Il gioco delle tre carte

Aliyev e Meloni
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[Korazym.org/Blog dell’Editore, 12.09.2024 – Vik van Brantegem] – Proseguiamo con il recupero di alcune questioni, rimaste in sospeso nel periodo estivo. Oggi ritorniamo sul gioco geopolitico delle tre carte: l’autocrazia di Ilham Aliyev, l’intesa con Volodymyr Zelens’kyj e il gas di Vladimir Putin mascherato con il passaporto azero. Iniziamo con riportare Ho fallito, l’ultimo Molokano dell’amico e collega Renato Farina, sul numero di agosto di Tempi: «Troveremo insieme altre vie per muovere il cuore di qualcuno capace di tirare i fili della storia. (…) Ho scritto che il Molokano ha fallito. Ma il Molokano – questa creatura che ho preso a prestito da Vasilij Grossman che ne traccia il ritratto nella sua ultima opera Il bene sia con voi dedicata all’Armenia – mi sta mordendo l’orecchio e mi dice che il mio negozio è chiuso ma lui vive».

Poi seguiranno, per capire la retroscena:

  • Il petrolio russo importato dall’Italia e gli affari con l’Azerbajgian di Andrea Siccardo e Duccio Facchini su Altreconomia del 9 settembre 2024
  • La faccia come l’Azerbajgian di Marco Palombi su Il Fatto Quotidiano del 7 settembre 2024
  • Nessuna voce critica è ammessa da Aliyev. Azerbajgian verso il totalitarismo di Camillo Bosco su La Ragione del 29 agosto 2024
  • Ecco come l’Europa sostituirà il gas russo con quello proveniente dall’Azerbajgian di Antonino Neri su Energia Oltre del 18 giugno 2024
  • Le (reali) possibilità di ritorno in Karabakh degli sfollati Armeni su Ipsionline.it del 13 maggio 2024
  • Addio Russia, avanti Azerbaijan: da chi compra il gas adesso l’Europa di Paolo Mossetti su Wired dell’8 aprile 2024
  • Gas russo tramite l’Azerbajgian: interrogativi scomodi per l’Europa. Un accordo largamente osannato tra Baku e Brussel aveva lo scopo di liberare l’Europa dal gas russo. Ma se ora è l’Azerbajgian a importare gas russo per rispettare gli impegni presi nei confronti dell’Ue? di David O’Byrne su Eurasianet del 22 novembre 2022

Ho fallito
di Renato Farina
Tempi, agosto 2024

Accade che certe cose finiscono. Il Molokano – la rubrica che da cinque anni Tempi dedica alla Armenia, unico tra i periodici non armeni ad aver svolto questo compito in Occidente – tira giù la saracinesca. Come tanti piccoli negozi, in questa epoca di acquisti online, deve fare i conti con i bilanci. Non quello economico, o del consenso e dell’amicizia che circondano tuttora il Molokano. Ma l’efficacia culturale, politica, diplomatica è zero. Ho ricordato [QUI] come proprio il documento finale del G7, condotto dall’Italia, non trova tra le 20mila parole neppure una che nomini, almeno il nome: Armenia. Invece zero, niente, de nada, nothing, de nihilo. Anzi, proprio in quei giorni il nostro Ministro della Difesa è andato in Azerbajgian a onorare e ribadire l’accordo per rafforzare e modernizzare le forze armate che hanno schiacciato come un uccellino e cacciato dalla loro terra il popolo armeno dell’Artsakh/Nagorno-Karabakh. Un sigillo.

Be’, diciamolo, chi qui scrive porta i libri del Molokano in Tribunale. Mi pare si dica così quando i conti non quadrano più. La mia vita è l’Armenia. Non ho parentele di sangue, ma credo si chiami comunione. Troveremo insieme altre vie per muovere il cuore di qualcuno capace di tirare i fili della storia.

La situazione della piccola repubblica con capitale Erevan, dal punto di vista geopolitico e militare, resta periclitante. C’è una sproporzione incommensurabile tra la minuscola considerazione che l’Armenia (quella fisica e quella spirituale) ottiene dalle potenze occidentali e il valore reale per il futuro della civiltà che ha l’immensa anima di questo popolo, che porta con sé la tradizione vivente del Cristianesimo, non solo come archeologia e pagine di storia, ma proprio come esperienza di gente che prega, crede, soffre, spera, muore ma non muore.

L’Armenia resta – oggi! – sempre minacciata di soluzione finale, mentre porta sul proprio corpo il segno di un genocidio che non si è mai esaurito e tuttora si sta perpetrando contro i centomila fratelli espulsi dall’antico paradiso di boschi, sorgenti, monasteri, croci fiorite.

C’è bisogno di pace oggi, un accordo stabile, che garantisca il territorio armeno da pretese mai sopite da parte dell’alleanza azero-turca di sempre nuove fette di Armenia, che il dittatore di Baku, Ilham Aliyev, chiama Azerbajgian Occidentale. Ma l’Europa sta a vedere, gli Stati Uniti stanno a mezza strada da il lupo e l’agnello, e questo non è mai una buona notizia per chi è più debole. Pare che gli Americani abbiano convinto – con l’Europa silente e l’Italia orrendamente schierata con gli invasori – il Premier armeno Nikol Pashinyan a rassegnarsi, mettendosi il cuore in pace, e a rinunciare al ritorno in Artsakh dei centomila da uomini liberi e non da schiavi, come pretenderebbero gli occupanti.

Tutto fatto, tutto perduto. O no?

Ho scritto che il Molokano ha fallito. Ma il Molokano – questa creatura che ho preso a prestito da Vasilij Grossman che ne traccia il ritratto nella sua ultima opera Il bene sia con voi dedicata all’Armenia – mi sta mordendo l’orecchio e mi dice che il mio negozio è chiuso ma lui vive.

Il Molokano è il desiderio di libertà indomabile, la consapevolezza che le forze del male sono impotenti davanti al miracolo della bontà, che inspiegabilmente di tanto in tanto scaturisce dal cuore di pietra di questa razza umana: è da Fallimento geopolitico per ora: confermo. Eppure nella storia non tutto è esito di rapporti di forza. Mi suggerisce il Molokano, bevendo latte sul bordo del lago di Sevan, dove guizzato argentee le trote principesse: “Per grazia, nella storia non tutto accade secondo la volontà di Satana, che agita la cattiveria umana, e la Madonna non se ne resta a giocare con gli angeli sopra le nubi. Ma è nostra madre, non abbandonerà questo povero suo popolo”.

P.S. non ci sarebbe bisogno di scriverlo, ma non mancherà mai, finché Tempi esisterà, la copertura di tutto quanto di importante riguarderà l’Armenia e tutti i Molokani dell’orbe terraqueo.

