Ai pastori le pecore chiedono una parola vera, di Fede, per l’Anima, di conforto, una parola paterna. Oggi manca una voce profetica

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Ieri ho lavorato ad un pezzo sul caos creato dalle (contrastanti) decisioni, alcune azioni oltre la legalità, ripensamenti, dietro front, sconfessioni, da parte di pastori che sono chiamati a guidare la gregge, non a creare confusione tra le pecore, esponendole ai lupi. Invece, è stato aumentato il disorientamento, l’insicurezza e il turbamento tra i fedeli (“Uno spettacolo sconcertante di una gerarchia ecclesiastica in stato confusionale”, l’ha definito Riccardo Cascioli ieri su La Nuova Bussola Quotidiana, nel suo articolo che ho condiviso ieri sul mio diario Facebook). Mentre su Duc in altum, Aldo Maria Valli ha messo la dita nella piaga: “I comunicati dei vescovi, a parte alcuni accenni qua e là, assomigliano ai bollettini governativi e sono scritti quasi con lo stesso linguaggio burocratico. Preoccupazione numero uno è dare direttive, tutte ispirate ai criteri di salvaguardia della salute del corpo, ma ben pochi, o nulli, sono gli accenni alla salute dell’anima e alla salvezza”.

Questi “accenni alla salute dell’anima e alla salvezza” sono accenni di speranza che alcuni vescovi ci hanno offerto grazie a Dio (e alcuni ho riportato in questi tempi) e che tutti i sacerdoti sono chiamati a darci e – visto le condizioni contingenti – usando innanzitutto i mezzi di comunicazione sociale, tra cui lo streaming televisivo diffuso via social, blog, siti.

Dai nostri pastori – papa, vescovi, sacerdoti – aspettiamo che fanno sentire la propria voce, forte e chiara, ma non soltanto riportando delle direttive fredde, a cui hanno pensato le Autorità civili, scritte con lo stile dei funzionari (ed è giusto così, anch’io sono stato funzionario, ed è uno stile necessario, ma non sufficiente). La gregge, che è affidata da Gesù alle loro cure, ha bisogno di sentire da loro, come degli “alter Christus, ipse Christus”, una parola vera, una parola di Fede, una parola per l’Anima, una parola di conforto, una parola paterna.
Senza dimenticare che ogni cristiano è chiamato ad essere “alter Christus, ipse Christus”, perché, con il Battesimo costituito sacerdote della sua stessa esistenza e per compiere le sue azioni in spirito di obbedienza alla volontà di Dio, perpetuando così la Missione dell’Uomo-Dio. Questa realtà ci fa pensare alle nostre miserie, ai nostri errori personali. Ma questa considerazione non ci deve scoraggiare, né indurre all’atteggiamento scettico di chi ha rinunciato ai grandi ideali, rinunciato volontariamente alla Fede. Il Signore ci vuole per sé e, così come siamo, vuole renderci partecipi della sua vita e ci chiede di lottare per essere santi. Il meditare sulla morte di Cristo – che abbiamo fatto ieri, il secondo venerdì di Quaresima – diventa allora un invito ad affrontare con assoluta sincerità nostri impegni quotidiani (che sono diventati molto semplice per la stragrande maggioranza di noi, con questa quarantena imposta dal Sars-CoV-2), un invito a prendere sul serio la Fede che professiamo. La Quaresima è l’occasione per introdurci con maggiore profondità nel mistero dell’Amore di Dio. Senza dimenticare che nostre case, le nostre famiglie sono “Chiese domestiche” sempre, come ha ricordato ancora il Cardinal Vicario di Roma Angelo De Donatis, nel suo Decreto del 12 marzo 2020: “Accogliamo le Parole di Gesù che ci dice: dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro (Mt. 18.20). In questo tempo, ancora di più, le nostre case sono Chiese domestiche”.

