La Chiesa può contribuire a creare una cittadinanza europea. Intervista a Vincenzo Buonomo

Condividi su...

Costruire la cittadinanza europea con più ampi contenuti sociali. È questo il contributo che può dare la Chiesa in Europa. Lo afferma Vincenzo Buonomo, professore ordinario di Diritto Internazionale e di Diritto dell’Unione Europea all’Università Lateranense. In fondo, sono state le istituzioni della Chiesa – parrocchie, associazioni del Terzo Settore, scuole, ospedali – a contribuire alla formazione dell’Europa e a mantenere il sogno di un’Europa unita, specialmente oggi che l’Unione è basata soprattutto sul mercato e con la crisi vede aumentare i bisogni e accrescersi le povertà. La Chiesa può e deve contribuire a riportare l’accento sulla persona umana, più che sull’economia.

Buonomo ha parlato di questi temi al Seminario sulla Coesione Sociale promosso dalla Commissione Caritas in Veritate del Consiglio delle Conferenze Episcopali Europee, che si è tenuta a Nicosia (Cipro) dal 3 al 5 settembre (qui una cronaca dell’evento). In quella circostanza, ha anche delineato i possibili campi di intervento della Chiesa nel processo di coesione europeo. “Un primo campo – dice – è quello della crescita economica e delle politiche sociali. L’azione dell’UE attraverso le sue istituzioni è orientata a favorire un progresso sociale di fatto legandolo alla crescita economica”. Un sistema che in pratica “si traduce nel riferimento al ruolo centrale che gioca il sistema di concorrenza o di concorrenza perfetta. Un ruolo che resta un positivo traguardo per garantire l’iniziativa o il processo economico, ma che prevede anche l’astensione dei poteri pubblici dall’intervenire, se non in casi eccezionali e temporanei”. Questa constatazione – sostiene Buonomo – porta ad un interrogativo: “Quale compatibilità ha questa impostazione con una visione ispirata dalla solidarietà e dalla sussidiarietà?”. Ed è qui che entra in gioco il ruolo delle Chiese, perché “proporre una più ampia visione significa per le Chiese operare su coloro che decidono nell’UE, perché non si impegnino solo a strutturare politiche economiche e fiscali. In questo momento di crisi, ad esempio, è necessario attivare politiche sociali da cui poi far scaturire posti di lavoro”. La Chiesa – dice Buonomo – non deve solo denunciare, deve ricordare anche che ci sono stati dei “correttivi”a questa impostazione, come ad esempio la Carta Sociale Europea (1961, revisionata nel 1996), la Carta Comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori (1989). “Una effettiva coesione economica e sociale non può – afferma l’esperto – essere il frutto di una moneta comune cui non corrisponde un’unica politica economica; come pure non si può pensare che il mercato sia efficace solo se in esso opera una giusta concorrenza, magari pensando che anche le politiche sull’occupazione debbano seguire lo stesso criterio”.

Altro campo in cui la Chiesa può intervenire è quello delle “differenze culturali e il loro impatto sulla coesione sociale”. “In questo caso – dice Buonomo – coesione è sinonimo di ‘vivere insieme tra le diversità’ e cioè far coesistere le realtà, punti di vista, visioni culturali, religiose e politiche tra loro differenti e su non pochi aspetti antitetiche, ma soprattutto con molteplici dimensioni”. Una impostazione – afferma il professore della Lateranense – “che ha abituato il contesto dell’integrazione europea ad affrontare – non a risolvere – le esigenze di coesione sociale mediante i due metodi: assimilazione e integrazione, ambedue legati però all’idea dell’altro che si  adatta a noi”. E l’unico modo per identificare l’altro è la sua “estraneità rispetto al processo programmato dalle istituzioni dell’UE”. Gli altri pertanto “potrebbero essere anche coloro che, pur europei, manifestano una visione diversa da quella delle istituzioni, magari sui temi etici o legati ad un ethos religiosamente fondato”. Ma per l’UE la coesione sociale corrisponde – secondo un’altra visione – “al benessere economico e al lavoro per tutti come fondamento di eguaglianza sociale. L’ineguaglianza, invece, è data dall’assenza di coesione sociale, determinata da un mancato accesso al lavoro, all’impiego, alla formazione, all’alloggio”. Eppure – dice Buonomo – si riscontra in questa impostazione “una evidente contraddizione. Uno dei grandi problemi dell’Europa integrata è la crescente esclusione sociale, con una mancanza di adeguata protezione sociale (cure mediche, assistenza sociale, accesso al mondo del lavoro e delle professioni…) determinata da un’azione sociale non più uniforme per le diverse componenti della società, ma individualizzata e che rischia di essere discriminatoria, a volte sulla base di criteri esclusivamente economici”.

Altro tema su cui la Chiesa può dire la sua: i flussi migratori e la loro relazione con la coesione sociale. “L’UE – si chiede Buonomo – può ancora manifestare un interesse solo in materia di mercato e di scambio di merci? O deve poter anche esprimere una sovranità in tema di partecipazione ai processi decisionali, alla gestione istituzionale, al godimento dei diritti fondamentali, compreso quello alla libertà di religione?” Ecco allora che le Chiese cristiane devono riflettere sulla sfida rappresentata dal “radicarsi sul continente di religioni e culture diverse”, che è “ormai un dato concreto”, in modo da “contribuire al processo di edificazione di una reale coesione sociale in Europa”.

Infine, il tema dei diritti umani. L’istituzione UE – dice Buonomo – “appare operare, spesso in modo indiretto, per limitare (una vera e propria erosione) la competenza degli Stati in materia sociale, presentandosi come una conseguenza dell’acquisita sovranità in materia commerciale e sempre più economica”. Una erosione che avviene non solo con normative specifiche in materia sociale, ma anche da atti diversi, “come evidenzia ampiamente la Carta dei diritti fondamentali del cittadino europeo”. “Un atto – commenta Buonomo – che per il livello di obbligatorietà e di cogenza si configura a pieno titolo come veicolo di coesione sociale, lì dove questa viene fondata sui diritti umani”. Una situazione da cui nasce un interrogativo. “Se la coesione è fondata sui diritti umani, e questi sono unicamente gestiti a livello dell’Unione, come meravigliarsi di posizioni in aperta discordanza con la visione che dei diritti fondamentali la Dottrina Sociale della Chiesa propone?”

Sono questi gli ambiti in cui la Chiesa può intervenire, non per “abbattere le diversità esistenti o proporre un solo modo per percorrere la strada dell’integrazione”, ma per “co-operare con tutti”, cosciente che “lo sviluppo dell’integrazione manca di una spinta ideale capace di superare divisioni particolarismi e interessi egoistici” e che “una reale coesione sociale passa attraverso l’idea di una cittadinanza sociale”. Sono casi in cui è richiesta la “sussidiarietà in grado di far coesistere le differenze”. “La coesione sociale – conclude Buonomo – diventa lo strumento per costruire la cittadinanza europea”. E proprio questo potrebbe essere “uno spazio in cui inserire coerentemente la riflessione e l’apporto delle Chiese la cui legittimazione risiede nell’azione fin qui svolta anche in carenza di quella delle istituzioni nazionali ed Europee”.

151.11.48.50