Il Molokano

Il petrolio russo importato dall’Italia e gli affari con l’Azerbajgian
di Andrea Siccardo e Duccio Facchini
Altreconomia, 9 settembre 2024

Nei primi cinque mesi di quest’anno il nostro Paese ha continuato a importare direttamente gas fossile da Mosca, il quinto fornitore per valore economico, aumentando anche le quantità rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. Intanto si rafforza la partnership con l’Azerbajgian, tra i Paesi coinvolti nella rivendita indiretta all’Europa di combustibile russo “mescolato” con quello di terzi.

A inizio settembre, con larga parte dei media italiani impegnati nel “caso Sangiuliano”, la Presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha incontrato a Palazzo Chigi il Presidente della Repubblica dell’Azerbakgian, Ilham Aliyev. Al termine del vertice del 5 settembre le società fossili Eni e Socar hanno anche firmato tre protocolli d’intesa in tema di “sicurezza energetica, della riduzione delle emissioni di gas serra e nella filiera di produzione dei biocarburanti”.

Il comunicato stampa di chiusura del faccia a faccia “conferma” la “natura strategica del partenariato”. Un’intesa fossile che potrebbe portare fino a Mosca.

A due anni e mezzo dall’invasione russa dell’Ucraina, infatti, l’Italia continua a importare gas russo. La circostanza riguarda tutta l’Europa, sia sotto forma di forniture dirette e sia sotto forma di forniture “mescolate” sfruttando le reti di Paesi terzi compiacenti, con buona pace delle sanzioni e del supporto incondizionato all’Ucraina e a Volodymyr Zelens’kyj.

Secondo un’analisi ripresa da Il Sole 24 Ore due giorni prima dell’arrivo di Aliyev a Palazzo Chigi, importanti partner dell’Unione Europea come Azerbajgian e Turchia, o Paesi membri come la Bulgaria o l’Ungheria, starebbero già mescolando, o avrebbero pubblicamente manifestato la disponibilità di farlo, il gas russo con partite diverse per poter così “soddisfare” il fabbisogno europeo. Il tutto a vantaggio però di Gazprom, l’azienda di Stato controllata dal Cremlino, che nel primo semestre 2024 ha triplicato l’utile netto e visto crescere l’export di un quarto rispetto allo stesso periodo del 2023.

Il caso dell’Italia merita un approfondimento. Il Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza energetica (Mase) pubblica mensilmente i dati aggiornati su importazioni, esportazioni, consumi e produzione interna di gas. Nei primi sei mesi del 2024 (gli ultimi dati disponibili) l’Italia ha importato 30,2 miliardi di metri cubi equivalenti (Smc) di gas fossile contro i 32,4 della prima metà del 2023 a fronte di un consumo interno anch’esso in leggero calo.

Il primo punto di ingresso del gas è sempre Mazara del Vallo (TP) in cui sono transitati ufficialmente 10,7 miliardi Smc contro gli 11,4 miliardi del 2023, il 5,6% in meno. Nella città siciliana arriva infatti il gasdotto Transmed che collega l’Italia all’Algeria, il primo fornitore di gas del nostro Paese, soppiantando proprio la Russia.

I flussi in ingresso dal valico di Tarvisio (UD), storico snodo delle importazioni russe di gas da Nord-Est, hanno visto invece una leggera ripresa, con 2,72 miliardi di Smc contro i 2,18 dell’anno precedente e con un aumento del 200% nel solo mese di giugno. Dati largamente inferiori rispetto a prima della guerra in Ucraina, dove quello di Tarvisio era il primo punto d’ingresso di gas fossile in Italia con 14 miliardi di Smc solo nei primi sei mesi del 2021. Infine, un terzo valico di grande importanza è quello di Melendugno (LE), punto di arrivo del Trans Adriatic Pipeline (Tap) che porta in Italia il metano proprio dall’Azerbajgian, il secondo fornitore del nostro Paese. Il Tap sbuca in Salento passando per la Grecia, l’Albania e il mare Adriatico. A gestirlo è la Tap Ag, i cui azionisti sono Bp, Socar, Snam, Fluxys ed Enagás, con il 20% ciascuna.

I soli dati forniti dal Mase non sono però sufficienti a stabilire se l’Italia abbia aumentato e di quanto le proprie importazioni di gas da Mosca. Informazioni più precise sui Paesi di provenienza le fornisce allora la banca dati dell’Istat sul commercio estero che raccoglie anche le rilevazioni sull’import-export di gas fossile effettuato dall’Italia negli ultimi anni e nei primi cinque mesi del 2024.

A partire dal 2022 gli acquisiti dalla Russia sono scesi ma non si sono mai azzerati. Al contrario, considerando anche l’inizio del 2024, il Cremlino rimane il quinto fornitore del nostro Paese. Nel 2021 la Russia era infatti il primo fornitore per spesa (pari a dieci miliardi di euro) e per quantità (misurata in 20 miliardi di chilogrammi) ma dal 2022 in poi ha cominciato a diminuire drasticamente. In quell’anno infatti l’Istat censisce “solo” otto miliardi di chilogrammi di gas di provenienza russa. Ma a causa dei prezzi record legati alla speculazione finanziaria quella spesa è paradossalmente aumentata, raggiungendo così i 13 miliardi di euro. Il calo prosegue nel 2023 quando le entrate di gas russo raggiungono il “minimo” di poco più di un miliardo di euro.

Ma i primi cinque mesi del 2024 mostrano la Russia al quinto posto in valore monetario dietro Algeria (3,8 miliardi di euro), Azerbaigian (1,3 miliardi), Qatar (841 milioni) e Stati Uniti (762 milioni). Mosca con 742 milioni di euro di valore importato dall’Italia è davanti a Norvegia (658 milioni), Libia (245 milioni) e Olanda (153 milioni). E in termini quantitativi fa segnare una crescita sullo stesso periodo del 2023: 1,6 miliardi di chilogrammi contro 1,4 miliardi. Quella del “gas naturale” è perciò ancora oggi per distacco la prima categoria merceologica russa importata dal nostro Paese.

Ma c’è un pezzo ulteriore. Come segnala Sissi Bellomo su Il Sole 24 Ore, il gas proveniente dalla Russia può raggiungere i Paesi europei – e quindi pure il nostro – anche in modo indiretto. “Mescolare le forniture russe ad altre di origine diversa, per poi smerciarle in Europa, non è difficile sfruttando reti di trasporto di Paesi compiacenti ed eventuali contratti di swap”, scrive Bellomo. E Mosca starebbe portando avanti trattative con Turchia, Bulgaria, Azerbajgian e Ungheria per distribuire ulteriore gas in Europa, mescolandolo con quello di Paesi terzi. Il Presidente azero Aliyev avrebbe dichiarato pubblicamente a luglio di quest’anno che la richiesta di distribuire gas russo sarebbe arrivata non solo da Mosca ma anche da “autorità ucraine e dell’UE”. E avrebbe aggiunto: “Se possiamo aiutare lo faremo”.

