Guerre, conflitti e tragedie nel Tigrè, nello Yemen, nella Siria e nel Mali. Morti e disperati “lontani”, che non toccano la coscienza dell’Italia e dell’Occidente

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Nel nord dell’Etiopia è in corso una crisi umanitaria, ma potresti non averne letto nelle notizie. In effetti, potresti non aver mai sentito parlare dello Stato regionale nazionale del Tigrè, che è attualmente circondato dalle forze etiopi ed eritree. La guerra in Ucraina ha provocato meno di 3.000 morti ucraine, secondo l’Ufficio per i diritti umani delle Nazioni Unite, mentre il Tigrè ne ha visti almeno 400.000, secondo le stime dei ricercatori dell’Università Statale di Gent.

Infatti, nel Tigrè è in corso una guerra che affoga nel silenzio e un genocidio di cui non si parla, scrive in un articolo pubblicato su TheNation.com che riportiamo di seguito, David Volodzko, un giornalista il cui lavoro è apparso su Foreign Policy, The Wall Street Journal, The New Republic, Bloomberg e Vice, che attualmente vive ad Atlanta.

Segue l’articolo Le guerre dimenticate, non meno feroci di quella in Ucraina, pubblicato il 26 aprile 2022 da LEurispes.it, il magazine edito da Eurispes, a firma di Emilio Drudi e Marco Omizzolo, Analisti dell’istituto di ricerca. Si parla di guerre, conflitti e tragedie nel Tigrè (almeno 400.000 morti), nello Yemen (almeno 380.000 morti), nella Siria (almeno 500.000 morti) e nel Mali (almeno 15.000 morti). I numeri spaventosi di morti, in continuo aumento, e dei disperati ,“lontani”, non toccano la coscienza dell’Italia e dell’Occidente. E ce ne sono tanti altri, in altri parti del mondo. Ma oggi la “coscienza” del pensiero unico e il politicamente corretto riconosce solo il colore giallo-blu.

«Oscurato. Eppure, a ricordarcelo, arrivano ogni giorno, alle porte dell’Italia e dell’Europa, migliaia di profughi in cerca di aiuto. Testimoni disperati degli eccidi, del mondo di morte e sofferenza, a cui sono sfuggiti. Ma forse il punto è proprio qui. Forse l’Italia e l’Europa questi disperati non vogliono vederli» (Eurispes).

«Se non riuscite a dormire a causa del conflitto russo-ucraino ci sono dei consigli su come calmarvi.
Primo: immaginate che stia accadendo in Africa o in Medio Oriente.
Secondo: immaginate che l’Ucraina sia la Palestina.
Terzo: immaginate che la Russia siano gli Stati Uniti» (Sergej Viktorovič Lavrov, Ministro degli Affari Esteri della Federazione Russa).


«Hanno distrutto il Tigrè. Hanno letteralmente distrutto tutto il benessere costruito in trent’anni, bruciato scuole, cliniche, saccheggiato ogni singola casa. E uccidono chiunque incontrino» (Mulugeta Gebrehiwot Berhe, che ricoprì poi incarichi d’alto livello nel governo fino al 2000; in seguito fondò l’Istituto per gli studi su pace e sicurezza all’Università di Addis Abeba; era a Macallè, la capitale del Tigrè, quando scoppiò la guerra e da lì si rifugiò in montagna).

Un ferito di Togoga, un villaggio a circa 20 km a ovest di Macallè, la capitale del Tigrè, arrivato in barella all’ospedale di Ayder a Macallè, nel 2021 (Foto di Yasuyoshi Chiba/Getty Images).

È in corso un genocidio nel Tigrè, ma nessuno ne parla. Le ragioni vanno dalla chiusura di Internet al puro razzismo
di David Volodzko
TheNation.com, 10 maggio 2022
(Nostra traduzione italiana dall’inglese)

Una crisi umanitaria è in corso nel nord dell’Etiopia, ma potresti non averne letto nelle notizie. In effetti, potresti non aver mai sentito parlare dello Stato Nazionale Regionale del Tigrè, che è attualmente circondato dalle forze etiopi ed eritree. Quelle truppe stanno organizzando blocchi, bruciando silos di cibo e andando di villaggio in villaggio commettendo massacri genocidi e stupri.

Se confrontiamo la situazione nel Tigrè con altri conflitti armati in corso, i numeri sono sorprendenti. Guardando alle morti di civili, ad esempio, la guerra in Ucraina ha provocato meno di 3.000 morti ucraine, secondo l’Ufficio per i diritti umani delle Nazioni Unite, mentre il Tigrè ne ha visti almeno 400.000, secondo le stime dell’Università Statale di Gent.

