Chiamati per nome

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Ogni essere vivente porta il proprio nome. Nell’universo, il nome non esprime una convenzione ma la funzione di ogni essere creato. Il nome dato alla nascita designa il destino e la missione della persona. In principio, Dio portò a compimento la creazione donando il nome a ciascuna creatura. Essere senza nome significava essere persona da nulla (cf. Gb 30, 8). Cambiare nome esprimeva imporre una nuova personalità. Per indicare che prendeva possesso dalla vita di una persona, Dio stesso cambiò il nome ad Abramo, Sarai e Giacobbe (cf. Gn 17,5; 32,29; 17,15). L’attribuzione del nome, in quel tempo e in quella cultura, aveva un’importanza considerevole.

Dio, sull’Horeb, rivelò a Mosè il proprio nome. Quel nome significava che Dio è presente in mezzo al suo popolo. Egli è Jahve: Colui che è presente. Questo è il vero e solo nome di Dio: nome amato, lodato e santificato, con questo nome Dio è invocato. Per un rispetto sempre più profondo, il giudaismo tenderà poi a non pronunziare più il nome rivelato sull’Horeb e lo sostituirà con Elohim oppure Adonai che significa “mio Signore”. Quando i giudei tradurranno le Sante Scritture dall’ebraico al greco, non trascriveranno il nome di Jahve ma lo renderanno con Kyrios.

Nel Nuovo Testamento, a Gesù è attribuito il nome di Signore: il nome che è al di sopra di ogni nome (Fil 2,9). Nell’annunciazione, Gesù è qualificato col duplice nome prescritto dall’alto: Gesù, suo nome umano, e Santo, il nome divino di Figlio di Dio. Questi nomi furono pronunciati al futuro, prima cioè che la Vergine Maria desse l’assenso (cf. Lc 1,38) e concepisse nel suo grembo il Verbo fatto carne (cf. Lc 1,31; 2,21).

Per i credenti, la fede consiste nel credere che Dio risuscitò Gesù dai morti, nel confessare che Gesù è il Signore e nell’invocare il nome del Signore (cf. Rm 10,9-13). I primi cristiani si radunavano nel nome di Gesù e la predicazione apostolica aveva come oggetto di far conoscere il nome di Gesù Cristo. Nell’epilogo dell’Apocalisse, Giovanni ci richiama le visioni contemplate e udite nelle pagine precedenti. Domande e risposte si avvicendano come in una solenne liturgia. Cristo, che nella sua eternità divina abbraccia principio e fine, descrive la sua ultima venuta e dichiara beato chi si mantiene fedele alle sue parole profetiche. Il Signore dà testimonianza di se stesso e conferma la rivelazione parlando in tono intimo e cordiale: Io, Gesù. Egli, infatti, è la fonte della salvezza, con lui sorge il giorno nuovo ed eterno nel quale riunirà tutta la comunità salvata in un solo corpo. La Chiesa, sposa di Cristo, e lo Spirito che agisce in essa, rispondono alla sua venuta con l’accorata invocazione: Amen. Vieni, Signore Gesù! È l’invocazione con cui la Chiesa-Sposa, animata dallo Spirito, esprime la sua aspirazione all’incontro con Cristo nella speranza-certezza che tutto ciò che costituisce il bene dell’uomo è legato alla sua venuta. Colui che verrà è insieme Colui che viene sempre, nel passato, nel presente e nel futuro (cf Ap 22,16-20).

Nell’antico rito del battesimo, la richiesta del nome coincideva con l’iscrizione dei candidati al battesimo poiché, da “catecumeni” diventavano “eletti”. Nel nuovo rito d’inizio, la domanda del nome da parte del celebrante ai genitori, oltre ad avere uno scopo pratico, ha pure quello di valorizzare la dignità della persona. Il nome assume un significato religioso per il legame che viene a determinarsi tra il battezzato e Dio. Il battesimo, infatti, non è un episodio qualsiasi della vita, ma una nuova nascita che dona l’inizio a una nuova esistenza; il battezzato, infatti, sarà sempre chiamato con quel nome.

Talvolta si ha l’impressione che, in certi ambienti, il nome ricevuto nel battesimo dai genitori scompaia quasi del tutto e si finisca per essere chiamati soltanto con l’anonimato dei titoli della categoria d’appartenenza. È consolante il fatto che la Chiesa, dalla nascita alla morte, chiama sempre i suoi figli con il nome battesimale. Anche nell’invito finale a entrare nel Regno dei cieli, il Cristo Giudice chiamerà ciascuno col proprio nome. L’odierna società, invece, corre il grosso rischio di apparire una “società anonima” di persone senza nome. Il ruolo, l’incarico, il titolo, prendono il posto del nome che identifica e qualifica.