Questa partita miliardaria interessa da vicino anche l’Italia, considerando che proprio l’Azerbajgian, dove si terrà paradossalmente la prossima Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (Cop29, nella capitale Baku), è il nostro secondo fornitore di gas dietro l’Algeria. Un ruolo chiave e materiale nell’import lo svolge anche la Azerbaijan Gas Supply Company limited: secondo gli ultimi dati dell’Autorità di regolazione per energia reti e ambiente (Arera), infatti, l’azienda azera domiciliata nel paradiso fiscale delle Cayman è, attraverso il Tap, la terza impresa importatrice di gas in Italia nel 2023 dietro solo a Eni ed Edison -che da sole assorbono il 50%- contribuendo per ben il 14% del totale. Affare fatto.

La faccia come l’Azerbajgian
di Marco Palombi
Il Fatto Quotidiano, 7 settembre 2024

Forse non tutti i lettori sapranno che da un paio di giorni l’Italia ha il dubbio onore di ospitare il Presidente dell’Azerbajgian Ilham Aliyev: ricevuto a Palazzo Chigi, ospite del Forum di Cerbobbio, il Capo di Stato centroasiatico – che solo gente di bocca davvero buona potrebbe definire democratico – è stato ricevuto con tutti gli onori e qualcuno in più, come si conviene a un uomo che, ci dicono i media, ha aiutato l’Europa a sostituire il metano russo grazie al gasdotto Tap che arriva in Puglia e ai collegamenti via tubo con la Turchia (non a caso, già che Aliyev girava per l’Italia, la società energetica statale azera Socar ha firmato un accordo di collaborazione con Eni).
Quel che magari si dice meno è che Aliyev, insieme al collega turco Erdoğan, è il maggiore “riciclatore” di gas russo al mondo: prendiamo l’espressione da un articolo apparso sul sito del think tank britannico Chatham House, vicino al governo di Londra e ben introdotto negli ambienti Nato. Fin dal 2022, per dire, quando l’UE ha iniziato a ridurre l’import di metano da Mosca e a cercarne altro in giro, il governo di Baku ha attivato un protocollo siglato l’anno prima con Gazprom per le forniture di gas, che poi ci viene gentilmente venduto: è un fatto noto perché le riserve e la capacità produttiva dell’Azerbajgian sono limitate e aumenti delle consegne del 60-80% in pochi mesi sono stati possibili solo grazie al metano di Putin. Quello che fin qui potremmo definire un ipocrita compromesso tra propaganda e realtà rischia a breve di sfondare il muro del ridicolo, forse pure della malafede: a fine anno scade l’accordo UE-Ucraina-Russia per il transito del gas verso l’Europa e ora Aliyev conduce le trattative per il difficile rinnovo. L’ideona europea è che l’accordo sia UE, Kiev e Baku, che a sua volta s’accorda con Putin per immettere gas azero nei tubi russi che attraversano l’Ucraina, visto che c’è sempre quel problema di riserve e capacità produttive è facile immaginare che il metano sarà ancora russo, ma col passaporto azero. “Sono abbastanza ottimista su un’intesa”, ha detto Aliyev a Cernobbio. In pubblico eh, mica avrete pensato che questa è una notizia riservata? Per carità, è solo una notizia nascosta in bella vista.

Nessuna voce critica è ammessa da Aliyev
Azerbajgian verso il totalitarismo
di Camillo Bosco
La Ragione, 29 agosto 2024

Era sorta la speranza che la vittoria dell’Azerbajgian contro gli indipendentisti Armeni del Nagorno-Karabakh, costretti nell’ottobre del 2023 a un umiliante esodo di più di 100mila persone (dopo mesi di assedio mascherato da manifestazioni ambientaliste), potesse spingere questo Paese a maggioranza islamica del Caucaso a uscire dalle sue logiche antidemocratiche. La sconfitta cocente della guerra contro l’Armenia del 1994, che aveva in pratica raddoppiato il corridoio di terra armeno verso l’Iran, era stata infatti “vendicata” dal Presidente Ilham Aliyev e tanto poteva bastare all’orgoglio nazionale azero.

Purtroppo invece il ripristino dei confini internazionali dell’Azerbajgian sembra aver portato l’attenzione del governo Aliyev contro i presunti nemici interni, parecchio rari già prima della vittoria. La campagna di intimidazione di giornalisti, analisti e – più in generale – qualsiasi voce sgradita (in corso da tempo) si è intensificata a livelli da far invidia alla Cina. Persino leggendo i giornali di Mosca, e in questo sono illuminanti le rassegne stampa dell’inviato BBC Steve Rosenberg, si capisce come fra le righe sia tollerata qualche forma di critica (certo sempre suggerita dietro un muro di parole, nella modalità di comunicazione preferita dai Russi).

La stretta di Aliyev sui media appare dunque asfissiante e totalitaria: secondo l’organizzazione Reporters Without Borders il settore dei media è interamente sotto il controllo statale, corrispondente ai voleri del Partito del Nuovo Azerbajgian (una vera e proprio entità politica “pigliatutto” nel panorama rappresentativo azero). Non ci sono tv o radio indipendenti. Semplicemente non esistono. I quotidiani critici sono stati chiusi o non trovano tipografie. Online, si salvano dalla censura Azadliq” e Meydan TV perché fondati in Paesi terzi. Soltanto dal gennaio di quest’anno sono stati arrestati tredici giornalisti e un professionista legato al mondo dell’informazione, spesso con accuse penali infamanti e distanti dal loro lavoro.

A questi, andrebbero aggiunti gli attivisti come Bahruz Samadov. Un Azero dottorando presso la Charles University di Praga che è stato prima arrestato con l’accusa di possesso di droga, aggiornata poi in tradimento. Samadov è molto giovane, ma non gli è mai mancato il coraggio di esprimere le sue critiche contro il regime di Aliyev e atti brutali come la reintegrazione del Karabakh. Arresti che colpiscono trasversalmente la rete di liberi pensatori dell’Azerbajgian, con le richieste di testimonianza. Cavid Ağa, un altro analista azero della minoranza albano caucasica, è stato fermato all’aeroporto mentre si stava imbarcando per iniziare un percorso di studi all’Università di Vilnius in Lituania. Un arresto giustificato dal bisogno di dover portare la testimonianza di Ağa al processo contro Samadov e che, oltre a essere avvenuta in modalità intimidatorie, ha fatto sfumare la collaborazione tra il ricercatore e l’istituto europeo.