La politica etiope è complessa. La nazione ha cinque partiti parlamentari, 17 altri partiti nazionali e 15 altri partiti regionali. Nel marzo 2020, il Primo ministro etiope Abiy Ahmed ha rinviato al 2021 le elezioni generali fissate per agosto, citando la pandemia di Covid-19. Il governo locale del Tigrè ha definito questo un tentativo incostituzionale di estendere il suo mandato e ha comunque tenuto le elezioni locali. Abiy ha tagliato i fondi alla regione e il Fronte di liberazione del popolo del Tigrè ha risposto attaccando il quartier generale del comando federale a Macallè, la capitale del Tigrè, dopo di che le forze etiopi ed eritree hanno iniziato il loro assedio.

Macellè, la capitale del Tigrè.

Ma la violenza non è solo politica, è anche razziale. C’è un conflitto di lunga data tra i tre principali gruppi etnici dell’Etiopia – Oromo, Amhara e Tigrino – così come il desiderio tra gli Eritrei di regolare un vecchio conto con il Tigrè dopo decenni di conflitto al confine. Le tensioni etniche risultanti hanno portato a violenze che non si limitano al Tigrè. I Tigrini in tutto il Paese affrontano attacchi.

Ahlam “Lala” Mohammed, una studentessa universitaria di 21 anni di Washington, mi ha detto che uno dei suoi familiari è stato assassinato nella capitale Addis Abeba all’inizio di aprile. “Era un Tigrino e, ovviamente, come Tigrino in questo periodo, sei un bersaglio. Quindi tutto ciò che puoi fare è nascondere la tua identità o verrai ucciso”.

Ad essere onesti, alcuni media, come Al Jazeera, hanno fornito un’ampia copertura. Ma non è abbastanza, ed è sminuito dalla copertura dell’Ucraina o del genocidio bosniaco prima di esso. “Non so se il mondo presti davvero la stessa attenzione alle vite di bianchi e di neri”, ha detto a Ginevra il Direttore generale dell’OMS Tedros Adhanom Ghebreyesus, egli stesso un tigrino, in una conferenza stampa tenuta il 13 aprile scorso. “Devo essere schietto e onesto sul fatto che il mondo non tratti la razza umana allo stesso modo. Alcuni sono più uguali di altri”.

“Questo è uno degli assedi più lunghi e peggiori della storia moderna”, mi ha detto recentemente Tedros. “Ci sono 7 milioni di persone isolate dal mondo esterno da 18 mesi. Non parlo con i miei parenti in Tigrè da 18 mesi, perché le telecomunicazioni sono interrotte. Stanno morendo di fame. Ma non posso inviare denaro perché le banche sono chiuse”.

La guerra in Europa è sconcertante per il pubblico occidentale e porta con sé echi della Seconda Guerra Mondiale e della Germania nazista, gli orrori della Shoah e le parole “mai più”. Il Tigrè, nel frattempo, è una terra straniera e sconosciuta, dove può essere difficile discernere chi sono i cattivi. Troppo spesso per i lettori statunitensi ed europei, la reazione al conflitto in Africa o in Medio Oriente è che molti facciano spallucce e dicano: “Quella regione non è sempre in guerra comunque?”.

Naturalmente, un altro motivo per cui i media si concentrano maggiormente sull’Ucraina è la sua importanza geostrategica non solo per l’Europa, ma anche, secondo alcuni, per la democrazia liberale occidentale. Nel Tigray non vi è alcuna minaccia di conflitto nucleare o ripercussioni economiche globali, mentre l’Ucraina fornisce il 12% del grano mondiale e il 17% del suo mais.

Infine, il governo etiope ha interrotto l’accesso a Internet nel Tigrè il 4 novembre, subito prima che scoppiassero i combattimenti, contribuendo ulteriormente alla nostra mancanza di conoscenza di ciò che sta accadendo lì. Il Tigrè è tutt’altro che l’unica regione che è stata tagliata fuori dal resto del mondo in questo modo. Secondo un rapporto del 2021 del gruppo per i diritti civili digitali Access Now, lo scorso anno le autorità hanno interrotto l’accesso a Internet almeno 182 volte in 34 paesi, inclusi 12 Paesi africani. Come in Cina, Russia, Corea del Nord e altrove, il controllo dell’accesso a Internet è un mezzo per limitare la democrazia. Ma il Tigray si trova in una delle peggiori situazioni al mondo. La chiusura più lunga in corso, nelle aree tribali ad amministrazione federale (FATA) del Pakistan, è durata cinque anni e mezzo, seguiti da meno di due anni nello stato di Rakhine in Myanmar e un anno e mezzo nel Tigrè. Tuttavia, come ha osservato Tedros, il Tigrè conta oltre 7 milioni di persone, mentre ci sono solo 5 milioni nelle FATA e 3 milioni nel Rakhine.