Ieri sera, vinto la mia incredulità e mettendo in fila i pensieri contrastanti sullo stato attuale e la confusione che regna sovrana, ho deciso di soprassedere a terminare il pezzo, a cui stavo lavorando, e di conservare i miei appunti a futura memoria. Conservo anche quanto scritto il 12 marzo 2020 dall’amico e collega Giuseppe Rusconi su Rossoporpora.org: “Da una parte troviamo i numeri dei contagiati, dei ricoverati in terapia intensiva (e qui i famigerati tagli alla sanità degli ultimi anni pesano e molto), dei morti (pur se in quest’ultimo caso non è chiaro chi muoia di coronavirus come patologia principale e non aggiuntiva). Dall’altra la dedizione ammirevole (un dovere certo, ma oggi non così scontato) mostrata dal personale medico e paramedico in prima linea. Siamo stati confrontati con una comunicazione governativa in materia a dir poco schizofrenica nelle ultime settimane: una gran confusione ( con danni enormi) cui hanno contribuito anche dichiarazioni contrastanti di virologi veri o presunti. Ora è il tempo del rigore imposto con l’intento di rallentare, limitare e infine annullare la diffusione del morbo. Sono decisioni queste che, pur comprensibili nei contenuti, intaccano gravemente certe libertà individuali fondamentali: lo faranno per un periodo di tempo indeterminato (con prevedibili, pesanti conseguenze sull’equilibrio mentale non solo dei più fragili… le isterie e le psicosi già dilagano)”.

Mi hanno aiutato le parole di un amico a capire, che era meglio rimandare il mio pezzo, “a data da destinarsi” – nel gergo da funzionario, riflettendo sui tempi che viviamo: “Tempo+isolamento+lavoro fanno un buon pezzo. Tempo (nessuna fretta, fare tutto con calma e mente fredda, magari dopo una notte di riposo); isolamento (essere soli, essere liberi da ogni impegno, porta ad avere la migliore concentrazione di sempre); lavoro (il lavoro ne giova, il lavoro non spaventa, il lavoro può essere intensivo e pesante, ma dilazionato perché non c’è fretta). Quindi hai tutto nelle tue mani e nella tua testa quando è come vuoi”.

Il titolo provvisorio del pezzo di ieri – rimasto incompiuto e non pubblicato – era: “Nel giorno della sua elezione, il Vescovo di Roma fa riaprire le chiese. Ed è caos. Manca una parola profetica”. Le quattro parole – “manca una parola profetica” – c’erano anche nel titolo della riflessione dell’amico Miguel Cuartero Samperi sul suo blog “Testa del Serpente – Rinunciare a tutto per salvare la testa” di ieri (“La fede alla prova come al tempo dei tre giovani. Ma manca una parola profetica”), che ho condiviso ieri sul mio diario Facebook e che consiglio di rileggere.

Oggi riparto da queste quattro parole – “manca una parola profetica” – condividendo la riflessione dell’amico e collega Aldo Maria Valli sul suo blog “Duc in altum” di ieri.

Il Crocifisso ligneo nella Cappella del Crocefisso, Chiesa della Santissima Trinità, Santuario della Madonna Liberatrice in Viterbo (Foto di Vik van Brantegem).
La Cappella dedicata al Crocifisso si colloca nell’abside della navata destra, fatta edificare nel 1795, accoglie il Crocifisso ligneo ascrivibile alla metà del XV secolo. La scultura, quale opera preziosa per i suoi caratteri formali, è risolta con lo scopo di un intenso coinvolgimento emotivo da parte dello spettatore. Gli arti superiori sono inseriti in due appositi alloggiamenti scavati in modo da poter ruotare liberamente, grazie a un meccanismo che serviva a soddisfare precise esigenze liturgiche. La scultura esprime un raccolto patetismo, un dolore sommesso, il volto presenta contorni marcati proposti nel taglio delle palpebre arrotondate e delle labbra socchiuse. La fronte alta, la massa compatta dei capelli risulta divisa da una scriminatura centrale, il trattamento della capigliatura a ciocche ondulate cinge la testa e l’attacco della barba, nettamente separata sul mente, mostrando una certa rigidità del modellato. L’ovale del viso è longitudinalmente ripartito dal condotto diritto e allungato del naso, i rilievi anatomiche del corpo sono appena accennati ed esprimono un realismo descrittivo semplificato anche nella postura, nell’assottigliamento dei fianchi e nell’espressività soprattutto del ventre rigonfio. L’opera è caratterizzata dalla disposizione distesa del Cristo, dalle braccia rivolte verso l’esterno, dalle gambe leggermente ripiegate, dai piedi sovrapposti e dalla testa appena reclinata sul lato destro. I fori presenti nelle mani dimostrano come la scultura avesse in passato dei chiodi infissi che la sorreggevano sulla croce. La realizzazione del tronco schematizzata, con poco o nessun rilievo di nervatura è interrotto da un corto perizoma a fascia annodato sul fianco sinistro, con un lembo pendente lateralmente. È probabile che il soggetto portasse sul capo anche una corona di spine per le tracce di colature del sangue che corrono ai lati del collo. L’orchestrazione decorativa della cappella è tuta al servizio di una compostezza che, nella sua metafisica sobrietà, spinge alla meditazione sul sacrificio di Gesù.
La Cappella del Crocifisso e il Crocifisso ligneo sono stati restaurati dal Sacro Militare Ordine Costantiniano di San Giorgio nel 2018, come riporta l’iscrizione nella lapide posta sulla parete destra, il cui simbolo compare sulla sommità della cornice (Fonte: Antonella Travaglini, “La chiesa della SS. Trinità. Storia e Arte nel Tempio della Madonna Liberatrice in Viterbo”, Viterbo 2020).