Prima Aliyev venne per gli Armeni, poi per i giornalisti, ora per gli studiosi. Neanche a un povero dottorando è concesso l’esercizio di critica, men che mai all’estero. Una situazione di mancanza di libertà in costante peggioramento mentre l’Azerbajgian gioca a far l’amico dell’Europa inviandoci gas, di cui una quota è fornita indirettamente dal Cremlino tramite gli storici gasdotti caucasici (aggirando quindi le sanzioni). Fra i due litiganti, la Russia e l’Occidente, è quindi il furbo Aliyev a godere di un potere assoluto che permetterà a questo figlio d’arte (suo padre fu Presidente prima di lui) di assicurare la permanenza della sua dinastia alle redini dell’Azerbajgian.

Ecco come l’Europa sostituirà il gas russo con quello proveniente dall’Azerbajgian
di Antonino Neri
Energia Oltre, 18 giugno 2024

Baku di recente ha firmato degli accordi per il transito di gas dal Turkmenistan all’Europa e per espandere i collegamenti con i Paesi dell’Europa centrale e sudorientale

Una revisione degli accordi di fornitura di gas naturale sta guadagnando slancio in tutta l’Eurasia. La Russia – che dall’inizio della guerra in Ucraina ha visto crollare le esportazioni verso l’Europa – ora è intenzionata ad espandere le forniture all’Asia centrale. Nel frattempo, l’Azerbajgian sta facendo progressi nel sostituire il gas russo per soddisfare le esigenze dell’Unione europea.

La dipendenza dei paesi europei dal gas russo

L’invasione della Russia in Ucraina ha spinto i Paesi UE a ridurre la loro dipendenza dal gas di Mosca. Le esportazioni russe verso l’Europa sono scese dai 155 miliardi di metri cubi del 2021, l’anno prima dell’invasione, a soli 43 miliardi di metri cubi dello scorso anno. Finora i Paesi membri dell’Unione Europea hanno compensato la diminuzione russa attraverso una combinazione di maggiori volumi di GNL importati via nave e un aumento della produzione da altre fonti energetiche. Brussel ha inoltre raggiunto un accordo con l’Azerbajgian per raddoppiare le esportazioni di gas azero verso l’Europa ad almeno 20 miliardi di metri cubi all’anno entro il 2027.

I piani di espansione delle esportazioni del Paese caucasico sembrano finalmente concretizzarsi, poiché Baku di recente ha firmato degli accordi per il transito del gas dal Turkmenistan all’Europa e ha concluso nuovi accordi per espandere i collegamenti con i Paesi dell’Europa centrale e sudorientale.

L’importanza del giacimento azero di Shah Deniz

Probabilmente – scrive David O’Byrne su Oilprice -, lo sviluppo più significativo è la decisione della società statale ungherese MVM di acquistare una partecipazione del 5% nell’enorme giacimento di gas Shah Deniz dell’Azerbajgian, una mossa annunciata a inizio giugno, durante la Settimana dell’Energia di Baku. MVM ha già in essere due accordi per importare gas azero. Ora, con una partecipazione in Shah Deniz, la compagnia ungherese diventa l’unico azionista che acquista anche gas dal giacimento, creando un importante legame tra produttore e consumatori. Aumentando la dipendenza dalle importazioni da Baku, Budapest sta anche segnalando un allontanamento dalla Russia. L’Ungheria dipende da tempo dalla Russia come principale fonte di gas, poiché il governo di Viktor Orbán si è opposto all’imposizione delle sanzioni europee a Mosca.

Le forniture attraverso il gasdotto Tap

Significativa è anche la notizia che l’Azerbajgian ha raggiunto un accordo con l’Albania per fornire 200 milioni di metri cubi all’anno di gas a partire dal 2026. Il gas arriverà attraverso il Gasdotto Trans-Adriatico (TAP), che attualmente ha una capacità di circa 10 miliardi di metri cubi l’anno, ma che necessita di una forte espansione per soddisfare i crescenti impegni di esportazione di Baku verso gli Stati europei.

Ad oggi i proprietari del gasdotto, tra cui l’Azerbajgian, si sono impegnati solo ad aggiungere ulteriori 1,2 mmc di capacità annua, lamentandosi di non poter investire le ingenti somme richieste, senza avere l’impegno anticipato da parte degli acquirenti europei per l’acquisto di ulteriori volumi di gas. L’importo da fornire all’Albania può essere relativamente piccolo, ma segna un passo verso la piena attuazione del piano di espansione del TAP.

Il progetto del “corridoio verticale” del gas

Un’altra iniziativa per facilitare le consegne di gas azero, il cosiddetto “Corridoio Verticale”, sta andando avanti ad un ritmo più rapido del previsto. Il corridoio prevede l’espansione di una rete di gasdotti nell’Europa sudorientale, con la Bulgaria che funge da hub che collega Grecia, Moldavia, Romania, Turchia e Ucraina.

Il 6 giugno la Bulgaria ha firmato i primi due contratti di costruzione per ampliare la propria sezione del corridoio, e si prevede che l’espansione di altre sezioni avverrà entro la fine del 2024 e all’inizio del 2025.

L’accordo tra Gazprom, Kazakistan e Kirghizistan

Nel frattempo, la Russia sta cercando di recuperare la quota di mercato perduta in Europa rifornendo di gas l’Asia centrale: il 7 giugno scorso, al Forum economico internazionale di San Pietroburgo, Gazprom ha firmato nuovi accordi di fornitura con Kirghizistan e Kazakistan e ha tenuto colloqui con l’Uzbekistan sui futuri piani di fornitura di gas.

L’accordo con il Kirghizistan prevede che la filiale di Gazprom, Gazprom Kirghizistan, venga rifornita di gas russo per 15 anni, a partire dal 2025. Gazprom Kirghizistan, a sua volta, ha firmato accordi per fornire gas a Electric Stations JSC, il più grande fornitore di energia e calore del Kirghizistan, e con Bishkekteploenergo, l’azienda municipale di riscaldamento della capitale kirghisa. I dettagli dei contratti, inclusi volumi e prezzi di acquisto, non sono stati divulgati.

Il ruolo di Russia, Kazakistan e Uzbekistan

Per facilitare le consegne in Kirghizistan, Gazprom ha firmato un accordo con la sua filiale kazaka, NC Qazaqgaz, in base al quale Gazprom espanderà la sua rete di gasdotti esistente in Kazakistan. L’espansione consentirà anche un aumento delle esportazioni di gas verso l’Uzbekistan, che un tempo era un esportatore di gas, ma ora è diventato un importatore netto. Nel 2023 Tashkent firmerà un accordo biennale per l’importazione di gas russo con forniture a partire dallo scorso ottobre.