Anche solo parlare con i rifugiati rappresenta una sfida, dal momento che Google Translate, ad esempio, non presenta il tigrino, la lingua ufficiale della regione. Asmelash Teka, il creatore tigrino di Lesan (“lingua”), un servizio di traduzione online per il tigrino, mi ha detto in inglese: “È stato molto difficile condividere le storie tigrine, perché poche persone parlano la lingua, ma soprattutto, il Tigrè è stato sigillato, quindi le notizie che escono dal Tigrè provengono dai media di Addis Abeba, che sono portavoce del partito al governo. Ci vogliono mesi prima che le grandi società di media raccolgano notizie di massacri o stupri e prestino loro attenzione, se lo fanno”.

Inoltre, anche i dissidenti tigrini che vivono fuori dall’Etiopia e parlano correntemente delle lingue straniere sono riluttanti a parlare per paura di ritorsioni. Meaza Gebremedhin, un’attivista tigrina che vive a Washington, mi ha detto che non solo ha difficoltà ad attirare l’attenzione di qualcuno, ma evita anche i ristoranti etiopi a causa del potenziale pericolo di essere riconosciuta. “Sono stata presa di mira sia online che nella vita reale”, ha detto. “Oltre al sempre crescente cyberbullismo, l’anno scorso a Los Angeles mi è stata puntata una pistola mentre guidavo una protesta pacifica, da un autoproclamato difensore del governo etiope”.

Queste tattiche intimidatorie rendono più difficile per i Tigrini raccontare al mondo le atrocità che si verificano nella loro patria, come il massacro di fino a 800 civili nella Città di Aksum, il 28 e 29 novembre 2020. Il massacro ha a malapena fatto notizia nei titoli dei giornali in Occidente, ma ha cambiato per sempre la vita di persone come Guesh Lisanework, un ingegnere che vive ad Addis Abeba. “Ci sono così tanti amici; persone che sono cresciute con noi, sono state uccise lo stesso giorno della mia famiglia”, ha detto Guesh. Il padre di Guesh, Leake Lisanework, e il fratello, Binyam Lisanework, erano coltivatori di orzo ad Aksum. “Mio padre è colui che mi ha sostenuto per tutta la vita”, ha detto Guesh. “Mio padre, mio fratello, il marito di mia sorella maggiore, il cugino di mia zia e altri due membri della famiglia, Teklay Fitsum e Kibrom Fitsum, sono stati uccisi dalle forze eritree nel nostro Paese di origine”.

Dopo il massacro, i sopravvissuti di Aksum che conoscevano la famiglia di Guesh gli fecero visita ad Addis Abeba per dargli la notizia. Guesh ha detto che si è ammalato. “È stato così difficile adattarsi alla realtà che ho perso mio padre, mio fratello, il marito di mia sorella”, ha detto Guesh. “Ogni evento e vacanza li ricordo, come gesticolavano, come mi trattavano”.
Ciò che più volte traspare dai Tigrini è la paura che la loro sofferenza non significhi nulla e la speranza, anche se rimangono tagliati fuori dal mondo, che qualcuno li ascolti.

Il Tigrè

La regione del Tigrè (Tigray/Tigrai) è la più settentrionale delle dieci regioni dell’Etiopia. È popolata principalmente da persone di etnia tigrina. La sua capitale è Macallè. Ha una superficie di 50.286 km² e conta 7.070.260 abitanti. Il Tigrè confina a nord con l’Eritrea, a ovest con il Sudan, a est con la Afar e a sud con la regione degli Amara. Nel 1895 in seguito all’arrivo dell’esercito italiano nel Tigrè dalla vicina colonia di Eritrea scoppiò la prima guerra tra Etiopia e Italia.

«Andiamo al luogo di partenza, dove da ieri i reggimenti si sono adunati, all’incrocio delle strade che dalla piana di Calaminò precipitano su Macallè. A poco a poco l’aria si rischiara. Curioso crepuscolo, come se non da un punto dell’orizzonte, ma da tutti gli atomi dell’aria nascesse la luce. Colonne d’uomini, in ordine, in disordine. Un disordine, dal quale l’ordine di ricrea e nel quale si disfà, di continuo. Muli, carri armati, artiglieria» (Giuseppe Bottai [entrato in Addis Abeba il 5 maggio 1936, con la colonna del Maresciallo Badoglio, ne viene nominato in quello stesso giorno governatore], Quaderno africano, Giunti 1995).

