Il vino sulla tavola è l’equivalente delle croci visibili in cima ai campanili e nelle campagne d’Europa. L’esempio di Artsakh nell’autunno 2020

Condividi su...

Brussel sbaglia a repudiare di nuovo le radici cristiane. Dietro la battaglia commerciale dell’Unione Europea sul vino, l’ennesimo tentativo di rinnegare una storia millenaria, sempre più sulle orme dell’Islam. Quando nell’autunno del 2020, gli invasori islamici dell’Azerbajgian, coadiuvati da Turchi e da mercenari jihadisti siriani si presero l’80 per cento dell’Artsakh/Nagorno-Karabakh fu di distruggere la culla preziosa del vino atavico, prodotto avendo ridato salute ai vitigni primigeni, nella provincia di Hadrut, vicino all’antico monastero Katarovank. Si sono meritati la cittadinanza onoraria dell’Unione Europea.

[Korazym.org/Blog dell’Editore, 25.01.2023 – Renato Farina] – Scrivere sulle etichette che «il vino nuoce alla salute», oltre che essere una tipica calunnia da beoni Irlandesi di Guinness, è un chiaro segno di sottomissione all’Islam e alla Coca Cola. Un piccolo passo per l’Irlanda verso l’idiozia ma un grande balzo dell’Europa verso il suo stesso rinnegamento. Dopo aver estirpato le radici giudaico-cristiane dalla costituzione, adesso si passa al pratico: è in corso la character assassination del vino che Gesù Cristo ha proposto ai discepoli come bevanda in realtà “transustanziata” nel suo stesso sangue. Il Vangelo racconta che il Nazareno di questo «frutto della vite e del lavoro dell’uomo» ne regalò con il suo primo miracolo damigiane agli sposi di Cana. Il Ministro dell’Agricoltura, Francesco Lollobrigida, ha fotografato la situazione con ironia dolente: una «scelta gravissima», ha detto, aggiungendo che si accusa Gesù di aver provato «ad avvelenare», su istigazione di sua Madre, i convenuti alle nozze.

Questo caso fa capire perché la dizione del dicastero di Lollobrigida contempli la «sovranità alimentare». Quello dell’Irlanda non rappresenta soltanto un atto di sabotaggio economico, che c’è e resta comunque una rottura della presunta fraternità europea, un’aggressione culturale e simbolica all’identità dei Paesi mediterranei, una provocazione ideologico-salutistica per conto dei Paesi del Nord che assistono silenti e contenti a questo agguato da falsari del gastronomicamente corretto. Da sempre, proibire o imporre cibo e bevande, è tipico del potere religioso che si affianca a quello politico, fino a confondersi con esso. L’Islam insegna.

Questione di civiltà

Brussel sta tomando a prima della rivoluzione portata dal cristianesimo: «Restituite a Cesare quel che è di Cesare, e a Dio quel che è di Dio». Cesare a Brussel si è allargato, e adesso stabilisce anche il menu e i tabù. Se l’Unione Europea non blocca questa scorreria piratesca del Nord, Italia Francia e Spagna sono prontissime a brandire le spade della guerra commerciale. Utile a tutelare il fatturato, ma legittima difesa della propria essenza.

Il vino storicamente e simbolicamente coincide con la civiltà che ci viene dalla tradizione cristiana. Il termine «civiltà» infastidisce, ha qualcosa di monumentale e retorico. Innaffiarla di vino aiuta a farla scendere dal cavallo delle parole di marmo, e comunica l’idea di un gusto della vita, di una convivialità che attraversa i sentimenti profondi dei popoli biblici e latini; è la linfa che sgorgata biblicamente dalle pendici dell’Ararat, ha irrorato le opere e i giorni del popolo ebraico, indi di quello greco e romano, ed infine fornendo nei vigneti profumati vicino ai monasteri benedettini di tutta Europa. È vero che i monaci conservarono i classici, ricopiando e le pergamene, ma raccolsero e svilupparono l’arte della viticoltura.

Il vino sulla tavola è l’equivalente delle croci visibili in cima ai campanili e nelle campagne d’Europa. Puoi essere astemio, ritenerti ateo, ma questi elementi sono come le campane per Oriana Fallaci. Sono la patria, il suono dei padri e dei figli.