Le esportazioni attuali e future di gas della Russia verso l’Uzbekistan sono state oggetto di discussioni il 7 giugno che hanno coinvolto l’amministratore delegato di Gazprom, Alexei Miller, e il vice primo ministro uzbeko, Jamshid Khodjaev, insieme al ministro dell’Energia, Jurabek Mirzamakhmudov. Con l’aumento della domanda di gas uzbeko, si prevede che l’accordo di fornitura con la Russia verrà esteso.

Le (reali) possibilità di ritorno in Karabakh degli sfollati Armeni
Ipsionline.it, 13 maggio 2024

A oggi, un Azerbajgian sempre più autoritario e propenso all’umiliazione degli armeni rende la possibilità di un loro ritorno e di una loro reintegrazione in Karabakh pressoché nulla.

Con la guerra di settembre-novembre 2020, l’Azerbajgian aveva riottenuto il controllo su tutte le 7 aree adiacenti al Nagorno-Karabakh (NK), più le aree di Hadrut e Shusha nel NK stesso [1]. Quasi tutti gli Armeni scapparono dalle aree riconquistate dall’esercito azero, ma ci sono anche alcuni documentati episodi di esecuzioni di Armeni rimasti nelle aree riconquistate [2]. Alcune aree del NK, in particolare quella della capitale Stepanakert, rimasero sotto il controllo degli Armeni dell’Artsakh/Karabakh [3]. Con l’operazione militare di settembre 2023, Baku è però riuscita a riconquistare la totalità del Nagorno-Karabakh. Conseguentemente, la quasi totalità degli Armeni rimasti in Karabakh ha deciso di abbandonare la propria terra e casa per recarsi in Armenia, per paura e per non sottostare all’autorità di Baku. Una sorta di pulizia etnica soft. Complessivamente circa 150.000 persone sono ora sfollate, e ci si chiede quali siano le (reali) possibilità che gli Armeni possano tornare in Artsakh/Karabakh.

I (pochi) segnali positivi

Fino al 2016, in cambio della restituzione del Karabakh, il Presidente azerbajgiano Ilham Aliyev aveva proposto la “massima autonomia possibile” per gli Armeni del NK. Tuttavia, il governo non mostrò mai su carta cosa intendesse e cosa avrebbe comportato in pratica questa massima autonomia. Iniziata la guerra nel 2020, Aliyev cambiò idea e disse che si sarebbe limitato ad offrire “autonomia culturale”, oltre che garanzie di sicurezza. Ma anche in questo caso, il governo tenne strette le proprie carte, e non rese pubblico il presunto piano di reintegrazione e autonomia culturale. Dopo il grande esodo di settembre 2023, Baku ha poi creato online un “portale di reintegrazione” per gli Armeni del Karabakh. Essenzialmente, sia le persone sfollate sia i pochissimi rimasti in Karabakh possono fare domanda sul sito per iniziare il processo di reintegrazione in Azerbajgian. Ma di nuovo, non sono chiari né i tempi né la sostanza di questa presunta reintegrazione. Il portale online non aiuta in tal senso, essendo gli ultimi aggiornamenti datati al 4 ottobre 2023.

I (tanti) segnali negativi

Tra la guerra del 2020 e quella del 2023, l’Azerbajgian sembrava aver fatto del suo meglio per rendere l’eventuale ritorno degli Armeni, nelle zone del Nagorno-Karabakh riconquistate con la guerra del 2020, il più umiliante possibile. Per esempio, nel 2021 Aliyev fece costruire ad Hadrut un memoriale ai martiri Azeri con un monumento del suo “pugno di ferro” [*]. Quest’ultimo è il simbolo della nazione azera, unita al suo Presidente, che “scaccia come cani” gli Armeni dal Karabakh. Sempre nella regione di Hadrut nel 2021, Aliyev dichiarò che la locale chiesa medievale armena, la Santa Madre di Dio, era in realtà una chiesa “albano caucasica”, e che tutte le iscrizioni armene ivi presenti erano in realtà falsificazioni aggiunte a posteriori. L’idea essenziale dietro questa (storicamente falsa) propaganda di Stato è che gli Armeni siano giunti nel Karabakh solo nel XIX secolo, appropriandosi così di chiese e retaggio culturale degli Albani Caucasici, i veri abitanti indigeni del Karabakh [4]. La reintegrazione degli sfollati Armeni di Hadrut, in sostanza, prevedeva la loro umiliazione sotto il pugno di ferro scaccia cani (dicasi Armeni), e l’appropriazione del loro retaggio storico culturale.

Dopo la guerra del 2023, la situazione non è migliorata. Il governo azero ha continuato a umiliare il più possibile gli Armeni del Karabakh, onde evitare il loro ritorno. Per esempio, nel novembre 2023 Aliyev ha fatto organizzare e sfilare una parata militare trionfale in una Stepanakert ormai deserta. Sempre a Stepanakert, chiamata “Xankəndi” dagli Azerbajgiani, nel dicembre 2023 il Presidente ha presenziato alla prima partita di calcio post-conflitto, con le tribune dello stadio rifatte  e riportanti la scritta in grande “Il Karabakh è Azerbajgian”. Nel marzo 2024 le autorità azere hanno poi fatto demolire il parlamento dell’ormai estinto Artsakh armeno. Più recentemente, a Shusha hanno anche fatto radere al suolo la chiesa armena di San Giovanni Battista, costruita nel 1818, assieme al cimitero armeno di Ghazanchetsots. Nei pressi di Shusha, hanno quasi completamente livellato l’ormai ex villaggio armeno di Karintak/Daşaltı. Insomma, non si può dire che l’Azerbajgian stia facendo molto per convincere gli Armeni del Karabakh a tornare, sempre che esista ancora una casa o un villaggio a cui tornare.

Silenzio Internazionale, Silenzio Armeno

Se da una parte Baku si adopera per disincentivare il più possibile un ritorno degli Armeni del Karabakh, dall’altra parte sia la comunità internazionale sia il governo armeno stesso non premono sulla questione. Ad aprile 2024, si è tenuto a Yerevan un incontro multilaterale tra la Presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen, il Segretario di stato americano Anthony Blinken, l’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri Joseph Borrell, ed il Primo Ministro armeno Nikol Pashinyan. In quell’occasione l’Unione Europea ha confermato il suo supporto verso l’economia e le istituzioni armene, promettendo 270 milioni di euro per il periodo 2024-2027. L’Unione Europea e gli Stati Uniti hanno anche espresso il loro supporto all’Armenia nel provvedere al benessere degli sfollati armeni ed il loro reintegro (in Armenia). Più recentemente, il Segretario di stato americano Antony Blinken ha reiterato il sostegno americano per un trattato di pace tra Azerbajgian e Armenia.