Nel 1935, allo scoppio della guerra, il Tigrè è uno dei primi territori conquistati dall’Italia. Appena conquistato, il 14 ottobre 1935 il Generale Emilio De Bono emise un bando dichiarando l’abolizione della schiavitù e la liberazione di tutti gli schiavi. Nel 1998, scoppiò una guerra tra l’Eritrea e l’Etiopia, centrata su una porzione di territorio che apparteneva alla regione del Tigrè. Dopo una risoluzione delle Nazioni Unite del 2002, molte di queste terre vennero assegnate all’Eritrea. Nel novembre 2020 sono stati registrati incidenti presso le caserme militari del Comando settentrionale etiope, imputati dal governo centrale al Fronte Popolare di Liberazione del Tigrè (TPLF). Ciò ha portato a un contrattacco da parte della forza di difesa nazionale etiope. La situazione è andata ulteriormente peggiorando il 9 novembre 2020, quando le forze di sicurezza regionali fedeli al TPLF sono state accusate dal governo federale di aver ucciso centinaia di civili nel massacro di Mai Kadra. La leadership del TPLF ha negato la responsabilità, mentre le forze armate governative si sono mosse contro la città di Macallè. L’esecuzione del massacro di Mai Kadra è stata successivamente attribuita dai rifugiati tigrini in Sudan all’organizzazione paramilitare filo-governativa Fano. Al momento, in attesa di investigazioni imparziali e a causa del blocco mediatico imposto dal governo federale, verificare la responsabilità del massacro è impraticabile. In seguito gli scontri sono degenerati in una vera e propria guerra.

La guerra del Tigrè.

Le guerre dimenticate, non meno feroci di quella in Ucraina
di Emilio Drudi e Marco Omizzolo
Leurispes.it, 26 aprile 2022

Erano fuggiti dalle zone più vicine alla linea del fuoco fra le truppe del Fronte di liberazione tigrino (TPLF) e l’esercito federale etiopico con i suoi alleati eritrei. Una fuga piena di rischi e paure, ma in quel campo profughi non lontano da Macallè – il capoluogo della “regione ribelle” del Tigrai – si sentivano ormai al sicuro. Una mattina dello scorso gennaio, invece, è spuntato all’improvviso un drone che ha mitragliato e bombardato il campo tre volte di seguito, prendendo di mira le baracche di alloggio. Alla fine si sono contate almeno 57 vittime: bambini, donne, anziani. Tutte persone fragili e inermi. La guerra le ha raggiunte anche lì: vittime due volte. Magari dopo essere sfuggite ad un vero e proprio eccidio etnico. Come i circa 7mila profughi (incluse almeno 26 ragazze vittime di stupri di gruppo) che si sono dispersi in campi come quello bombardato arrivando da Abala, una città al confine fra il Tigrai e la regione Afar, dove alla fine di dicembre 2021 si è registrato uno dei massacri più feroci di questa guerra: decine, centinaia, di Tigrini prelevati casa per casa, uccisi senza pietà e abbandonati per strada da miliziani Afar delle forze armate di Addis Abeba, affiancati da soldati eritrei.

«Hanno ucciso, violentato, saccheggiato, arrestato ogni tigrino che trovavano in città. Fuggendo, ho visto centinaia di cadaveri: ragazzi, bambini, donne incinte […]», ha riferito una superstite ad Al Jazeera. Un eccidio paragonabile a molti altri. Ad esempio, l’esecuzione in massa di almeno 70 ostaggi catturati ad Adi Goshu e trucidati, nel gennaio 2021, vicino ad un ponte sul Tacazzè, nel Nord del Tigrai, al confine con il Sudan. Oppure, ancora di più, alla strage di Axum dove, all’inizio del conflitto, nel novembre 2020, truppe eritree hanno ucciso in tre giorni da 800 a mille persone, come ha documentato un’inchiesta di Amnesty.

Una guerra su scala internazionale – È questo il volto della guerra in Tigrai, scatenata da Addis Abeba contro il governo regionale di Macallè guidato dal TPLF, l’unico sui dodici enti federali dell’Etiopia (dieci regioni più due città autonome) ad opporsi alle riforme di accentramento dei poteri introdotte dal presidente Abiy Ahmed. Una guerra su scala internazionale, perché l’Etiopia vi ha coinvolto come alleate, fin dall’inizio, prima l’Eritrea, con un ruolo determinante, e poi, sia pure in parte, la Somalia. Abiy Ahmed, però, l’ha contrabbandata come un semplice e rapido “intervento interno di ordine pubblico” contro l’esecutivo tigrino, che avrebbe violato la Costituzione, ponendosi al di fuori della legge. Ma altroché “rapido”: il conflitto va avanti dal 4 novembre 2020, con un bilancio di sangue e sofferenze terribile, oltre 2 milioni di sfollati (su una popolazione di 6 milioni), circa 75 mila profughi riparati in Sudan, quasi 100 mila morti. Anzi, secondo le stime di una equipe di ricercatori dell’Università di Gent, in Belgio, addirittura almeno 400 mila morti: da 50 a 100 mila come conseguenza diretta dei combattimenti e delle rappresaglie, circa 200 mila per la mancanza assoluta di cibo, oltre 100 mila per la totale carenza di assistenza e cure mediche. Perché sono state distrutte tutte le strutture sanitarie – dagli ospedali ai semplici ambulatori di villaggio – e perché sono state usate come vere e proprie armi di guerra la fame e la carestia, devastando sistematicamente raccolti, armenti, depositi di cibo, centri di produzione ed impedendo agli aiuti umanitari di arrivare da oltre confine. Anzi, per umiliare e vincere la resistenza della popolazione, sono stati usati come arma di guerra persino gli stupri di gruppo, con vittime di ogni età: risultano almeno 1.500 le donne che hanno trovato la forza e il coraggio di denunciare, ma c’è da credere che il numero reale sia molto più elevato. E a questo orrore, quando nel giugno 2021 è iniziata la controffensiva vincente del Tigrai, ha fatto riscontro una dura volontà di vendetta: secondo la Commissione etiopica per i diritti umani, dal giugno 2021 a oggi, nelle regioni Amhara e Afar raggiunte dall’avanzata delle truppe tigrine, si contano almeno 750 civili uccisi (incluse molte esecuzioni extragiudiziali), sequestri, torture, stupri, saccheggi. La Commissione ONU per i diritti umani propone da mesi un’inchiesta indipendente, ma si scontra con l’opposizione di Addis Abeba.

