I cinque anni di Benedetto

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Quello che è certo che il pontificato di Benedetto XVI non è di transizione. O meglio è esattamente la transizione tra la realtà di una Chiesa di folle e masse non sempre abbastanza formate e una Chiesa di minoranza ma preparata e convinta. Insomma quel “Sale della terra” di cui parlava il cardinale Ratzinger nel libro intervista del 1996 scritto con Peter Seewald.

Un papa “scomodo” come, del resto, nei primi anni fu lo stesso Giovanni Paolo II, accusato di essere troppo “polacco”, amante delle manifestazioni di pietà popolare che a molti sul finire degli anni 70, sembravano tanto fuori moda. Poi la storia, i fatti, le parole e i gesti hanno portato i media, anche i più critici, a vedere in Karol Wojtyla il papa giusto e quasi provvidenziale per un certo periodo storico. Il crollo del comunismo, lo sviluppo dei viaggi, il rapporto con i media, i grandi raduni, la riforma della Curia e dei codici, il magistero dei diritto dell’uomo fino alla accettazione della sofferenza hanno fatto di Giovanni Paolo II “santo subito” a prescindere dai tempi canonici.


Per Joseph Ratzinger non è stato facile raccogliere questa eredità. Ma lui ha subito messo in chiaro di essere “altro”. Non certo per prendere le distanze, ma per chiarire che ogni papa, ogni uomo è diverso dall’ altro. Grazie a Dio, non siamo stati creati uguali. Del resto, lo sappiamo, Giovanni Paolo II lo ha definito un “amico fidato” e molta della dottrina teologica del suo pontificato è nata dalla collaborazione con il Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede che Wojtyla non ha mai voluto lasciare     andare via.
Benedetto XVI è un uomo mite, sereno, fermo e abituato ad essere impopolare. Anzi, per alcuni Ratzinger in fondo è un provocatore. Il suo è un animo di professore che ama il confronto e il dibattito, quando è intellettualmente onesto. E qui, forse, nasce e si sviluppa il contrasto con i media contemporanei, sempre troppo a caccia di scandali e scoop, alla ricerca di dietrologie che non esistono e di retroscena per lo più immaginari.
Wojtyla aveva scelto, secondo il suo carattere e la sua esperienza di vescovo in un paese comunista, la strada dello scontro in campo aperto, Ratzinger, da intellettuale, da professore, sembra preferire la strada del confronto schivo, ma fermo. Un agire più rischioso, perché si presta a critiche più malevole. Lo abbiamo visto in tanti cosi detti “incidenti”. Da Ratisbona al problema dei lefevriani, ai temi etici. Aver agitato le acque è servito soprattutto a “setacciare” i cristiani e i papalini di comodo da quelli che negli ultimi 30 anni avevano davvero ascoltato le parole e i discorsi di Giovanni Paolo II. E hanno provato a vivere secondo questo insegnamento. La perfetta consequenzialità di due pontefici, uno polacco e uno tedesco, nel mare di questo tempo frammentato e difficile, rende semplice il messaggio di entrambi.
In cinque anni Benedetto XVI ha continuato con ferma semplicità l’attuazione e la comprensione del Concilio Vaticano II. Ha scritto tre encicliche che mettono al centro del magistero la gioia di essere amati da Cristo e di amarlo, ha ricordato, come dice il suo segretario particolare Georg Gaenswein nel libro “Benedetto XVI urbi et Orbi”, che “la fede non è un problema da risolvere, è un dono che va scoperto nuovamente”.

 

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