Il papa prega incessantemente per la pace in Siria

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Di nuovo papa Francesco ha lanciato un appello per la pace in terra siriana per garantire un futuro di riconciliazione: “Con viva preoccupazione seguo la drammatica sorte delle popolazioni civili coinvolte nei violenti combattimenti nell’amata Siria e costrette ad abbandonare tutto per sfuggire agli orrori della guerra.

Auspico che, con generosa solidarietà, si presti l’aiuto necessario per assicurare loro sopravvivenza e dignità, mentre faccio appello alla Comunità internazionale affinché non risparmi alcuno sforzo per portare con urgenza al tavolo del negoziato le parti in causa. Solo una soluzione politica del conflitto sarà capace di garantire un futuro di riconciliazione e di pace a quel caro e martoriato Paese, per il quale vi invito a pregare molto, anche adesso”.

Sulla lunghezza d’onda del papa si sono sintonizzate anche oltre 90 organizzazioni umanitarie e per i diritti umani, sollecitando i leader mondiali ad impegnarsi a dare vita a un nuovo piano, ambizioso, multimiliardario e in grado di apportare un cambiamento per i rifugiati siriani e per i paesi della regione che li ospitano. Infatti la crisi siriana è entrata nel suo sesto anno e la sofferenza ha raggiunto proporzioni storiche nei numeri e nella sua intensità.

Le parti in conflitto continuano a commettere crimini di guerra, come gli assedi e gli attacchi nei confronti delle popolazioni civili. All’interno della Siria 13.500.000 persone necessitano di aiuti d’emergenza. In media, ogni ora di ogni singolo giorno dall’inizio del conflitto, 50 famiglie sono state costrette a lasciare le loro abitazioni. David Milliband, presidente e direttore generale del Comitato internazionale di soccorso, ha sottolineato:

“La popolazione siriana sta subendo una guerra priva di regole e senza fine. Le sconvolgenti immagini dell’assedio di Madaya e la sempre maggiore pressione sui paesi confinanti devono spingere i leader politici ad agire. L’incessante sofferenza della popolazione siriana deve generale una richiesta globale d’azione per l’assistenza umanitaria in grado di alleviarne la sofferenza, così come un’azione politica per far cessare la guerra”.

Recentemente in un incontro a Roma, organizzato dall’Associazione Amici di Deir Mar Musa, in collaborazione con il Centro Astalli e la Fondazione Magis, ha portato la sua testimonianza padre Jihad Youssef, monaco della comunità di Deir Mar Musa, fondata da padre Paolo Dall’Oglio:

“Rimanere in Siria nonostante la guerra e i bombardamenti è stata per me la prova della fede. Sapevo cosa volesse dire in teoria, ma non l’avevo mai provato sulla mia pelle. Ho vissuto davvero cosa vuol dire avere fede o no, credere o no. Sempre si ripresentava il dubbio, davanti alla sofferenza della gente, degli amici, davanti alla distruzione delle città”.

Il monaco siro-cattolico racconta delle fasi più drammatiche del conflitto siriano, che lo hanno toccato da vicino: “Nel 2013 c’è stato l’assedio di Nebek, la città più vicina al monastero di Deir Mar Musa, a circa 17 chilometri di distanza. Noi e i nostri amici della città abbiamo passato 25 giorni che sono stati più lunghi di 25 anni, rinchiusi nei sotterranei. Le nostre città, in realtà, non sono costruite per affrontare la guerra: non abbiamo dei veri sotterranei anti-bombe. La Provvidenza ci ha lasciato l’uso del telefono nel monastero, così che potevamo ogni tanto sentire i nostri amici a Nebek”.

In questi anni, in collaborazione con il Jrc (Jesuit Refugee Center) e con la Caritas, i monaci di Deir Mar Musa hanno “fatto lavoro umanitario per tutti, cristiani e musulmani, nella zona del monastero di Mar Elian, dove padre Jacques Mourad era monaco da solo. Lì abbiamo ricevuto per tre mesi 50 famiglie musulmane con donne, bambini e vecchi, perché non avevano nulla.

Quando sono arrivati avevano perso molti cari e avevano solo i vestiti addosso. Sono stati accolti nel monastero dove i bambini giocavano e andavano a scuola. Questo lavoro è indispensabile ma anche questo non basta. Però questo lavoro ha dato frutto perché posso dire che i cristiani e i musulmani della città, quando parlano del nostro monastero e della nostra comunità, dicono ‘i nostri monaci, il nostro monastero’”.

Stessa drammatica testimonianza è stata scritta al ‘Giornale di Lugano’ da padre Ibrahim Alsabagh, che ha spiegato la permanenza dei cristiani ad Aleppo: “Siamo tribolati ma non schiacciati. Alle case danneggiate che abbiamo visitato, insieme con l’ingegnere, abbiamo distribuito subito scatole di alimentari di emergenza e abbiamo iniziato a riparare, cominciando dalle porte e le finestre.

Per chi ha avuto la casa tutta danneggiata, abbiamo aiutato con i soldi per prendere case in affitto per tre mesi, con la possibilità di rinnovare il pagamento. In tantissimi bussano alla nostra porta terrorizzati, soprattutto le famiglie con i bambini piccoli. La maggior parte di loro non ce la fa a pensare di fuggire: non hanno neanche un soldino per il trasporto. Per me, in questa situazione, non restano che l’accoglienza e l’ascolto. Dopodiché, bisogna passare subito all’azione: non si può rimandare all’indomani.

Il lavoro però è immenso e così anche le necessità”. Mentre l’associazione ‘Giornalisti amici di padre Paolo Dall’Oglio’ ha postato un’intervista rilasciata dal gesuita rapito, poco prima del suo arrivo a Raqqa, al sito di ‘Ana Press’, una radio libera siriana, in cui afferma che i siriani potranno trovare la pace nel vivere insieme: “Religiosità significa guardarsi come Dio guarda le sue creature.

Torno così all’ottimismo e alla voglia di costruire la Siria come la desideriamo: se la vogliamo parlamentare o presidenziale o federale, o la vogliamo unita come era prima o con più autonomie regionali… bene, la costruiremmo come vorremo!”.

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