La necessità di un intervento internazionale – Verso la fine dello scorso mese di marzo il presidente Abiy Ahmed ha proposto una tregua per motivi umanitari, in modo da consentire l’arrivo di colonne di aiuti per le popolazioni più colpite dalla carestia: oltre 400 mila persone secondo l’ONU. Forse quasi 500 mila. Macalle ha subito accettato, ammonendo che avrebbe vigilato affinché il cessate il fuoco fosse davvero il primo passo per porre fine alla guerra e non una pausa per riorganizzarsi e armarsi ancora di più. Ma la tregua non sembra riguardare altri ribelli, in particolare quelli della regione Oromo che si sono schierati dalla parte dei Tigrini e contro i quali è in corso una campagna di repressione da parte delle forze di sicurezza governative.

Perché le armi tacciano davvero sarebbe determinante un risoluto intervento della comunità internazionale, ma fin dall’inizio questo disastro è passato pressoché sotto silenzio. Quasi nulla, in particolare, sui media, che si sono arresi all’embargo sulle notizie imposto da Addis Abeba. Nulla che destasse almeno un’emozione presso l’opinione pubblica, vanamente stimolata dalle mobilitazioni della diaspora tigrina in molte capitali europee. Una guerra sottaciuta all’inizio e ora dimenticata. Nonostante tutti i suoi orrori, quanto meno pari a quelli che scuotono gli animi per l’Ucraina. Del resto non è l’unico caso. Altrettanto dimenticate sono guerre non meno atroci, come nello Yemen, in Siria, nel Mali.

Il conflitto in Yemen – Tra la fine dell’estate del 2020 e il mese di dicembre 2021, come rivela un Report dell’ONU, si calcola che nello Yemen siano morti quasi 2 mila bambini soldato: ragazzini di età compresa tra i 10 e i 17 anni prelevati dalle loro case, nei villaggi, e costretti ad imbracciare un kalashnikov. È l’ultimo orrore di una guerra iniziata nel 2015, ma che affonda le radici nella primavera araba del 2011, quando una rivolta ha costretto il Presidente Ali Abdullah Saleh a cedere il potere al suo vice, Mansour Hadi. Da allora la situazione è precipitata, fino alla rivolta condotta nel 2014 dal movimento islamico sciita degli Houthi che all’inizio del 2015, partendo dalla regione settentrionale di Sadaa, ha conquistato la capitale, Sanaa, costringendo Hadi all’esilio e il suo governo a rifugiarsi nel sud, ad Aden. A sostegno di questo governo, l’unico riconosciuto dalla comunità internazionale, si è schierata una coalizione di sette Stati (guidati dall’Arabia e dagli Emirati Arabi e sostenuti dagli Stati Uniti e da gran parte dei governi occidentali), che ha lanciato una serie di attacchi contro gli Houthi, con l’obiettivo dichiarato di riportare Hadi al potere e con la “giustificazione” che gli Houthi sarebbero sostenuti dall’Iran in vista di un nuovo equilibrio regionale.

