Ginevra 2, il messaggio della Santa Sede per la pace

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Ora è il caso di guardare al futuro, all’incontro tra il governo siriano e l’opposizione. Ma ci si deve anche guardare indietro, all’incontro di Montreaux detto di Ginevra 2. Si sono seduti insieme governo siriano e ribelli della coalizione nazionale siriana (ma altri gruppi ribelli hanno rifiutato di partecipare), insieme ad altri Paesi come Stati Uniti, Regno Unito, Francia, Germania, Russia ed Arabia Saudita. Mancava l’Iran, un alleato di Assad, il cui invito è stato cancellato dopo le proteste dei ribelli e degli Stati Uniti, ma alla cui partecipazione non si sarebbe opposta la Santa Sede, che da sempre ha chiesto una politica internazionale che fosse multilaterale e vedesse la partecipazione di quanti più attori possibili. E forse è un segno del destino che il discorso a Ginevra 2 di Silvano Maria Tomasi, osservatore permanente della Santa sede presso la sede ONU di Ginevra, venga divulgato proprio mentre nel Palazzo della Cancelleria a Roma il “ministro degli Esteri” vaticano Dominique Mamberti sta parlando ad un ricevimento per il trentennale dei pieni rapporti diplomatici tra Santa Sede ed USA, auspicando che Santa Sede e Stati Uniti cooperino sempre di più per la giustizia e la pace nel mondo.

L’invito agli USA a cooperare sono un segnale forte, dato che alcuni osservatori avevano fatto notare, dall’altra parte dell’oceano, come sulla Siria la Santa Sede si fosse più o meno “adeguata” alle posizioni russe. Ma la realtà è diversa. L’agenda internazionale della Santa Sede è il bene comune. Non ci sono accordi o rapporti privilegiati bilaterali. C’è, piuttosto, l’interesse delle comunità da preservare.

Un interesse che traspare nelle parole di Silvano Maria Tomasi a Ginevra 2. Le richieste della Santa Sede sono nette. Prima di tutto, l’immediato e incondizionato cessate il fuoco e la fine delle violenze di ogni genere e la deposizione di tutte le armi, con tanto di misure specifiche “per arrestare il flusso di armi e il finanziamento delle stesse. E poi, ricostruzione, maggiore assistenza umanitaria, perché “milioni di persone sono state dislocate e si trovano in situazioni di pericolo per la loro vita. La vita familiare è stata sconvolta. Le strutture educative e sanitarie sono state distrutte o rese inutilizzabili”. I giovani, attraverso il loro impiego e il loro lavoro, siano “protagonisti per un futuro pacifico e creativo del loro Paese”.

Ma soprattutto, bisogna ricostruire le comunità “La Santa Sede – dice Tomasi – incoraggia fortemente tutte le fedi e le comunità religiose in Siria a giungere a una maggiore conoscenza reciproca, a una migliore comprensione e al ripristino della fiducia”. Anche perché “la pace in Siria potrebbe diventare un catalizzatore della pace in altre parti della regione e un modello di quella pace di cui c’è così urgentemente bisogno”.

Un modello di pace che si deve basare sull’uguaglianza, perché “un approccio giusto sarebbe quello di riconoscere che l’esistenza della diversità culturale, etnica e religiosa e del pluralismo non deve essere un fattore negativo o, peggio, una fonte inevitabile di conflitto, ma piuttosto una possibilità per ogni comunità e individuo di dare il proprio contributo al bene comune e allo sviluppo di una società più ricca e bella. C’è un ruolo per tutti laddove la cittadinanza offre uguale partecipazione in una società democratica con pari diritti e doveri”.

Sono posizioni da sempre espresse dalla Santa Sede, la cui agenda internazionale è costituita dal bene comune. Commentando la conferenza di Ginevra 2, Tomasi ha poi detto a Radio Vaticana che, nonostante la conferenza abbia avuto anche momenti di tensione, “il bilancio di questa giornata – secondo me – è abbastanza positivo, nel senso che c’è la comunità internazionale impegnata a sostenere con nuovi e sostanziali impegni finanziari le esigenze di assistenza umanitaria; la volontà politica di appoggiare il processo di pace e di sostenerlo in tutte le maniere possibili; c’è il primo incontro tra le parti in conflitto, perché la soluzione del problema della Siria deve venire dai siriani: sono loro che devono programmare il loro futuro e la comunità internazionale può aiutarli, ma è da loro che deve venire la risposta. Infine, direi, c’è questa invocazione universale da parti di quelli che soffrono, dei morti, delle vittime, dei bambini, che a centinaia di migliaia sono stati costretti a scappare, che tocca la coscienza del mondo e che per solidarietà e per dovere umanitario ci impone di muoverci nella direzione della pace”.

