La diocesi di Napoli invita a visitare gli infermi

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Sul solco delle sette opere di misericordia continua il cammino pastorale della Chiesa di Napoli, giunta alla meditazione della quinta opera: ‘visitare gli infermi’, a cui il card. Crescenzio Sepe, ha dedicato il consueto incontro con il clero e gli operatori pastorali nel centro di spiritualità di Pacognano a Vico Equense, dei salesiani.

Un impegno che si concretizza nello stretto rapporto tra i cristiani e gli ammalati, in cui Gesù si è identificato sul legno della croce. Un invito quindi ai parroci e ai parrocchiani di essere sempre più presenti nelle vite degli ammalati che vivono in ogni luogo della città e dei paesi vicini. Con la lettera pastorale il card. Sepe invita la diocesi ad essere ‘Chiesa in uscita’:

“La nostra realtà ecclesiale ci offre l’opportunità di costruire rapporti diretti con tutti i cittadini, cristiani e non cristiani, partecipi od estranei alla vita della comunità… A tale scopo è necessario riscoprire la dimensione evangelizzatrice anzitutto nell’ordinarietà dell’azione pastorale: nell’annuncio quotidiano del Vangelo, nei gesti sacramentali, nella spiritualità, nell’operosità caritativa”.

E nella lettera il cardinale ha sottolineato l’impegno comunicativo con i giovani: “Il prossimo sinodo per i giovani potrà costituire un’opportunità preziosa per riflettere sui loro problemi, ma anche per lasciarci coinvolgere dalla riserva di speranza che essi sono capaci di mettere in campo. Viviamo in una cultura che idolatra la giovinezza, ma impedisce a tanti giovani di essere protagonisti del loro futuro”.

Invitando i cittadini ad uscire dal proprio ‘guscio’ l’arcivescovo di Napoli disegna la Chiesa della carità: “Il dono incommensurabile che la Chiesa è chiamata ad offrire è l’incontro con Gesù suo Signore. E’ la proposta di condividere con tutti la bellezza trasformante del suo amore. Nessuno può sentirsi esonerato da tale impegno verso chi non ha ancora vissuto l’esperienza della fede, o chi nel tempo ne ha smarrito il fascino”.

Ed ecco giungere alla Chiesa partenopea l’invito ad andare nella periferia: “Periferia è la realtà che non consente ai propri abitanti di soddisfare neppure i bisogni primari: c’è gente che ha fame e sete, che non ha un lavoro, che non sa come vestirsi, che non si può permettere un tetto sulla testa.

Periferia è là dove gli immigrati vengono irrisi, rifiutati; dove non c’è spazio per l’integrazione del diverso, di chi ha la pelle di un altro colore, una sensibilità o una visione del mondo differente da quella prevalente. Periferie culturali sono quelle zone dove manca una cerniera tra il sapere alto delle università e la scarsa istruzione dei più deboli; periferie sono tutti i luoghi della sofferenza, dove le fragilità del corpo e dello spirito danno la misura della precarietà di ogni essere umano”.

Quindi per mettersi alla sequela di Gesù occorre andare alla ‘scuola’ dei sofferenti, citando un episodio accaduto durante la somministrazione delle cresime: “Quanta luce ci viene nell’accostarci ai sofferenti! Capita spesso che la loro frequentazione ci faccia vedere il mondo in modo diverso.

Alla loro scuola apprendiamo che Dio è sempre con noi, anche se, talvolta, sembra assente, muto. La sofferenza, paradossalmente, può essere una fonte preziosa di senso. Quando essa attraversa l’esistenza, Dio non resta indifferente. E’ accanto a chi soffre e fa sua la pena del mondo. Può apparire assurda l’idea di un Dio che soffre. Ma solo a partire da essa si può pensare all’assurdità della sofferenza umana.

Tra l’Eterno ed i sofferenti si instaura un’alleanza misteriosa, quasi una segreta complicità. Nella sofferenza dell’uomo c’è la pena di Dio. Le avversità diventano allora lo spazio dell’esperienza di Dio e, insieme, il campo della solidarietà umana. Quando lo sguardo si posa sul dolore degli altri, l’orizzonte si allarga enormemente”.

Quindi il malato è il segno della presenza di Cristo: “Gli occhi di Gesù si poggiano, prima di ogni altra cosa, sul nostro dolore. Egli non è attratto dai meriti, né condizionato dalle nostre colpe. E’ interessato, in primo luogo, ai nostri disagi, alle nostre sofferenze. E’ venuto, principalmente, ad asciugare le nostre lacrime… Si prendeva cura degli infermi, personalmente, ponendo ognuno in condizione di reinserirsi in pieno nella comunità umana.

In fondo, era questo il Regno che il Padre sognava: offrire a tutti la capacità di rimettersi in piedi, la voglia di camminare con fiducia verso il proprio futuro. Gesù non distribuiva ‘croci’ sul proprio cammino; anzi, quando le trovava, le rimuoveva. La mano di Gesù, con una carezza, curava, guariva, apriva alla vita. Per questo faceva delle guarigioni un vero e proprio vangelo, una profezia del Regno”.

Ed ha invitato a conoscere i numerosi santi della carità che il meridione ha dato all’Italia: “Farsi incontro all’infermo comporta la necessità di superare le proprie paure, di accettare il senso di radicale impotenza e, soprattutto, esige di smettere gli abiti da protagonista di buone opere. Bisogna stare accanto all’altro, disarmati, senza presunzioni e senza impacci.

L’incontro con chi soffre, se è autentico, è una preziosa scuola di vita: pone l’una di fronte all’altra due fragilità, rendendole entrambe consapevoli e umanizzandole. La visita impone sempre accortezza e rispetto: bisogna essere autentici, evitando ogni esibizionismo caritativo”.

Quindi ha sottolineato il ‘ruolo’ della comunità ecclesiale: “Solo una Chiesa che ascolta è capace di dare risposte. Essa sarà la casa di tutti, dove non prevale l’efficientismo dei ruoli burocratici, ma l’apertura ai deboli, ai malati, agli ultimi; sarà un’istituzione che non emargina le fragilità, ma fa spazio alla presenza ‘inutile’ del malato, del disabile, di chi non ha voce; diventerà una comunità, dove le membra più deboli, per usare l’immagine di san Paolo, sono ritenute le più necessarie.

In effetti, paradossalmente, è il malato a guarire l’umanità: si tratta di un mutamento di prospettiva che può cambiare anche il cuore. La presenza del malato induce la comunità cristiana in un percorso di conversione, in un cammino autenticamente cristiano che la pone in prossimità del malato, la abilita a creare linguaggi di amori nuovi. Proprio l’umanità più sofferente può risvegliare la nostra assopita responsabilità, la nostra appannata umanità”.

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