È stato l’inizio di una escalation che ha precipitato nel caos il paese, già di per sé uno dei più poveri del mondo. I fronti più accesi degli ultimi mesi sono quelli dei governatorati di Ma’rib, Al Jawf, Al Badya, Dahle, Abyan, Shabwa e Hodeida, il principale porto sul Mar Rosso, controllato dagli Houthi. E alla guerra si sono aggiunte una siccità e una conseguente carestia come non si vedeva da decenni nella regione, una terribile epidemia di colera e una di difterite a cui è poi seguito il Covid. Senza contare il flagello per due anni di seguito delle locuste. Una tempesta perfetta che dura, praticamente ininterrotta, da sette anni. Anni lunghissimi e drammatici per la popolazione. Le conseguenze sono sconvolgenti. Basta leggere i rapporti della Ocha, l’Agenzia per gli interventi umanitari delle Nazioni Unite. Si calcola che i morti siano circa 380 mila, di cui oltre 100 mila come causa diretta dei combattimenti e gli altri a causa della fame e delle malattie. Oltre 20 milioni di persone (due terzi della popolazione) non hanno di che nutrirsi a sufficienza e potranno sopravvivere solo se arriveranno aiuti umanitari dall’estero. In particolare soffrono di malnutrizione acuta 2,3 milioni di bambini e di questi almeno 400 mila, fino a 5 anni di età, rischiano di morire nei prossimi mesi se non si interverrà al più presto. Difficile e limitato persino l’accesso all’acqua potabile. Almeno 4 milioni gli sfollati interni. Migliaia quelli che, nonostante enormi difficoltà, sono riusciti a rifugiarsi oltre confine e si affacciano ormai anche alle porte dell’Europa. In sostanza, secondo l’ONU, circa l’80% della popolazione avrebbe bisogno di aiuto e protezione internazionale. Ma entrambi gli schieramenti in lotta impediscono l’accesso alle missioni umanitarie, mentre sono sempre aperti e attivissimi i canali per la fornitura di armi. Non a caso, del resto, l’ONU ha più volte definito la situazione dello Yemen come la più grave catastrofe umanitaria attuale.

Uno spiraglio si è aperto alla vigilia del Ramadan quando, su proposta dell’ONU, le due parti in lotta hanno accettato una tregua di due mesi per ogni tipo di offensiva militare e il nulla osta per l’arrivo di navi ed aerei commerciali nel porto di Hodeida e nell’aeroporto di Sanaa. Dovrebbe essere la premessa per incamminarsi finalmente sulla via della pace. Per agevolare questo percorso sotto la guida dell’ONU, il Presidente Mansour Hadi, in esilio a Riyadh e tutt’altro che popolare tra la maggioranza degli yemeniti, ha trasferito i suoi poteri ad un nuovo consiglio di presidenza composto da sette membri e guidato da Rashad al Alimi, ex Ministro dei governi guidati da Saleh, il quale ha promesso di lavorare a un accordo di pace «affrontando questa sfida in tutto lo Yemen, senza discriminazioni e senza eccezioni». Forse sono solo parole, ma per il momento non c’è altro. I primi a non fidarsi troppo di questa tregua sembrano essere gli Stati Uniti, tanto da aver deciso di allestire, all’inizio di aprile, una task force navale con unità della Quinta Flotta per pattugliare contro eventuali attacchi Houthi il Mar Rosso e lo stretto di Bab el Mandeb, dove transita una delle vie di traffico più importanti del mondo.

La guerra infinita in Siria – Undici anni di conflitto armato e non se ne vede la fine. È questa la drammatica situazione in Siria. Anche qui la radice è nelle primavere arabe, da cui è scaturito un vasto movimento popolare che chiedeva il rovesciamento del regime di Bashir Assad, ma è stato represso nel sangue, scatenando una rivolta sfociata in una guerra civile che è diventata una guerra per procura tra varie potenze straniere. E dando esca, insieme alla questione irachena, all’esplosione dell’Isis. Un disastro che ha creato la più grande emergenza profughi nel mondo: su una popolazione di 21 milioni di abitanti, si calcolano 13,5 milioni di persone costrette ad abbandonare la propria casa come sfollati e 5,6 milioni di rifugiati oltre confine. Ancora più drammatico il conto dei morti: almeno 500 mila, in continua crescita. Senza considerare tutto il resto, come si legge nei rapporti dell’ONU: crollo totale dell’economia (prima una delle più fiorenti del Medio Oriente), alla fame circa il 60% della popolazione tra cui, in particolare, oltre 550 mila bambini cronicamente malnutriti, la metà in modo grave. Ed è cambiata persino la “geografia” del Paese. La parte centrale e meridionale, fino al confine con il Libano, Israele, la Giordania e l’Iraq è in mano alle forze governative, fiancheggiate da milizie sciite libanesi, irachene e afghane, da pasdaran iraniani e da militari o contractor russi. Una vasta area a Nord-Est è sotto il controllo delle forze democratiche siriane anti Assad, guidate dal Pkk curdo. Diverse ampie fasce al confine con la Turchia sono direttamente, o indirettamente, sotto l’influenza di Ankara, che ne ha fatto una specie di zona cuscinetto. Basi militari americane e russe sono disseminate in diversi punti del territorio.

