Etiopia: la strage dei cristiani durante il fascismo

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“Se incontri un serpente puoi pure lasciarlo passare, se incontri un Amhara schiacciagli la testa”: è un suggerimento del viceré d’Etiopia, Rodolfo Graziani, al colonnello Giuseppe Malta, inviato nell’area di Jimma. Il proverbio arabo è stato usato da Graziani per ingraziarsi le popolazioni islamiche di etnia Oromo per ‘liquidare senz’altro tutti gli Amhara’, cioè cristiani che ‘le colonne incontrino sulla strada perché l’opera di persuasione su di essi sarà sempre sterile’.

E’ il novembre del 1936. Mancano tre mesi alle bombe di due guerriglieri eritrei che il 19 febbraio successivo, ad Addis Abeba, gli lasceranno nel corpo 350 schegge e lo spingeranno a scatenare per rappresaglia una carneficina con migliaia di morti. Ma tra gli inquieti cristiani etiopi e gli islamici il maresciallo ha già chiaro da che parte stare. L’episodio è ricordato dallo storico Alberto Elli che, dopo aver firmato una Storia della Chiesa copta in tre volumi, ha presentato a Roma la ‘Storia della Chiesa ortodossa Tawahedo d’Etiopia’ (Edizioni Terra Santa).

Un lavoro monumentale dalle origini fino al ritorno di Hailé Selassié, che ordinò agli etiopi di non vendicarsi sugli italiani per le atrocità subite: “In modo particolare vi raccomando di rispettare la vita dei bambini, delle donne e dei vecchi. Non saccheggiate i beni altrui, anche se appartengono al nemico. Non bruciate case…”.

Infatti durante la guerra 1935-36, ha spiegato lo storico, “la politica italiana aveva favorito i musulmani, che videro nell’invasione fascista un’occasione di riscatto dal giogo degli Amhara cristiani. Interi battaglioni di musulmani Oromo diedero un notevole contributo alla vittoria italiana…

Ed anche se le nostre autorità insistevano nel dire che tutte le religioni erano trattate in maniera imparziale, in effetti questa pretesa eguaglianza giuridica delle varie fedi rimase sulla carta e le diverse comunità religiose furono trattate in base all’appoggio che avevano offerto o negato alla conquista italiana”.

Nel volume lo storico racconta molti episodi, che confermano i ‘favoritismi’ del vicerè per i mussulmani: “L’11 ottobre 1936 Graziani incontrò una folta adunanza di musulmani, comunicando che presto si sarebbe dato inizio alla costruzione di una nuova moschea e di scuole e centri culturali islamici, non solo in Addis Abeba, ma anche in tutti i territori dell’Impero con forte densità di popolazione musulmana…

Nonostante il suo triste passato in Libia, dove si era guadagnato la reputazione di comandante militare duro e crudele, Graziani giunse a dichiarare di aver imparato a conoscere e apprezzare la ‘razza’ araba durante i quattordici anni trascorsi in Libia e destinò Harar, città sacra dei musulmani d’Etiopia, a divenire un grande centro per lo sviluppo degli studi sulla civiltà islamica e sul Corano”.

Un altro episodio riguarda una raccomandazione emanata dopo una visita ad Hararge, a est di Addis Abeba: “Perseguire sempre più decisamente politica musulmana mettendo gradatamente fuori causa et nelle condizioni di andarsene spontaneamente tutti elementi abissini ancora rimasti nel territorio”.

La conferma della tesi storica arriva da una lettera al generale Pietro Maletti dei primi d’aprile 1937, dove, liquidati i cristiani copti come ‘infidi’, il viceré assicura: “Altra cosa sono i mussulmani che debbono considerarsi di sicura fede in tutto Impero… I mussulmani in tutto Impero debbono rappresentare nostra riserva di fronte qualsiasi movimento insurrezionale dello elemento copto. (…) Occorre perciò fin da ora curare l’elemento mussulmano et poi, se proprio occorra, impiegarlo anche in situazione attuale costituendo bande et battaglioni di sicuro rendimento”.

Ed inizia la ‘mattanza’ di tutti i preti e tutti i diaconi e perfino diversi ragazzi seminaristi di 10/11 anni del convento di Debra Libanos, uno dei cuori pulsanti della Chiesa ortodossa: “L’Italia fascista intende assicurare alle popolazioni musulmane della Libia e dell’Etiopia la pace, la giustizia, il benessere, il rispetto alle leggi del Profeta e vuole inoltre dimostrare la sua simpatia all’Islam e ai Musulmani del mondo intero”.

L’Etiopia, uno degli Stati più antichi al mondo, è l’unico dell’Africa subsahariana senza una significativa storia coloniale e nel quale la religione cristiana sia riuscita a conservarsi indipendente dal dominio musulmano. La sua Chiesa è la prima che si instaura e diffonde il messaggio di Cristo in una terra dell’Africa nera. Non solo, essa non è il risultato dell’opera missionaria europea, ma nasce e fiorisce ben prima di tante cristianità ‘occidentali’.

Pur essendo una delle maggiori tra le Chiese ortodosse orientali, la Chiesa etiopica è ben poco conosciuta in Italia. Quest’opera monumentale in 2 tomi, frutto di anni di ricerca e di studio, vuole essere pertanto un contributo a far conoscere a un pubblico più vasto la ricchezza della storia e della spiritualità della Chiesa etiopica, dalle sue origini nella prima metà del IV secolo fino ai primi anni di questo XXI secolo.

E non si tratta soltanto della storia della Chiesa, ma anche della storia dell’Etiopia, come Stato e come civiltà, visto il legame inscindibile che, fino a pochi decenni fa, ha sempre unito Chiesa e Stato in quel remoto angolo del Corno d’Africa, sì da fare del cristianesimo l’anima del popolo e il motore della sua storia.

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