Sudan: armi chimiche contro i civili nel Darfur

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Quasi 200.000 persone sono state costrette a lasciare il Sud Sudan dal luglio scorso a causa della ripresa degli scontri nel Paese, portando così a oltre 1.000.000 il numero complessivo dei profughi, ai quali si aggiungono anche 1.600.000 di sfollati interni, secondo quanto ha riferito l’Unhcr, l’agenzia dell’Onu per i rifugiati, denunciando gli effetti sulla popolazione della tremenda guerra civile scoppiata nel dicembre del 2013 tra il presidente, Salva Kiir, e il suo ex vice, Riek Machar.

Ed in un rapporto Amnesty International ha denunciato di aver raccolto prove credibili sull’uso, da parte delle forze sudanesi, di armi chimiche contro i civili (compresi bambini molto piccoli) in una delle zone più isolate del Darfur. Attraverso riprese satellitari, oltre 200 approfondite interviste con sopravvissuti e l’analisi da parte di esperti di decine di immagini agghiaccianti di bambini e neonati con terribili ferite, Amnesty International ha potuto concludere che da gennaio al 9 settembre 2016 sono stati condotti almeno 30 probabili attacchi con armi chimiche nella zona del Jebel Marra, come ha affermato Tirana Hassan, direttrice della Ricerca sulle crisi di Amnesty International:

“E’ difficile trovare le parole per descrivere la dimensione e la brutalità di questi attacchi. Le immagini e i video che abbiamo esaminato nel corso delle nostre ricerche sono sconvolgenti: un bambino che piange dal dolore prima di morire; altri pieni di ferite e vesciche; altri ancora che non riescono a respirare o che vomitano sangue.

Non c’è modo di ingigantire la crudeltà dell’effetto che producono gli agenti chimici quando entrano in contatto col corpo umano: sostanze vietate da decenni proprio perché la sofferenza che procurano non può mai essere giustificata. Il fatto che il governo sudanese le stia usando ripetutamente contro la sua popolazione non può essere in alcun modo ignorato e richiede un’azione”.

Sulla base delle testimonianze dei sopravvissuti e di coloro che si sono presi cura delle vittime, Amnesty International ha potuto concludere che dalle 200 alle 250 persone possano essere morte a causa dell’esposizione ad armi chimiche. Molte, se non la maggior parte di loro, erano bambini vittime. Centinaia di altre persone sono inizialmente sopravvissute agli attacchi ma nelle ore e nei giorni successivi hanno sviluppato gravi disturbi gastrointestinali, tra cui diarrea e vomito di sangue; la loro pelle si è riempita di vesciche, hanno cambiato colorito, sono svenute, hanno perso completamente la vista e hanno sviluppato problemi respiratori che sono descritti come la principale causa di morte. U

na donna di una ventina d’anni è stata ferita da una scheggia quando una bomba è caduta sul suo villaggio, facendo fuoriuscire una nube tossica. Sei mesi dopo, lei e il suo bambino soffrono ancora per le conseguenze dell’intossicamento. Molte delle vittime hanno dichiarato ad Amnesty International di non aver potuto accedere alle medicine e di essere state curate con sale, frutti ed erbe.

Un uomo che ha aiutato molte persone del suo villaggio e di quelli circostanti e che si prendeva cura delle vittime del conflitto nel Jebel Marra sin dal 2003, ha detto di non aver mai assistito a niente del genere: nel giro di un mese 19 delle persone che aveva curato, compresi dei bambini, sono morte. Tutte avevano sviluppato profondi cambiamenti sulla pelle: la metà delle ferite era diventata di colore verde e sull’altra metà si erano composte vesciche purulente.

Negli otto mesi successivi al lancio dell’operazione militare Amnesty International ha documentato numerosi attacchi contro i civili e le loro proprietà. I sopravvissuti e gli osservatori locali sui diritti umani hanno fornito ad Amnesty International i nomi di 367 civili, tra cui 95 bambini, uccisi dalle forze sudanesi nel Jebel Marra nei primi sei mesi dell’anno. Molte altre persone, bambini inclusi, sono morte per denutrizione, disidratazione o mancanza di cure mediche dopo gli attacchi.

Attraverso le riprese satellitari, Amnesty International ha potuto confermare che nei primi otto mesi dell’anno sono stati distrutti o danneggiati 171 villaggi, nella maggior parte dei quali non vi era presenza formale di oppositori armati al momento dell’attacco. Ed il missionario padre Daniele Moschetti, superiore provinciale dei missionari comboniani a Juba, in recenti conferenze in Italia ha lanciato l’appello per rompere il silenzio per evitare un nuovo genocidio:

“E’ necessario far uscire il conflitto del Sud Sudan dal cono d’ombra in cui è precipitato perché rischiamo un nuovo genocidio. La gente racconta episodi di violenza che non hanno eguali nemmeno nella cinquantennale guerra con il nord: bambini bruciati vivi nelle capanne, donne stuprate sistematicamente, omicidi su base etnica. Nemmeno le chiese, le missioni e le sedi delle ong, sembrano più al sicuro…

Purtroppo, durante gli ultimi due anni di guerra, i leader hanno giocato la carta dell’etnicità per coalizzare i propri gruppi, ma si tratta esclusivamente di una guerra per il potere. Il Sud Sudan e le sue riserve fanno gola a tanti, dentro e fuori dal Paese”.

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