Ora, a undici anni di distanza, la minaccia dell’Isis è stata ridotta, ma non è affatto scomparsa, come testimonia la serie di attentati e attacchi nella zona “governativa”. D’altra parte, invece, Assad, l’obiettivo della rivolta del 2011, è rimasto saldamente al potere, soprattutto grazie al sostegno militare e politico della Russia di Putin, il cui ruolo internazionale svolto nel corso degli ultimi venti anni deve essere attentamente analizzato per comprendere adeguatamente la strategia russa nel conflitto ucraino in corso. Anzi, Assad ha riacquistato “credibilità”: dopo 12 anni di esclusione, nel marzo del 2022, ha potuto di nuovo partecipare al vertice della Lega Araba che si è tenuto ad Algeri. A farlo uscire dall’isolamento sono state, soprattutto, le pressioni degli Emirati e dell’Arabia. Va da sé che per il dittatore di Damasco è stata una grande vittoria: di fatto, con questo invito ad Algeri, i suoi oppositori – sia interni sia internazionali – hanno dovuto riconoscere lo status quo che si è creato e la sua permanenza al potere. Esattamente l’opposto di quanto è accaduto ai curdi i quali, dopo essere stati pressoché gli unici a combattere sul terreno contro l’Isis con le loro milizie, sono stati praticamente abbandonati a sé stessi, lasciando per l’ennesima volta irrisolta la questione del Kurdistan, che si trascina dolorosamente dalla fine della Prima guerra mondiale e che vede coinvolte anche la Turchia, l’Iran e l’Iraq. Nel frattempo, sul futuro della Siria continuano a pesare le sanzioni europee in vigore dal 2011 e venti di guerra soffiano soprattutto nella fascia settentrionale alimentando, tra l’altro, l’ormai endemico flusso di profughi. Un flusso che miete sempre più vittime appena al di fuori dei muri alzati dalla Fortezza Europa nell’Egeo e lungo la linea di confine dell’Evros tra la Turchia e la Grecia, ma anche nel Mediterraneo centrale, sulla rotta tra la Libia e l’Italia.

La tragedia in Mali – L’ultimo grande massacro, in Mali, è della fine di marzo 2021. Il Ministero della Difesa ha riferito di “203 terroristi uccisi” e 51 arrestati in un’azione militare che si è protratta dal 23 al 31, partendo da Moura, una città di circa 10 mila abitanti nel centro del paese. Un Rapporto di Human Rights Watch, basato su decine di testimonianze e pubblicato nei giorni successivi, riferisce, invece, che oltre 300 civili inermi, anche se alcuni sospettati di essere fiancheggiatori dei miliziani islamici, sono stati prelevati e uccisi a freddo, a piccoli gruppi. Quasi tutte le vittime sono Fulani (o Peuhl), l’etnia di pastori seminomadi indicati come simpatizzanti dei gruppi fondamentalisti. La stessa scelta di intervenire in questa zona non appare casuale: a controllare Moura sarebbero esponenti di Aqim, una delle componenti più agguerrite di Al Qaeda. Un controllo diretto e costante, tanto da imporre tasse regolari, gestire le scuole, amministrare la giustizia attraverso corti islamiche che si ispirano alla Sharia. L’eccidio è attribuito alle truppe di Bamako e ai loro nuovi alleati, i soldati russi del gruppo Wagner, l’organizzazione militare costituita essenzialmente da mercenari, ma strettamente legata al governo di Mosca. Centinaia di vite spezzate che alimentano, e aggravano, l’interminabile spirale di violenza in cui il paese è precipitato da dieci anni, con una guerra formalmente non riconosciuta ma che è fatta di continui attentati, attacchi, scontri armati, sequestri, esecuzioni extragiudiziali, torture.

Tutto è iniziato con la rivolta esplosa nel febbraio 2012 – la quarta dal 1960, anno dell’indipendenza dalla Francia – per chiedere una forte autonomia delle regioni sahariane settentrionali (l’Azawad) popolate in grande maggioranza da tuareg e berberi. Tempo poche settimane e la guida della ribellione (nata in particolare nella diaspora, sulla scia delle primavere arabe) è stata assunta da formazioni jihadiste aderenti ad Al Qaeda e all’Isis. Il governo del presidente Amadou Toumani Touré ne è stato travolto: lo ha destituito lo stesso esercito maliano, accusandolo di incapacità nella condotta della guerra contro i ribelli, arrivati a conquistare, e a proclamare, il distacco dal Mali di tutto il Nord, quasi fino alla linea chiave di Mopti. Un anno dopo, nel 2013, la Francia ha deciso un intervento militare diretto nella sua ex colonia, con l’obiettivo dichiarato di fermare l’avanzata della minaccia jihadista nel Sahel, fino al Ciad, al Niger e al Burkina Faso. Accanto all’esercito maliano si è così formata una vasta forza militare straniera: agli oltre 5 mila soldati di reparti scelti inviati da Parigi (gruppo Berkhane) si sono affiancati centinaia di altri militari messi a disposizione da vari paesi europei sotto l’egida dell’operazione Takuba e ben 18 mila caschi blu ONU della missione Minusma.