Una direzione della pace fortemente auspicata da Papa Francesco, il quale ha fatto della Siria la sua prima, grande battaglia diplomatica internazionale, avendone preso il testimone da Benedetto XVI. Durante l’ultimo sinodo dei vescovi, Benedetto XVI voleva anche inviare una delegazione di vescovi e cardinali in Siria durante l’ultimo sinodo dei vescovi, per testimoniare in maniera tangibile la solidarietà della Chiesa. Una decisione che faceva seguito ai molti appelli per la pace in Siria lanciati durante l’Angelus, e alla quale non si poté dar seguito per questioni di sicurezza. Il viaggio della rappresentanza del sinodo sarà poi “sostituita” dal viaggio del card. Robert Sarah, presidente del Pontificio Consiglio Cor Unum.

Sono iniziative che stanno in fondo a dimostrare come la Santa Sede abbia un impatto globale nel suo agire diplomatico. Una importanza riconosciuta anche da Assad, che vi ha individuato un Paese neutrale e senza interessi di parte cui rivolgersi. Per questo, lo scorso 28 dicembre Assad ha inviato una delegazione di alto livello in Vaticano. Il ministro di Stato Joseph Sweid e l’ambasciatore siriano presso la Santa Sede Hussam Eddin Aala hanno consegnato nell’occasione al segretario di Stato Pietro Parolin e al segretario per i rapporti con gli Stati Mamberti una lettera da parte di Assad.

Se Assad sosteneva che non ci dovessero essere influenze esterne nel gestire la crisi siriana, e spingeva per nuove libere e democratiche elezioni, è pur vero che la Santa Sede si è sempre impegnata per mantenere l’integrità del territorio siriano, senza “enclave” destinate a particolari gruppi religiosi, e di creare un “humus” di convivenza e riconciliazione tra le varie anime della società siriana.

Da quando un intervento militare in Siria guidato dagli Stati Uniti sembrava inevitabile, Papa Francesco ha voluto porre sempre più l’accento sul problema. Mamberti aveva spiegato la posizione della Santa Sede ad un incontro con gli ambasciatori accreditati presso la Santa Sede il 5 settembre scorso, con un intervento che sottolineava anche tutta l’attività diplomatica svolta sotto il pontificato di Benedetto XVI. Poi, la giornata di digiuno e di preghiera del 7 settembre. E quindi, in vista di Ginevra 2, il meeting a porte chiuse presso la Pontifica Accademia delle Scienze guidato dal card. Jean Louis Tauran e l’incontro di Parolin con il segretario di Stato USA John Kerry, il primo cattolico a capo della diplomazia statunitense.

E allora si ritorna al trentennale dei rapporti diplomatici tra USA e Santa Sede. Negli Stati Uniti l’apertura di una ambasciata presso la Santa Sede è stata a lungo osteggiata, si poneva un problema di libertà religiosa, di una influenza della religione sulla nazione. Le foto di Giovanni XXIII che incontra il primo presidente cattolico d’America, John Fitzgerald Kennedy, risalgono ad un periodo in cui ancora le relazioni diplomatiche non erano piene. Eppure fu anche il periodo in cui l’appello di Giovanni XXIII per la pace ebbe un impatto decisivo nella soluzione della crisi dei missili di Cuba.

Per quanto riguarda il confitto siriano, invece, la voce della Chiesa è stata relativamente ascoltata, mentre si assisteva all’ennesimo esodo di cristiani da un territorio mediorientale. In 32 mesi di conflitto, ci sono stati da 100 a 130 mila morti, 2,3 milioni di rifugiati nelle nazioni vicine e circa 6 milioni e mezzo di sfollati.

Le cifre del conflitto siriano, insieme ai conflitti elencati da Papa Francesco nel suo incontro di inizio anno con gli ambasciatori accreditati presso la Santa Sede e nell’Urbi et Orbi di Natale, che stanno a testimoniare come oggi, a trenta anni dall’apertura dell’ambasciata americana presso la Santa Sede, c’è ancora molto da fare nel mondo per raggiungere il bene comune. La Santa Sede può trovare negli USA un partner importante e influente. E forse di questo parlerà Papa Francesco con il presidente Barack Obama, quando questi verrà in visita in Vaticano il prossimo 27 marzo.

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