Giuliano Zanchi: dal silenzio parole nuove per vincere la tragedia

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Dopo ‘Il potere della speranza’ di mons. Tolentino Mendonça e ‘Il segno delle chiese vuote’ del filosofo praghese Tomáš Halík, la casa editrice ‘Vita e Pensiero’ propone un nuovo ebook gratuito ‘I giorni del nemico. Il grande contagio e altre rivelazioni’, firmato da don Giuliano Zanchi, che da Bergamo, la provincia italiana più colpita dalla pandemia, fotografa lucidamente la scena reale del paese, quella di case in autogestione clinica, parentele mobilitate dalla necessità della cura, comunità locali impegnate a improvvisare i servizi di garanzia.

Partendo dalla serie televisivia ‘Chernobyl’ l’autore descrive lo stato d’animo della gente: “Le sciagure si avvicinano spesso prendendo alle spalle la nostra innata fede nella normalità. Con una lievità simile abbiamo osservato il progressivo montare di questa marea epidemica, partita da lontane sponde cinesi per arrivarci al collo quasi di colpo, dopo settimane di imperturbata spensieratezza, di informazioni minimizzanti e di indicazioni contraddittorie.

Abbiamo trasformato i primi segnali in facezie, le prime notizie in materia per il solito pollaio dibattente, i primi dati come copione di quella recita a soggetto con cui noi, da animali audiovisivi quali siamo diventati, abbiamo imparato a trasformare tutto in una forma di intrattenimento. Alle prime misure di contenimento ha fatto seguito un senso di disimpegno generale che ha scambiato la quarantena per una vacanza anticipata.

Si è guardato alla prima zona rossa di Codogno come a una sorta di eccezione vicaria, una vittima immolata per tutti sull’altare di una prudenza persino crudele, come se il suo sacrificio potesse risparmiare quello di tutti. In principio l’abbiamo presa sul ridere. Come uno dei ricorrenti show time a cui ci siamo abituati a ridurre la cronaca della nostra vita sociale, ignari che stavolta era la storia a visitarci. Poi abbiamo cominciato a capire. Quanto abbiamo irriso il pericolo, tanto ci siamo adattati all’incubo”.

Il ritardo nel prendere in serietà il virus nasce dalla sicurezza in un mondo protetto: “Stavamo quietamente immersi nella persuasione di abitare un mondo protetto dall’intrusione dell’imponderabile, messo nel grande caveau del progresso in cui i chiavistelli della scienza e della tecnica sembravano a prova di tutto.

Quanti come me sono nati nel tempo che va dagli anni Sessanta in avanti, possono essere consapevoli della fortuna di aver forse vissuto, almeno nella nostra parte di mondo, nel cinquantennio più felice della storia, una manciata di decenni sgombri dall’incubo della guerra, lanciati nell’ascesa di una crescita economica senza precedenti, gratificati da uno sviluppo dei servizi che nessuna e poca aveva mai conosciuto, nell’inarrestabile ascesa di una potenza tecnologica capace di trasformare i miracoli infatti e nella suadente bolla di una mediasfera capace di tramutare i sogni in realtà”.

Fino a questo momento tutti credevano di vivere in un mondo perfetto: “Abbiamo vissuto nel migliore dei mondi possibili. Pace, prosperità, libertà, divertimento, benessere, bellezza, cultura, tecnologia, medicina, un cocktail di grazie terrene davanti al quale ci siamo abituati a immaginare il pericolo e la fame, la miseria e l’instabilità, la precarietà e l’indigenza, l’irreparabile e il definitivo, come esperienze esotiche e premoderne, inconvenienti diffusi in quegli ‘altrove’ non ancora raggiunti dalla luce di questo confortevole paradiso in terra.

L’insicurezza era una malattia per mondi arretrati, di cui osservare da lontano una sfortuna inconcepibile per noi, come il miserevole bianco e nero di un’istantanea d’altri tempi. La nostra infanzia e la nostra giovinezza hanno potuto passeggiare sotto il cielo ridente di un tempo senza paure. Sì, ci sono stati l’undici settembre e la crisi del 2008.

Ma sono rimaste avvisaglie lontane e incidenti passeggeri. Ombre volatili come i brutti sogni. Più un grande spavento che una vera lezione. La verità è che siamo cresciuti nella superstizione dell’invulnerabilità. Cosa avremmo dovuto temere da un contagio che non poteva che essere un’influenza come tante altre?”

Davanti a tali avvenimenti occorre il silenzio per meditare in quale modo affrontare il ‘male’ e per costruire un nuovo ‘domani’: “Il male, qualunque esso sia, ci tocca sempre due volte. La prima ci ferisce, la seconda ci trasforma. Se qualcosa non si interpone tra questi due momenti, il male, dopo averci immerso in quel grado di radicale autocoscienza biologica che è il dolore, ci rende repliche di sé, lasciandoci sospesi, sfiduciati, risentiti, cinici, diffidenti, sospettosi, incattiviti, violenti, dominati dal subdolo demone del nulla”.

Ed invita ad una nuova azione: “Questo è il momento dell’azione, della mobilitazione soccorritrice, di una benedetta competenza scientifica che forse per un attimo ha silenziato le nuove superstizioni antimediche, è il momento della cura reciproca estesa in ogni fibra del nostro corpo comunitario, dell’iniziativa politica chiamata a decidere guardando oltre il polverone. Ma verrà il tempo in cui serviranno anche le parole. Quelle che danno ossigeno alla fiamma del coraggio e fotoni alla luce del senso. Ne avremo bisogno tutti”.

In questo senso sono necessarie le parole: “Non serviranno a niente le predichine di un troppo facile speranzismo religioso, né la melensa gnosi che impregna la babele dei social. E nemmeno la mera ricostruzione causalistica dei referti socioclinici. Serviranno parole che non credo nessuna riserva catechistica sia più capace di contenere e nessuna gnosi psicomanualistica può davvero offrire. Non so francamente da dove salteranno fuori”.

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