La storia istruisce che, all’interno di ogni nome, c’è sempre un mondo personale misterioso o, addirittura, il segno di un destino: nomen – omen. Il nome è, infatti, augurio e perciò esprime il concetto del valore augurale attribuito allo stesso nome. Il nome è assai più di un mero suono perché nasconde in sé tutta la storia di ogni persona rivelandone l’identità. Quando il titolo dell’anonimato, anche il più elevato, sostituisce il posto del nome, vuol dire che il rapporto tra le persone non è più costruito sulla “fraternità in concordia”, ma sulla “distanza per importanza”. Non sei più un uomo-persona, ma una designazione di ruolo. L’anonimia diventa così un aspetto della solitudine della persona che non vive più la fraternità umana, tanto meno la concordia cristiana (cf. At 4,32). Sono sempre più convinto che non sono i titoli e i ruoli a qualificare la persona, ma sono le qualità della persona che qualificano titoli e ruoli legati a un servizio. Talvolta si ha il titolo onorifico, ma non si possiedono le qualità. A quante scene assistiamo, anche ridicole, dietro la presunzione dei titoli e dei ruoli autoesaltanti per apparire persone importanti e potenti!

A un certo punto della vita, arriva per tutti il titolo della saggezza: “emerito” o “pensionato”. Si tratta di un momento obbligato nel percorso dell’esistenza, tranne che già, immersi nell’eternità, non si viva più nello spazio e nel tempo.  L’essere “emerito” dà la possibilità, se si hanno ancora le capacità e le qualità, di fare ciò che prima non si poteva, per mancanza di tempo. Quando vengono meno ruoli e titoli, l’essenziale è non abdicare a quel che sei e a quel che hai fatto per continuare a operare su quel che è il tutto dell’uomo. Bisogna possedere la capacità di sapersi elevare al disopra degli ingarbugliati e caotici momenti storici per non farsi distruggere e appoggiare cuore e mente nella fiducia in Dio che sempre illumina e orienta il tuo cammino. Abdicare significa dichiararsi sconfitti e rinunciare a redimere il tempo dell’età matura che ricapitola il passato proiettandolo in un futuro di feconda libertà. La saggezza non è questione di età matura, ma si raggiunge nella misura in cui l’individuo, da sempre, ha posseduto equilibrio e maturazione interiore. Intanto, dopo il ruolo, non bisogna mai rinunziare alle tante energie che rimangono intatte, ai moltissimi tesori di esperienza accumulati nella fatica degli anni lavorativi. È vero che, come si suole dire, l’esperienza è quel libro che tutti scrivono ma che nessuno legge. E’ anche vero che tutto ciò che si è imparato e insegnato non si può buttarlo nel dimenticatoio: nella vita, niente si costruisce dal nulla.

Il chiamarsi per nome non passa mai attraverso le sbarre dell’ipocrisia, esso è forza unificante di quanti decidono d’incontrarsi per camminare insieme verso lo stesso fine. Non è l’uniformità dei titoli e delle divise, talvolta livellante e depauperante, che esprime l’unitas cordium, cioè la concordia fraterna, ma la dignità della persona da rispettare e da difendere.

Al prossimo da amare, Gesù non propone mai il titolo, il ruolo o la posizione sociale-ecclesiale, ma il nome e il volto del fratello in umanità e fede. A proposito di “chiamare per nome”, ricordo ancora con amarezza, quel giorno in cui un’eminente Eccellenza, con pietrosa solennità statuaria, con occhi fissi senza sguardo, dovendo trasferire alcuni dei suoi preti, ebbe a dire: «Ecco, io oggi finalmente, inizierò il lavoro di spostamento delle mie pedine». I confratelli presbiteri non sono chiamati per nome ma col titolo di “pedine”. Ecco chi sono i presbiteri per certi cosiddetti “pastori del gregge”!

Il Santo Vangelo ci insegna che il Buon Pastore conosce per nome ciascuna delle sue pecore (cf. Gv 10,3) e i nomi degli eletti sono scritti nel cielo (cf. Lc 10,20). Come, nell’amministrazione dei sacramenti, la Chiesa continuerà a chiamarci con il nome del battesimo, cosi il Signore Gesù, quando verrà alla fine dei tempi, chiamerà ciascuno per nome e userà un solo titolo in positivo o in negativo: Venite, benedetti, se degni di salvezza, Via, lontano da me, maledetti, se cacciati e dannati. Chi entra nella gloria riceverà la manna nascosta, nutrimento del regno dei cieli; una pietruzza bianca, segno dell’ammissione nel Regno e un nome nuovo, quel nome ineffabile che esprime il rinnovamento interiore che rende degni di portarlo (cf. Ap 2,17).

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