suo scudo celeste…Dopo tutto questo è difficile non credere…il tetto della chiesa era bucato”.
In quella stessa chiesa distrutta, lo scorso 24 ottobre un soldato ha deciso di sposare la sua fidanzata. Non la vedeva da un mese perché era in guerra. Il sacerdote ha spiegato ai due giovani che il matrimonio è il segno della vittoria, nel senso che la vita continua. Sullo sfondo la voce della giornalista che presente alle nozze: “Dobbiamo vincere con amore e credere”.

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