Questa grande mobilitazione non ha fermato l’azione crescente di Al Qaeda o dell’Isis. Né hanno avuto successo, al di là di impegni formali, le ripetute proposte di tregua formulate in una serie di incontri ad Algeri. Si è sviluppato, piuttosto, uno stato di guerriglia permanente, capace di colpire ovunque, mentre le truppe francesi sono state sempre di più percepite dalla popolazione come il braccio armato di Parigi per il controllo dei suoi interessi nella regione. Un giudizio che ha finito per estendersi agli altri contingenti europei, considerati una forza di occupazione più che di protezione e pacificazione. Ne hanno tratto vantaggio le formazioni fondamentaliste e per di più si è sviluppato un sanguinoso conflitto interno tra gruppi etnici: in particolare uno scontro crescente tra i Fulani e i Dogon, incentrato sulle antiche rivalità per la gestione dei pascoli e delle terre coltivabili, ma incancrenito da motivazioni “politiche”, con l’accusa ai Fulani di simpatizzare per i miliziani jihadisti e con l’attribuzione reciproca di stragi, sanguinosi attacchi e saccheggi contro interi villaggi, uccisioni, violenze.

Il risultato è drammatico: oltre 2 milioni di sfollati, non meno di 15 mila morti (inclusi 260 caschi blu dell’ONU), la creazione da parte dell’Isis dello Stato islamico del Grande Sahel nella vasta area subsahariana a cavallo tra il Mali, il Ciad, il Niger e il Burkina Faso. In questo caos, sono maturati altri due colpi di stato. Il primo nell’estate del 2020, quando l’esercito ha costretto a dimettersi il presidente Ibrahim Boubacar Keita – accusato di aver distrutto l’economia e di non aver saputo risolvere i problemi di sicurezza, nonostante la massiccia presenza di truppe straniere –, sostituendolo con un governo provvisorio misto di militari e civili in previsione di nuove elezioni. Il secondo nella primavera del 2021: il presidente Bah N’Daw e il primo ministro Moctar Ouane sono stati arrestati e la guida del paese la ha assunta il vicepresidente Assimi Goita, instaurando una giunta militare e rinviando le elezioni. Uno dei primi atti è stato lo sganciamento dalla Francia, obbligata a evacuare dal Mali le sue truppe. Il ritiro – con il trasferimento dei reparti in Niger – si è concluso nel dicembre 2021. È subito seguito quello degli altri contingenti europei, mentre sono arrivati i russi del gruppo Wagner. Nel frattempo, nell’arco dell’intero 2021, la minaccia terroristica ha segnato una ulteriore crescita di attacchi e attentati, in una escalation di violenza e di morte a cui nessuna delle forze in campo può dirsi estranea. Come dimostra il massacro di Moura.

Le guerre “lontane” non toccano la coscienza dell’Occidente – Tutto questo solleva una serie di interrogativi. C’è da chiedersi come mai guerre atroci e lunghissime come quelle nel Tigrai, nello Yemen, in Siria, in Mali, non abbiano ascolto nella politica italiana ed europea e come mai trovino poco spazio nei media. Perché non sconvolgano la sensibilità delle persone. Lo stesso vale, del resto, per altre crisi estreme che provocano migliaia di morti e schiere enormi di profughi. In Afghanistan, ad esempio, dove la fuga precipitosa degli eserciti occidentali nello scorso agosto ha posto fine ad un conflitto durato vent’anni, ma dove non è certo finita la terribile emergenza umanitaria creata proprio dalla guerra, mentre il regime dei talebani perseguita e costringe a lasciare il paese i tanti che hanno creduto nella costruzione di una democrazia (salvo essere stati abbandonati dagli Stati che hanno alimentato questo sogno). Oppure, in Somalia, un paese imploso da oltre trent’anni, sconvolto da una bufera infinita nella quale siccità, fame, carestia, epidemie, si aggiungono al disastro provocato da una sanguinosa guerra civile e da un terrorismo forte e radicato come quello di Al Shabaab, che colpisce quando e dove vuole, mettendo a segno una media di oltre mille attacchi e attentati l’anno. O, ancora, in Nigeria, dove il terrorismo fondamentalista di Boko Aram, combinato con l’azione di bande di predoni e un vortice crescente di conflitti etnici, ha provocato, secondo la sezione affari umanitari dell’ONU, oltre 30 mila morti e più di tre milioni di rifugiati.

Ecco, tutto questo è come dimenticato. Oscurato. Eppure, a ricordarcelo, arrivano ogni giorno, alle porte dell’Italia e dell’Europa, migliaia di profughi in cerca di aiuto. Testimoni disperati degli eccidi, del mondo di morte e sofferenza, a cui sono sfuggiti. Ma forse il punto è proprio qui. Forse l’Italia e l’Europa questi disperati non vogliono vederli.

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