L’argomento che è completamente assente in tutte queste dichiarazioni è il rientro e reintegro degli sfollati Armeni in Karabakh. La questione sembra essere stata rimossa dall’agenda di Unione Europea e Stati Uniti, gli unici attori internazionali che avrebbero potuto fare pressione sull’Azerbajgian al riguardo. Ma d’altronde anche in passato, prima del grande esodo del 2023, non si erano mostrati particolarmente attenti alla possibile sorte degli Armeni del Karabakh. Nel settembre 2023, per esempio, gli Stati Uniti dichiararono che non avrebbero tollerato la “pulizia etnica” degli Armeni del Karabakh. Una settimana dopo, l’operazione militare dell’Azerbajgian portò alla pulizia etnica “soft” degli Armeni dal Karabakh, senza che Baku subisse alcuna ripercussione americana. L’Unione Europea, d’altro canto, era più interessata ad importare ulteriore gas azero, per compensare la diminuzione di quello russo, piuttosto che alla sorte degli Armeni del Karabakh, come mostra la visita a Baku di von der Leyen nel luglio 2022.

Ma fatto forse ancora più interessante, è che lo stesso Pashinyan non discute più la questione del ritorno degli Armeni in Karabakh né con i partner internazionali né con Aliyev. Il Primo Ministro armeno, infatti, ha di recente apertamente dichiarato che ritiene “non realistico” un ritorno in Karabakh degli sfollati Armeni. Pashinyan, d’altronde, ad aprile 2024 all’Assemblea Nazionale armena, aveva espresso la necessità di focalizzarsi sulla “Vera Armenia”, quella dei territori internazionalmente riconosciuti, abbandonando i romantici sogni della “Armenia Storica”.

In conclusione, la situazione attuale vede un Azerbajgian sempre più autoritario e propenso all’umiliazione degli Armeni; una comunità internazionale disinteressata; ed il Primo Ministro armeno pessimista. In queste condizioni, la possibilità di ritorno e reintegrazione in Karabakh degli sfollati Armeni è pressoché nulla.

[1] Con “Nagorno-Karabakh” si usa intendere l’area del “Oblast Autonomo del Nagorno-Karabakh”, un’area autonoma all’interna della Repubblica Sovietica dell’Azerbajgian. Con “Karabakh”, si usa intendere il Nagorno-Karabakh più le 7 aree adiacenti ad esso che furono occupate dagli Armeni nella guerra del 1988-1994.

[2] L’articolo di Bellingat riporta l’esecuzione, nei dintorni di Hadrut, di presumibilmente due soldati Armeni. L’articolo di The Guardian riporta l’esecuzione per decapitazione, a sud di Shusha, di due anziani Armeni.

[3] Gli Armeni preferiscono l’antica parola “Artsakh” alla parola di origine turco-persiana “Karabakh”.

[4] La controversa teoria degli “Albani Caucasici” nasce con lo storico Azerbajgiano Ziya Bunyadov negli anni 60 e viene successivamente rielaborata da vari altri storici Azerbajgiani, tra cui Farida Mammadova negli anni 80. Benché ne esistono diverse versioni, essenzialmente la teoria sostiene che la vera popolazione autoctona del Karabakh è quella degli Albani Caucasici, popolazione appartenente al ceppo linguistico Caucasico Nord-Orientale. Gli Armeni sarebbero quindi emigrati in Karabakh solo successivamente, presumibilmente nel XVIII secolo, “armenizzando” il già esistente patrimonio storico-culturale degli Albani Caucasici. Benché l’Albania Caucasica sia davvero esistita, ed i suoi discendenti contemporanei sono il popolo Udi, la versione Azerbajgiana della teoria non è accettata dagli storici (fuori dall’Azerbajgian). Per approfondire il tema, si consigliano il libro di Shnirelman (2002) The value of the past: myths, identity and politics in Transcaucasia e il più recente volume di Gippert & Dum-Tragut (2023) Caucasian Albania.

[*] A Stepanakert etnicamente pulita, l’Azerbajgian ha eretto un monumento “Pugno di Ferro” prima di una programmata parata militare con Aliyev – 31 ottobre 2023 [QUI]
Gli Azeri come gli Armeni sono vittime del “pugno di ferro” del regime autocratico e corrotto dell’Assurdistan – 2 novembre 2023 [QUI]
Aliyev con il “pugno di ferro” vuole dimostrare che non ha l’intenzione di lanciare nuovi attacchi militari e guerre contro l’Armenia? – 13 novembre 2023 [QUI]

Addio Russia, avanti Azerbajgian: da chi compra il gas adesso l’Europa
di Paolo Mossetti
Wired, 8 aprile 2024

Addio, Russia. Nel 2023 le importazioni di gas russo in Europa sono crollate: dal 42% del totale nel 2021 al 14% due anni più tardi. In Italia, si è passati da più di 30 miliardi di metri cubi di gas naturale l’anno a meno di tre miliardi di metri cubi nel 2023, il valore più basso dal 1975. Non solo: l’Europa si avvicina alla fine della stagione del riscaldamento con un record storico delle riserve di gas stoccate. I depositi sono pieni al 59%. Queste condizioni, dicono diversi analisti potrebbero far scendere il prezzo in primavera. Insomma, per il secondo anno di guerra consecutivo in Ucraina gli europei non moriranno di freddo.

Stappiamo uno champagne? Non proprio. Bisogna fare un salto indietro nel tempo, al 2010, e vedere Al Bano Carrisi intonare Felicità nella città di Vank, allora parte della Repubblica caucasica de facto autonoma di Artsakh, per capire a chi ci siamo vincolati come Europei per sostituire Mosca. Il cantante si esibisce su un palco modesto, che aveva come sfondo le targhe di auto abbandonate. Sono dalla popolazione azera, sfollata durante la prima guerra del Nagorno-Karabakh (1992-1994) quando l’esercito armeno aveva occupato l’enclave all’interno dell’Azerbajgian tradizionalmente abitato dagli Armeni.

Oggi la Repubblica di Artsakh, detta anche territorio del Nagorno Karabakh, non esiste più, soppressa nel settembre scorso dall’Azerbajgian, in un’operazione di pulizia etnica in piena regola che ha portato all’espulsione di oltre 100mila Armeni, proprio mentre le pjersonalità più rilevanti della Commissione Europea elevavano lo status dell’Azerbajgian a quello di “partner affidabile”. Il motivo? Baku invia aiuti umanitari all’Ucraina ed è diventata una fonte energetica cruciale per la diplomazia di Brussel, impegnata in un percorso di transizione verso fonti rinnovabili che sta portando in piazza i trattori reazionari.

