Non è un indulto. Gli immigrati che escono dai Cie certificano il fallimento della nostra politica

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Nuovamente in libertà. Hanno in mano un provvedimento che li intima a lasciare il nostro paese entro cinque giorni (cosa che non faranno, se non eventualmente per andare a nord, e non per tornare a sud). In ogni caso sono nuovamente in libertà. Oltre mille persone, 1038 secondo i certosini calcoli del Ministero dell’interno, lasciano i Cie, i Centri di identificazione ed espulsione dopo che sono scaduti i termini del loro trattenimento in attesa di identificazione e rimpatrio.

Il titolare del Viminale, il ministro Roberto Maroni, parla di vero e proprio “indulto” e se la prende con il Parlamento che non ha convertito in legge la norma del “decreto sicurezza” che aveva allungato da due mesi (60 giorni) a sei mesi il tempo massimo di permanenza nei Cie per i migranti, che il ministro, a dire il vero in numerosa compagnia, definisce esclusivamente “clandestini” o “extracomunitari irregolari”. Una norma, quella del decreto governativo del febbraio scorso, duramente contestata non solo e non tanto dall’opposizione, ma soprattutto dalle organizzazioni non governative attive sul fronte, quelle presenti all’interno dei Cie, ad iniziare da quello di Lampedusa.


Il ministro Maroni parla di “indulto” e se la prende con chi in Parlamento rema contro e ha consentito una vera e propria liberazione di massa. Ma la posizione del ministro non regge alla prova dei fatti, che sono eloquenti. I migranti che escono dai Cie dopo la mancata conversione in legge del decreto e dunque nel momento del ritorno della normativa ai 60 giorni previsti dalla legge Bossi-Fini, non escono perchè il Parlamento li ha liberati: escono più semplicemente perchè in un periodo di tempo compreso fra i due e i quattro mesi non si è riusciti a fare quello che bisognava fare, quello per cui cioè si era detto che occorresse trattenerli: procedere con l’identificazione (in accordo e con la collaborazione dei paesi di origine) e immediatamente dopo al rimpatrio concordato con tali paesi. Il fine del trattenimento nei Centri di identificazione ed espulsione, infatti, è proprio quello: identificare per giungere al rimpatrio concordato. Ma se il sistema non funziona, se i paesi di provenienza non collaborano, per ottenere un successo non bastano 60 giorni come non sono bastati quattro mesi e come non sarebbero bastati, di tutta evidenza, neppure sei mesi. Il problema infatti non è quello di allungare in maniera indefinita il periodo di permanenza: il problema è quello di trovare collaborazione oltre il Mediterraneo, anzitutto nel contrasto ai viaggi, ma quanto meno nella gestione dei migranti una volta sbarcati in Italia.

La permanenza in un Cie (che in molti chiamano “detenzione”, e il perchè è facile immaginare) è chiaramente un provvedimento di grande importanza perchè incide sulla libertà stessa di una persona, che si sceglie di sacrificare per perseguire una modalità razionale di gestione del fenomeno dell’immigrazione. Privare qualcuno della libertà non è mai qualcosa che può esser fatto a cuor leggero, tanto più che un gran numero di migranti vengono poi dichiarati rifugiati, ottenendo l’asilo politico. Non si tratta di carne da macello dunque, ma di persone che – con le dovute regole – occorre accogliere ed anche, eventualmente, rimpatriare, ma all’interno di un sistema di regole che non contravvenga le comuni ed elementari basi del vivere civile.

Quello che il ministro chiama “indulto”, quasi a voler dare l’impressione che svuotandosi i Centri di identificazione ed espulsione una massa di delinquenti abbia invaso le nostre città, in realtà può essere letto anche sotto un’altra ottica: i migranti escono perchè è palesemente fallito l’obiettivo che il governo si era dato, quello con il quale l’esecutivo aveva giustificato l’allungamento dei termini di permanenza: voler procedere a identificarli e poi a rimpatriarli. Con un’aggravante: tenere i migranti per lungo tempo nei Cie comporta il loro sovraffollamento e la difficoltà sempre più evidente nella gestione dei Centri e dei nuovi sbarchi: gli ultimi due mesi, nel neonato Cie di Lampedusa, sono stati fra i peggiori (ricorderete anche una rivolta interna), e anche gli altri Centri siciliani e non solo si trovano a dover fare fronte con difficoltà al gran numero di arrivi. Le condizioni di lavoro delle organizzazioni non governative negli ultimi sessanta giorni sono state al limite del possibile.

La cooperazione con l’Algeria e la Tunisia funziona, seppur con qualche inciampo. Quella con la Libia è un fallimento. E’ dalla Libia che partono la gran parte delle carrette del mare con a bordo disperati provenienti da tutta l’Africa sub-sahariana e non solo, è la polizia libica che fa poco o nulla per contrastare il fenomeno, una vera tratta di esseri unmani. E’ quella Libia che firma gli accordi di amicizia con l’Italia a fare spallucce di fronte alle nostre richieste: anzi, purtroppo fa di peggio, gestendo direttamente sul proprio territorio, e con il supporto italiano, veri e propri Centri di detenzione nei quali sono imprigionati centinaia di migranti di altre nazionalità. Il problema dei “clandestini” non si risolve mettendoli dentro una volta che arrivano, e facendo passare loro al chiuso sei mesi invece che soli sessanta giorni: si risolve attuando iniziative forti che convincano i paesi di origine a collaborare. Non è un indulto, quello che accade: è solo la fotografia di una realtà che racconta l’impotenza di un paese che cerca di innalzare barriere senza che queste riescano effettivamente a fermare chi pur di sbarcare in Europa è deciso anche a rischiare la morte.

 

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