Così Benedetto XVI parlò della “porta oscura della morte”

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[Korazym.org/Blog dell’Editore, 31.12.2022 – Renato Farina] – Impossibile che Benedetto XVI, un Papa così uguale a un alito di primavera, anche se emerito e vecchio finché si vuole, possa morire. Il candore di quella chioma ribelle, nivea più della sua veste, ci è toccato immaginarla spuntare appena dalle lenzuola, con il naso minuscolo e aguzzo di chi è alla fine della vita. È stato Francesco ieri – il successore che pure giovane non è e si fa trasportare in carrozzella – a condurci con parole delicate e tremende davanti al minuscolo gigante bavarese che sta di fronte al grande enigma, là dove le telecamere per fortuna non arrivano. Non sarà risparmiato al 95enne Joseph Ratzinger il passaggio da quella porta oscura, che gettò nell’angoscia Cristo stesso.

Viaggio Apostolico in Terra Santa – Papa Benedetto XVI arriva sul Monte del precipizio a Nazaret, 14 maggio 2009 (Foto di Luca van Brantegem/AP Photo).

«Nell’ora del giudizio
mi diviene chiara
la grazia dell’essere cristiano…»

È accaduto nella tarda mattinata di mercoledì, alla fine della consueta udienza generale. Papa Bergoglio è ai saluti. Nelle prime file dell’Aula Paolo VI sullo schermo appaiono le coppie di sposi sorridenti dopo aver ricevuto la benedizione.

Francesco solleva gli occhi grandi dal foglio. Dice con una voce rasserenata, come se udisse lui solo echi di cori angelici: «Vorrei chiedere a tutti voi una preghiera speciale per il Papa emerito Benedetto, che nel silenzio sta sostenendo la Chiesa. (Vorrei chiedervi di) ricordarlo, è molto ammalato, chiedendo al Signore che lo consoli, che lo sostenga in questa testimonianza di amore alla Chiesa, fino alla fine».

Non dice morte e neanche morire. Non per evitare la crudezza del destino di tutti, Papi compresi, ma perché Benedetto sta ancora lavorando, bisogna rispettare il suo lavoro. Egli, con le spalle gracili, e lo sguardo incantevole, deve svolgere il suo compito invisibile «fino alla fine». Non esiste neppure un secondo della vita di quest’uomo che sia inutile. Fino alla fine, nel silenzio, essa fiorisce come «testimonianza di amore alla Chiesa». Sono stato incerto se amputare le dolci parole di Francesco dell’oggetto di questo amore: la Chiesa. Amare la Chiesa? Ma che cosa c’entra con i nostri affanni quotidiani di gente post-moderna? Quella parola (la Chiesa) sembra spingere lontano da noi, chiudendolo in sacrestie anchilosate, quello scricciolo indifeso di Papa, che ci piace pensare seduto in panchina, nei giardini vaticani, a sostenerci misteriosamente bucando con gli occhi dell’anima le mura leonine, le burocrazie curiale, ed entrando così nelle nostre case qualche volta gioiose e più spesso tribolate. Accidenti, la Chiesa è un mistero, è Dio-con-noi, la compagnia di Gesù negli affanni delle ore importanti e di quelle annoiate, ma tutto perché ogni stilla di sofferenza di un bambino innocente abbia senso, non sia perduta in un tombino in Ucraina o in un ospedale della Bassa Padana.

Legando Benedetto XVI alla Chiesa, Francesco cerca di farcela risorgere nel cuore. Essa non sono gli apparati, le carte che si accumulano con note pastorali, relazioni di commissioni, le cui parti più importanti non sono la semplicità dell’amore, la Croce e la Resurrezione, ma sono note a margine, scritte in corpo come bugiardino dell’Aspirina, su cui teologi dogmatici e morali sono pronti a scannarsi a proposito di poteri clericali, laicali, di genere, eccetera. La semplicità dello spegnersi di una candela, in cui si concentra il destino di ciascuno, dei potenti e dei miseri, tutti alla fine povericristi.