Un alleato imbarazzante

Il bisogno di diversificazione dal gas russo e la ricerca frenetica di nuovi partner per l’import hanno reso il gas azero uno strumento diplomatico di enorme valore, scrive Francesco Sassi, ricercatore dell’ISPI esperto in questioni energetiche e geopolitiche.

Per l’Azerbagian, il congelamento nei prossimi decenni del gas russo è una vera fortuna, che gli ha permesso di stabilire un rapporto sempre più intrecciato non solo con l’Italia, fondamentale partner commerciale, ma anche con alcuni Paesi dell’Europa Orientale, tra cui Bulgaria, Romania e Ungheria, nell’ottica di diversificazione degli approvvigionamenti russi.

Eppure parliamo di un regime autoritario, senza libertà d’espressione, tanto quanto la Russia di Putin. Una dittatura brutale dove numerosi gruppi politici e artistici hanno sospeso tutte le attività in seguito alle pressioni subite, come riportano gli studi di Cesare Figari Barberis, esperto di Azerbajgian e Georgia al Graduate Institute di Ginevra.

L’obiettivo di Baku entro il 2027 è quello di raddoppiare le forniture all’Europa, aumentando i flussi del Southern Gas Corridor, e sostituendo al gas russo avvelenato quello azero, reso presentabile dalla postura geopolitica del suo presidente. Grazie a questa dinamicità diplomatica dell’Azerbajgian, la COP29, la conferenza delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico dell’anno prossimo, si terrà a Baku, scelta dopo mesi di battibecchi e veti, in particolare dalla Russia. L’impasse è stata risolta grazie a un accordo tra Azerbajgian e Armenia che hanno temporaneamente superato la rivalità mortale attorno al Nagorno Karabakh, in attesa di nuovi confronti.

Il gruppo euro-atlantico non sembra turbato né dal fatto che l’Azerbajgian sia un esportatore incallito di combustibili fossili (che costituiscono il 90% dell’export) né il suo alleato che abbia gravissime restrizioni sulla libertà d’espressione – come dimostrato dall’arresto di Gubad Ibadoghlu, un ricercatore critico nei confronti dell’industria petrolifera locale.

In questo contesto, Baku ha deciso di investire anche in notevoli attività di lobbying culturale: nel nostro Paese non mancano intellettuali ed editori disponibili a elogiare il riformismo del Presidente azero Ilham Aliyev, al potere da vent’anni.

Vedere il Presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel, che ha deriso la quinta vittoria alle presidenziali di Vladimir Putin a metà marzo, avere una cordiale conversazione telefonica con Aliyev per la sua ennesima vittoria in elezioni-farsa (certificate da quelli che delle ong hanno definito “fake observers”) oppure leggere il Presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, congratularsi con l’uomo forte di Baku nella stessa occasione, sono tutti duri colpi alla retorica sull'”ordine liberale”.

Sono anche il sintomo, forse, del brutto momento del fronte anti-Putin, incapace di fare troppo lo schizzinoso con i nuovi amici che si è creato.

A preoccupare gli osservatori c’è piuttosto la minaccia, da parte di Baku, di complicare il processo di pace con l’Armenia e addirittura di usare la forza per rimpossessarsi di otto villaggi di frontiera un tempo appartenuti al Azerbaigian sovietico. La logica vorrebbe che Aliyev non scherzi troppo col fuoco, sia considerato il buon momento del suo rapporto con l’Ue, sia il fatto che l’Ue ha preso a cuore l’Armenia in chiave anti-russa.

Tuttavia, l’appoggio a Baku della Turchia e il ruolo di mediatore ambiguo della Russia, interessata a spingere il Caucaso lontano dall’Occidente, potrebbero rendere in futuro la posizione di Aliyev sempre più imprevedibile: una forza regionale capace di ricattare l’Europa, come una Turchia in miniatura.

Le ambizioni di Baku

L’Azerbajgian si sta godendo per ora il suo ruolo di alleato-chiave, approfittando di quella realpolitik che porta l’Unione Europea a rivolgersi a chiunque le possa servire a riscaldarsi, senza andare troppo per il sottile. Non va dimenticato come una quota rilevante di transito del gas russo verso l’Europa dell’Est e Centrale passa ancora attraverso l’Ucraina, a un ritmo di 35-40 milioni di metri cubi al giorno, anche se i volumi sono stati ridotti a circa un terzo dei livelli prebellici.

Il mero fatto che questi flussi di transito persistano durante la guerra, e possano essere tagliati da Mosca come vendetta per gli attacchi ucraini alle raffinerie russe, costringe i leader europei a non dormire sugli allori.

Intanto, gli introiti accresciuti regalano a Baku anche il lusso presentarsi come un Paese con ambizioni green: ha ratificato l’Accordo di Parigi nel 2016, impegnandosi a ridurre le emissioni del 30% entro il 2030, e sta investendo significativamente nelle energie rinnovabili, inclusi parchi eolici nel Caspio e idrogeno verde. Nel lungo termine, l’Azerbajgian ambisce a diventare un hub cruciale sia per le forniture di elettricità e gas naturale verso l’UE, con progetti come la costruzione di un cavo sottomarino nel Mar Nero, supportato anche dalla Presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen, simbolo, come scrive Francesca De Benedetti, di un neoliberalismo che ha rimosso qualsiasi “cordone sanitario” contro l’estrema destra, e che questa anzi l’ha pienamente integrata.

Che tutto questo sia compatibile o meno con gli slogan su diritti umani e stato di diritto di cui si è riempita la bocca l’UE negli ultimi due anni, sembra al momento secondario.

Gas russo tramite l’Azerbajgian: interrogativi scomodi per l’Europa
Un accordo largamente osannato tra Baku e Brussel aveva lo scopo di liberare l’Europa dal gas russo. Ma se ora è l’Azerbajgian a importare gas russo per rispettare gli impegni presi nei confronti dell’Ue?
di David O’Byrne
Eurasianet, 22 novembre 2022

L’Azerbajgian ha iniziato a importare gas dalla Russia in base ad un accordo che dovrebbe consentire di soddisfare la propria domanda interna, ma che solleva seri interrogativi sul recente accordo sottoscritto da Baku per incrementare le esportazioni verso l’Europa.

Gazprom, l’azienda statale che produce ed esporta il gas russo, ha annunciato il 18 novembre scorso di aver iniziato a fornire gas alla società statale del gas dell’Azerbajgian Socar il 15 novembre, per un totale fino ad un miliardo di metri cubi da qui a marzo 2023.