Il Sabato santo della fede e una richiesta ai pastori
di Aldo Maria Valli
Duc in altum, 13 marzo 2020
Sarò sincero. In questi giorni, così difficili, ho letto i comunicati dei vescovi, ho letto gli interventi del papa, ma non vi ho trovato un vero conforto, non vi ho trovato l’acqua fresca in grado di dissetare un’anima che si trova in un deserto di preoccupazioni.
I comunicati dei vescovi, a parte alcuni accenni qua e là, assomigliano ai bollettini governativi e sono scritti quasi con lo stesso linguaggio burocratico. Preoccupazione numero uno è dare direttive, tutte ispirate ai criteri di salvaguardia della salute del corpo, ma ben pochi, o nulli, sono gli accenni alla salute dell’anima e alla salvezza.
Inoltre, ho notato qualche contraddizione tra quanto ha detto il papa e quanto hanno scritto i vescovi. A Santa Marta, per esempio, il papa, chiedendo ai pastori di “accompagnare il popolo di Dio in questa crisi”, ha dichiarato che “le misure drastiche non sempre sono buone”. Ma proprio nello stesso giorno il suo vicario per la diocesi di Roma ha decretato la chiusura delle chiese. Difficoltà di comunicazione interna?
Che sia mancata fin qui, da parte dei pastori, una parola vera, in grado di sostenere i fedeli, lo dice anche, come opportunamente segnala Sandro Magister, la prestigiosa rivista Il Regno, a firma del suo direttore Gianfranco Brunelli, e la cosa è significativa se si pensa che Il Regno non appartiene certamente allo schieramento dei “nemici di papa Francesco” e non è certamente espressione degli ambienti che vengono dipinti come reazionari e tradizionalisti.
Ebbene, scrive Brunelli: “Ora che è stato detto tutto e di tutto, da parte di tanti; ora che il coronavirus sta assumendo il volto inarrestabile e pervasivo di una pandemia; in quest’ora toccherebbe alla Chiesa fare sentire la propria voce. Perché ci avviciniamo alla Pasqua. Non sono mancati interventi di singoli pastori, ma una parola unitaria della conferenza episcopale italiana è sin qui mancata, se si escludono singoli comunicati, in genere sul tema dell’apertura e della chiusura delle chiese, sulla opportunità o meno di celebrare le funzioni liturgiche, in “ottemperanza” ai decreti governativi. È mancata sin qui una parola vera”.
Questo è il punto. Una “parola vera” significa una parola per l’anima. Significa la parola di un padre. Abbiamo ricevuto regolamenti scritti con lo stile dei funzionari: ci è mancata una parola di fede, un nutrimento per l’anima.
Diciamolo chiaramente: ci stiamo confrontando con il problema della morte, il problema dei problemi. Ma sotto questo profilo i pastori si sono dimostrati quasi del tutto afoni.
L’impressione (ma spero di essere smentito quanto prima) è che i pastori, abituati a scendere in campo sul terreno amico delle questioni sociali, si trovino in imbarazzo ora che, improvvisamente, devono misurarsi con i Novissimi (morte, giudizio, inferno, paradiso): un terreno che per loro dovrebbe essere quello di casa ma che da troppo tempo, forse, trascurano.
Scrive Brunelli: “Qui il problema è affrontare il tema della fragilità personale e collettiva, sociale ed economica, politica e istituzionale. È il tema della malattia, della vita e della morte, che tocca e ridefinisce ogni cosa. È dunque il tema dell’annuncio del Vangelo in questo tempo”.
La stessa chiusura delle chiese, provvedimento che fa soffrire tanti, è stata spiegata in termini funzionali, come misura di contenimento del virus. È mancata la parola della fede.
Osserva ancora Brunelli: “La Chiesa italiana, lo stesso vescovo di Roma sono attesi per una parola che ripeta nuovamente il Vangelo in questo tempo; che affronti il mistero della morte e della risurrezione. Perché con questo, oggi, tutti, individualmente e collettivamente, siamo confrontati. Questa è l’attesa, consapevole o meno, di una moltitudine. Siamo entrati in una lunga vigilia, un’interminabile veglia notturna. È il Sabato santo della fede, il giorno a-liturgico per eccellenza, un tempo denso di sofferenza, di smarrimento, d’attesa e di speranza, che sta tra il dolore della croce e la gioia della Pasqua. Il giorno del silenzio di Dio. La Chiesa deve preparare la Pasqua, perché forse neppure la liturgia pasquale potremo celebrare, il centro della nostra fede: il corpo e il sangue di Cristo dato per noi e per tutti”.
In questo Sabato santo della fede preghiamo per i nostri pastori, perché, pur costretti, come tutti, a starsene al chiuso, si aprano all’ascolto dei figli che aspettano una voce veramente paterna. Una voce per l’anima.

