Cartier-Bresson al Museo dell’Ara Pacis

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Perché un fotografo è un artista? Potrebbe esser questa la domanda cui cerca di rispondere la mostra retrospettiva su Henri Cartier-Bresson (1908-2004) realizzata dal Centre Pompidou di Parigi in collaborazione con la Fondazione HCB in visione al museo dell’Ara Pacis fino al 25 gennaio 2015.

Cominciamo col dire che si tratta di una mostra biografica, diversa dalle molte altre che vengono montate con le immagini di Cartier-Bresson in ogni parte del mondo. Non vi sono i suoi scatti più celebri, tranne qualcuno. Vi è dell’altro. E’ una mostra secolare – Cartier Bresson ha vissuto 96 anni – e quindi attraversa un secolo intero della produzione delle immagini e racconta la vita del fotografo attraverso il cambiamento degli spessori semantici e delle funzioni tecniche della fotografia. Viene documentata una vita: una vita che lo vede, per lo più, al di qua dell’obiettivo, ma anche a volte al di là. Non solo nelle foto di altri che lo ritraggono. Al di là dell’immagine perché Cartier-Bresson cerca di “firmare” sempre le sue foto. Firmare una immagine meccanica e stampata è una azione impossibile e anche contraddittoria: non si possono siglare una pellicola o un foglio di carta sensibile. Si possono però caricare una inquadratura e uno scatto di una sopra-significazione personale. Come dire: sono io che guardo e che vi offro di guardare nel mio sguardo.

“Ho sempre avuto la passione per la pittura” ha scritto Cartier-Bresson. “da bambino, la facevo il giovedì e la domenica, ma la sognavo tutti gli altri giorni”. Ha cominciato prestissimo a disegnare, decorando le sue lettere a parenti e familiari con disegni e schizzi. Dalla metà degli anni ’20 ha dipinto con regolarità presso Jacque-Emile Blanche, Jean Cottenet, André Lhote. I suoi dipinti del 1924 sono influenzati da Paul Cézanne e, dal 1928, dai surrealisti come Max Ernst: grandi inventori di immagini metareali. I pittori gli insegnano cosa è l’arte: l’uso simbolico dei linguaggi. Immagini e segni significano non ciò che tutti possiamo vedere, ma ciò che l’artista propone di vedere al di là di ciò che c’è davanti a noi.

Sotto il doppio segno della pittura e della fotografia – in cui la fotografia appare soggiogata dal sapere della pittura (geometria, costruzione dell’immagine, simbolismo dei segni) – Cartier-Bresson compirà un viaggio in Africa tra il 1930 e il 1931. Un fotografo come Eugène Atget lo rende curioso delle potenzialità della tecnica dell’occhio meccanico e Cartier-Bresson cercherà di indirizzarla con la sua sensibilità artistica. Grazie a René Crevel comincerà a frequentare i surrealisti ed è l’atteggiamento surrealista a segnarlo: l’occhio creativo, lo spirito trasgressivo, la disposizione ad accogliere il caso. Come la maggior parte dei suoi amici surrealisti, Cartier-Bresson condividerà un convinto anticolonialismo e un impegno nei confronti dei repubblicani spagnoli. Nel corso dei suoi viaggi in Messico e negli Stati Uniti, tra il 1934 e il 1935, seguirà i movimenti di protesta e i partiti rivoluzionari.

Nel 1935, nel corso di un soggiorno negli Stati Uniti, imparerà i primi rudimenti dell’uso della telecamera attraverso una cooperativa di documentaristi. Di ritorno a Parigi, nel 1936, dopo aver contattato Georg Wilhelm Pabst e Luis Buñuel, comincerà a collaborare con Jean Renoir. Dopo la Guerra, nel febbraio del 1947, Cartier-Bresson, insieme a Robert Capa, David Seymour, George Rodger e William Vandivert, fonderà a New York l’agenzia fotogiornalistica “Magnum” e deciderà di diventare un reporter a pieno titolo, realizzando le tante immagini di storia e cronaca per cui è diventato famoso in tutto il mondo. Fino agli inizi del 1970 si impegnerà in viaggi e reportages ai quattro angoli del pianeta, lavorando per i grandi giornali illustrati internazionali e realizzando una produzione fotografica di altissimo livello.

Al margine dei suoi reportages, Cartier-Bresson realizzarà alcune serie di immagini più personali, immagini che si interrogano su grandi questioni sociali e umane e che assumono il valore di vere e proprie ricerche e inchieste. Sono una combinazione di reportage, filosofia e analisi sociale: una antropologia visiva.

Ma con gli anni’70, superata la sessantina, Henri Cartier-Bresson si rende conto del cambiamento intervenuto nella produzione e nella circolazione delle immagini attraverso i mass media e la pubblicità. Anche la “Magnum” si è allontanata dallo spirito critico e creativo con cui era stata fondata e si ritira dall’agenzia. In Francia si afferma il riconoscimento istituzionale della sua fotografia e lui comincia ad amministrate il patrimonio di immagini che ha scattato e a supervisionare l’organizzazione dei suoi archivi, la vendita delle fotografie e l’organizzazione di libri o mostre. Smette però di fotografare: le immagini che i fotografi producono in mezzo mondo, sui rotocalchi, i manifesti, nelle tv sono lontane dalla sua intuizione artistica del fotografare. Andrà soprattutto nei musei o alle mostre e passerà la maggior parte del tempo a disegnare. Tornerà a quella che era stata la sua passione giovanile: creare l’immagine con le proprie mani.

Nella foto:  George Hoyningen-Huene, “Henri Cartier-Bresson”, New York, 1935.

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