Né il Ministero dell’Energia dell’Azerbajgian né la Socar – interrogati a proposito da Eurasianet – hanno confermato l’accordo i cui dettagli rimangono poco chiari.

In una dichiarazione all’agenzia di stampa azera APA, Socar ha affermato di collaborare da tempo con Gazprom e che le due società “stanno cercando di ottimizzare la loro infrastruttura organizzando lo scambio reciproco di flussi di gas”.

L’accordo è stato firmato poco prima del periodo di picco della domanda di metà inverno: l’Azerbajgian cercherà di mantenere le forniture ai suoi clienti nazionali di gas rispettando anche i propri impegni di esportazione verso Georgia e Turchia, nonché il commercio recentemente ampliato con l’Europa.

Le esportazioni verso l’Ue attraverso il Corridoio meridionale del gas (Southern Gas Corridor) erano state programmate per raggiungere i 10 miliardi di metri cubi quest’anno, ma in base ad un nuovo memorandum d’intesa con l’Unione Europea firmato a luglio, Baku ha accettato di aumentare le esportazioni a 12 miliardi di metri cubi.

Tale aumento aveva lo scopo di aiutare Brussel a compensare la perdita di forniture di gas russo, tagliate da Mosca come rappresaglia per le sanzioni imposte in seguito all’invasione russa dell’Ucraina.

Sebbene l’accordo sia stato molto pubblicizzato sia a Brussel che a Baku, non è mai stato chiarito da dove sarebbe arrivato esattamente il gas extra.

I problemi con gli impegni presi sono emersi già a settembre, quando il Ministro dell’Energia dell’Azerbajgian Parviz Shahbazov ha annunciato  che quest’anno il paese avrebbe esportato in Europa solo 11,5 miliardi di metri cubi, senza dare alcun indizio sul perché l’obiettivo di esportazione si fosse ridotto.

Una fonte vicina al consorzio proprietario del gigantesco giacimento di gas di Shah Deniz in Azerbajgian, che attualmente fornisce tutto il gas esportato dal paese, ha confermato a Eurasianet che non sono stati conclusi nuovi contratti di esportazione e che il giacimento è attualmente impegnato solo per la fornitura dei 10 miliardi di metri cubi preventivamente concordati.

Ora, la notizia che l’Azerbajgian importerà gas dalla Russia quest’inverno suggerisce che Baku intende utilizzare il gas russo per rifornire il proprio mercato interno al fine di liberare gas per adempiere all’impegno con Brussel.

Le sanzioni imposte dall’Unione Europea alla Russia non si applicano all’Azerbajgian, che resta libero di importare quanto gas russo vuole.

Tuttavia, il nuovo accordo contravviene all’intenzione politica dell’accordo di luglio, specificamente concepito per aumentare le esportazioni di gas dell’Azerbajgian verso l’Europa in modo da aiutare l’UE a ridurre la dipendenza dal gas russo.

Implicazioni a lungo termine

Il fatto che sia Mosca ad agevolare parte di queste importazioni dell’Azerbajgian suggerisce che gli sforzi di diversificazione di Brussel potrebbero essere vani, e non solo a breve termine.

In base all’accordo firmato a luglio, Baku ha anche accettato di raddoppiare le esportazioni attraverso il Corridoio meridionale del gas fino a raggiungere i 20 miliardi di metri cubi all’anno entro il 2027, il massimo che la rete di gasdotti esistente può trasportare.

Tale aumento sarà costoso e richiederà tempo per essere realizzato, richiedendo sia l’aggiunta di nuovi compressori ai gasdotti esistenti sia enormi investimenti nei giacimenti di gas dell’Azerbajgian per produrre il gas necessario.

Al momento non è stato deciso alcun investimento per espandere i tre gasdotti che compongono il Corridoio meridionale del gas che trasporta il gas verso l’Europa, mentre rimangono dubbi sulla provenienza degli ulteriori 10 miliardi di metri cubi di gas all’anno.

BP ha confermato all’inizio di quest’anno che il gigantesco giacimento di gas di Shah Deniz che gestisce non è in grado di fornire tutti gli ulteriori 10 miliardi di metri cubi richiesti.

L’Azerbajgian ha alcuni altri piccoli giacimenti di gas, ma la loro produzione non dovrebbe essere sufficiente nemmeno per soddisfare l’impegno di Baku verso Brussel, e ciò rafforza l’idea che il gas dovrebbe provenire da altri Paesi della regione.

Ciò ha ravvivato le antiche speranze che l’Azerbajgian possa far transitare sul suo territorio il gas del suo dirimpettaio sul Caspio, il Turkmenistan, che vanta le seste maggiori riserve di gas del pianeta.

Le relazioni tra Baku e Ashgabat sono notevolmente migliorate negli ultimi anni, culminando in un rivoluzionario accordo di scambio di gas a tre vie con l’Iran nel dicembre 2021, in base al quale il Turkmenistan si è impegnato a fornire tra 1,5 e 2 miliardi di metri cubi di gas l’anno all’Iran nord-orientale e l’Iran nord-occidentale fornirebbe una quantità analoga di gas all’Azerbajgian.

Ampiamente osannato come un raro e notevole esempio di cooperazione regionale, quell’accordo era stato visto come una possibile fonte a breve termine di gas extra per l’Europa.

Tuttavia, lo stato attuale dell’accordo non è chiaro. L’inaspettata necessità dell’Azerbajgian di importare gas russo fa sorgere il sospetto che tale accordo possa essere caduto vittima del deterioramento delle relazioni tra Baku e Teheran.

Esistono altre opzioni per fornire gas turkmeno all’Europa: i funzionari Turchi hanno confermato a luglio che Ankara ne stava esaminando tre per il transito del gas turkmeno consegnato dall’Azerbajgian attraverso il Corridoio meridionale del gas verso l’Europa.

Si ritiene che una di queste opzioni sia un progetto sostenuto dagli Stati Uniti per convogliare il gas da alcuni giacimenti petroliferi del Turkmenistan da dove potrebbe essere esportato.

Tuttavia, senza notizie di progressi su nessuna delle possibili opzioni, si fa strada la possibilità che, come per il suo impegno di consegnare 12 miliardi di metri cubi di gas all’Europa quest’anno, l’Azerbajgian possa non essere in grado di mantenere nemmeno la promessa di raddoppiare le esportazioni a 20 miliardi di metri cubi entro il 2027.

Foto di copertina: il Presidente del Consiglio dei Ministri, Giorgia Meloni, riceve a Palazzo Chigi il Presidente della Repubblica di Azerbajgian, Ilham Aliyev.

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