La danza macabra

Dipinto di Frans Francken de Jonge (il Giovane), “De Dood nodigt de oude rijkaard uit voor de laatste dans” (La morte invita il vecchio ricco all’ultima danza), XVII secolo, Museo della Banca nazionale del Belgio, Brussel. In primo piano vediamo un uomo ricco che conta i suoi soldi ed è scioccato quando vede la morte. La morte è presentata come uno scheletro e suona il violino. Si appoggia su una clessidra con un piede, indicando che al ricco non rimane molto tempo prima di morire. Sullo sfondo vediamo un giovane che incontra la morte e che potrebbe rappresentare il vecchio nella sua giovinezza, confrontato con la sua mortalità, ma “guadagnando” tempo. Potrebbe anche essere un altro giovane, per chiarire che la morte può venire in qualsiasi momento, indipendentemente dall’età. Queste rappresentazioni fanno parte della tradizione medievale del “Memento mori” (Ricordati che morirai) e della “Danza macabra”.
Il dipinto aveva una funzione moralizzante, ricordando al suo pubblico che la vita e tutte le ricchezze terrene sono deperibili. Nel Medioevo, la transitorietà della ricchezza terrena era uno dei temi preferiti nell’arte. Oltre a questo dipinto, la collezione del Museo della Banca nazionale del Belgio contiene anche una serie di incisioni o stampe che avevano lo scopo di incoraggiare le persone a condurre una vita esemplare e religiosa, invece di dedicarsi a piaceri terreni, come la ricchezza. Nella tradizione cristiana, la salvezza dell’anima, a differenza della ricchezza, è durata per sempre.
Il tema della “Danza macabra” si basa su un’allegoria tardo-medievale, che consiste nella morte o in una personificazione della morte che convoca i rappresentanti di tutti i ceti sociali a ballare presso la tomba, in genere con un papa, un imperatore, un re, un bambino e un lavoratore, per ricordare alle persone la fragilità delle loro vite e quanto vane fossero le glorie della vita terrena. Le sue origini sono postulate da testi di sermoni illustrati. Il primo schema visivo registrato era un murales ormai perduto nel Cimitero dei Sacri Innocenti a Parigi, dal 1424 al 1425.
Il “Danse macabre, Opus 40″, è una poesia per orchestra, scritta nel 1874 dal compositore francese Camille Saint-Saëns. È iniziato nel 1872 come una canzone d’arte per voce e pianoforte con un testo francese del poeta Henri Cazalis, basato su un’antica superstizione francese. Nel 1874, il compositore espande e rielabora il brano in una poesia di tono, sostituendo la linea vocale con una parte di violino solista. Danse macabre, come tema, doveva rappresentare come la morte fosse il grande equalizzatore sociale – nessuno sfugge alla danza con la morte – e c’erano un certo numero di dipinti e opere d’arte ispirati da questa filosofia. Quando Saint-Saëns inizialmente scrisse il suo Danse macabre, in realtà era una canzone d’arte. Henri Cazalis scrisse versi come “Le ossa dei ballerini si sentono spezzare”, ma due anni dopo Saint-Saëns sostituì la voce con il violino e la dissonanza aumentò la sua tensione.
“Ne timueris cum divite non descendet in sepulcrum gloria eius – Non temere, il denaro non scenderà con il ricco nel sepolcro” (Cfr. Salmo 48,14-21).

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