Cristiani di Terra Santa: una vita resa difficile dalla comunità internazionale

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«E’ stata la comunità internazionale a creare alla questione israelo-palestinese. Ed ora le potenze mondiali devono intervenire, altrimenti le popolazioni locali non saranno mai capaci di risolvere la situazione». Monsignor Paul Nabil el-Sayah, arcivescovo maronita di Haifa e Terra Santa, parla con Aiuto alla Chiesa che Soffre del conflitto israelo-palestinese e dei cristiani in Medio Oriente, che alla Chiesa universale chiedono sostegno e vicinanza. Attraverso i pellegrinaggi – che rafforzano la comunità finanziariamente e spiritualmente – una maggiore attenzione – «come fortunatamente stanno facendo gli Stati Uniti e Europa» – e progetti specifici, «come quelli di ACS: non avrei mai potuto neanche sognare un palazzo per la pastorale se avessi potuto contare solo sui miei fedeli». Nel 2010 la Fondazione pontificia ha finanziato la costruzione di un centro per la pastorale sul monte Carmelo ad Isfya, a circa dieci kilometri da Haifa. I cristiani che vivono in Terra Santa hanno sì bisogno di aiuto, ma è grande il loro contributo alla Chiesa universale. «Noi siamo i custodi dei luoghi sacri in cui è nato il Cristianesimo – spiega il presule – e li preserviamo così che tutti possano provare l’esperienza unica di calpestare le pietre di Gerusalemme e passeggiare sulle colline di Galilea, dove Gesù stesso ha camminato».

La Chiesa maronita ha da poco festeggiato i 1600 anni ed è l’unica Chiesa orientale a non essersi mai separata da Roma. La comunità in Terra Santa – che conta dodicimila su un totale di cinquantamila cristiani – è stata decimata dalle molte emigrazioni dei fedeli. «Ma noi siamo qui da 600 anni prima che arrivassero i musulmani, e continueremo a viverci» assicura monsignor Sayah. Non è facile la vita dei cristiani in Israele e Palestina. «Per gli ebrei noi siamo arabi, e quindi potenziali terroristi, e per i musulmani siamo cristiani, e quindi infedeli». Tuttavia le difficoltà non fermano l’opera di mediazione e riconciliazione tra i due popoli che si aggiunge agli importanti contributi cristiani all’istruzione, al sistema sanitario e ai servizi sociali. «Il nostro apporto – nota il presule – supera ampiamente la nostra piccola percentuale dell’1,5% sulla popolazione». La convivenza pacifica è anche alla base del progetto «Incontro» che l’arcivescovo di Haifa porta avanti ormai da due anni.

Un gruppo di ragazzi – quattro cristiani, quattro ebrei e quattro musulmani – s’incontrano periodicamente per conoscersi e confrontarsi su temi riguardanti la religione e la loro società. «Ho molta fiducia nei giovani, perché sono pronti a cambiare e non sono infarciti di pregiudizi – dice ad ACS il presule – Il nostro percorso sta dando molti frutti». Per l’arcivescovo maronita il conflitto israelo-palestinese non è interamente legato ad una matrice religiosa. «Ovviamente ci sono estremisti da ambo le parti – spiega – ma credo che alla base di tutto vi sia una questione politica: due popoli che cercano di dividere la stessa terra e mirano entrambi al potere». Gli arabi cristiani si trovano però a dover convivere con due teocrazie. «Nell’Islam e nell’Ebraismo la politica non è separata.

Noi vorremmo meno enfasi sulla religione e maggiore rispetto per ogni credo». In futuro monsignor Sayah auspica una maggior separazione tra stato e religione e nutre diverse perplessità sulla legge che impone ai nuovi cittadini di giurare fedeltà allo stato «democratico ed ebraico» di Israele. «Il 20% della popolazione è arabo – afferma – e ci sono i milioni di profughi palestinesi a cui le leggi internazionali garantiscono il diritto di tornare. Dicendo che Israele è terra di ebrei si lascia intendere che chiunque altro non è ben accetto».

 

Fonte ACS

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