Poche storie, è così. Il vino, con la sua prima ebbrezza, fu inventato e apprezzato da Noè. Questa meraviglia accadde – lo documenta l’archeologia – proprio in Caucaso, sulle falde del monte Ararat (oggi nei confini della Turchia), dove si posò l’Arca e si svilupparono i vitigni. La Georgia rivendica la primogenitura, in contesa con gli Armeni che da secoli ne ottengono un brandy che è meglio del Cognac, e ha proprio il nome di Ararat. Amatissimo da Winston Churchill che lo riteneva elisir di giovinezza insieme ai sigari Havana.

L’esempio armeno

Gli Armeni – il primo popolo cristiano della storia, convertitosi al Vangelo dal 303 – furono invasi da Mongoli, Persiani, Turchi, orde di ogni genere. Usando forza e intelligenza, ingenuità e astuzia, preservarono il vino e la fede, non necessariamente in quest’ordine, ma di sicuro insieme. Uno dei primi atti degli invasori islamici, quando nell’autunno del 2020, si presero l’80 per cento del Nagorno-Karabakh (si traduce: il Giardino della Montagna Nera, in armeno Artsakh) fu di distruggere la culla preziosa del vino atavico, prodotto avendo ridato salute ai vitigni primigeni, nella provincia di Hadrut, vicino all’antico monastero Katarovank. I soldati dell’Azerbajgian, coadiuvati da Turchi e da mercenari jihadisti, hanno sfasciato botti, rovesciato i tini, divelto i vitigni. Bisognerebbe dare a costoro la cittadinanza onoraria dell’Unione europea. Se la sono meritata, non è vero?

Questo articolo è stato pubblicato oggi su Libero Quotidiano.

Postscriptum

Di quanto raccontato dall’amico e collega Renato Farina su vitigni di Artsakh, abbiamo scritto il 31 gennaio 2021 [QUI], raccontando la storia del vino Kataro, fino all’arrivo dei barbari, con la drammatica fine dell’azienda vinicola Kataro nel Hadrut:

«La guerra di aggressione contro la Repubblica di Artsakh/Nagorno Karabakh messo in atto a fine settembre 2020 dall’Azerbajgian, con il decisivo sostegno militare della Turchia e delle milizie jihadiste trasportati dalla Siria, non ha lasciato soltanto una scia di sangue e distruzioni dopo 44 giorni di violenti combattimenti e bombardamenti a tappeto sulla popolazione. Non si è fermato neanche alla cancellazione del retaggio culturale ed architettonico cristiano armeno nelle regioni del Giardino della Montagna Nera assegnati agli occupanti azeri-turchi secondo l’accordo di cessato il fuoco. Il tutto nell’assordante silenzio quasi totale delle istituzioni dell’Occidente e dei mainstream media. Gli occupanti islamici azeri-turchi se la sono presi pure con il vino armeno. (…)
Nel sud dell’Artsakh, nella regione di Hadrut al confine con l’Armenia, c’è un antico monastero che domina montagne e gole di pietra, punteggiate da isole di fiori di montagna ed erbe aromatiche autoctone. Situato sopra le nuvole e i nidi delle aquile, questo monastero incarna il desiderio di perfezione e di nobiltà dell’uomo. Si chiama Katarovank. La strada per arrivarci è lunga e ardua e non è un caso che la famiglia Avetissyan abbia chiamato il proprio vino in onore di questo luogo incredibile circondato da una natura magnifica e esposto alle intemperie dai venti caldi. La storia del vino Kataro attraversa generazioni, rivoluzioni, blocchi e guerre. Ma nonostante tutte le svolte del destino, la famiglia Avetissyan era riuscita a preservare e far rivivere i vigneti, così come l’antica tradizione della vinificazione. Clima favorevole, sole soffice, terreno unico ricco di argilla e cure costanti danno vita al vino, che ha assorbito in sé la bellezza e la nobiltà della natura circostante. Finché sono arrivati i barbari…» [V.v.B.].

Foto di copertina: un vigneto nel Hadrut, che non c’è più.

Free Webcam Girls
151.11.48.50