Se non si è capito, qui mi rifiuto di confezionare un coccodrillo anticipato, come si chiama in gergo l’articolo dell’addio preconfezionato, da ritoccare con i particolari di cronaca dell’ultima ora. Non ci casco. Già altre volte si era levata la voce di un cardinale amico che chiedeva preghiere attraverso il tam tam dei social per il Papa emerito ormai agli ultimi respiri. Che sia morente non c’è alcun dubbio. Ogni giorno l’olio della sua lucerna si consuma inesorabile, ma faville incandescenti saltano fuori dalle mura silenti del monastero Mater Ecclesiae, e hanno una potenza misteriosa delle cose invisibili. In quel piccolo edificio voluto da San Giovanni Paolo II, che si erge modesto in cima al Colle Vaticano, da dieci anni il Papa bavarese, che ha rinunciato al ministero petrino e a governare la Chiesa, vive le profondità cardiache dell’avventura di un povero cristiano senza potere, come San Celestino, cui si ispirò l’11 febbraio del 2013.

Da allora lì studia e prega come in una comunità monastica del deserto sinaitico. Condivide ogni istante con il fedele segretario Arcivescovo Georg Gänswein e le quattro donne che – senza voti né consacrazioni religiose, ma avendo pronunciato le promesse di verginità povertà e obbedienza, secondo le regole dei Memores Domini di Comunione e liberazione – sfaccendano come Marta e contemplano come Maria. Fino a quando? Fino alla fine. Come capita ai grandi che si spogliano di ogni armatura, i maramaldi delle sacrestie hanno ficcato la lancia nel costato del vecchio Papa, hanno incaricato avvocati in malafede di martellare chiodi e calunnie nelle sue mani di pianista mozartiano, uno, due tre, dieci volte, senza smettere, con ossessione diabolica. Non aveva diritto di tacere, cercare il martirio è un peccato mortale di orgoglio, e a 94 anni e dieci mesi d’età, con la sua grafia microscopica compose una straordinaria «lettera personale», da fratello a fratelli.

La inviò lo scorso 8 febbraio ai fedeli dell’Arcidiocesi di München und Freising. Lì era stato arcivescovo per cinque anni prima di essere chiamato a Roma da Wojtyła; lì ora era vilipeso quale complice omertoso di preti predatori sessuali di minori. Demolì con limpidezza e durezza di diamante le accuse. Ma non è per questo che quello scritto oggi ci insegna tante cose di lui e di come sia possibile oltrepassare la buia soglia senza lasciarsi calpestare dalla paura e dalla solitudine. Nel Cantico dei cantici (8,6) è scritto: «Forte come la morte è l’amore». Ma era l’Antico Testamento. Ora nella Resurrezione l’amore è più forte della morte.

Scrive Benedetto XVI, senza veste, senza paramenti, nella sua nudità di mortale-nato-da-donna: «Ben presto mi troverò di fronte al giudice ultimo della mia vita. Anche se nel guardare indietro alla mia lunga vita posso avere tanto motivo di spavento e paura, sono comunque con l’animo lieto perché confido fermamente che il Signore non è solo il giudice giusto, ma al contempo l’amico e il fratello che ha già patito egli stesso le mie insufficienze e perciò, in quanto giudice, è al contempo mio avvocato (Paraclito). In vista dell’ora del giudizio mi diviene così chiara la grazia dell’essere cristiano. L’essere cristiano mi dona la conoscenza, di più, l’amicizia con il giudice della mia vita e mi consente di attraversare con fiducia la porta oscura della morte. In proposito mi ritorna di continuo in mente quello che Giovanni racconta all’inizio dell’Apocalisse: egli vede il Figlio dell’uomo in tutta la sua grandezza e cade ai suoi piedi come morto. Ma Egli, posando su di lui la destra, gli dice: “Non temere! Sono io…” (cfr. Ap 1,12-17). Cari amici, con questi sentimenti vi benedico tutti».

Si è fatto tardi, lo sappiamo, Papa Benedetto, ma resta ancora con noi.

Questo articolo è stato pubblicato ieri su Libero Quotidiano.

Foto di copertina: Viaggio Apostolico in Portogallo, 12 maggio 2010, Centro Culturale di Belém, Lisboa (Foto di Luca van Brantegem).

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