Il motu proprio ‘Magnum Principium’ per una liturgia vitale

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Nei primi giorni di settembre papa Francesco ha modificato la normativa canonica relativa alla traduzione in lingua volgare dei libri liturgici con il Motu proprio ‘Magnum Principium’, che entra in vigore dal 1° ottobre. Il motu proprio cambia il modo in cui i testi liturgici vengono revisionati e approvati, riequilibrando le competenze di Conferenze Episcopali e Sede Apostolica, dando a quest’ultima il compito di confermare ogni eventuale modifica.

Le modifiche del Codice di Diritto Canonico riguardano il canone 838, e in particolare i commi 2 e 3. Un provvedimento nel quale, richiamando il Concilio Vaticano II, Francesco stabilisce che la traduzione, approvata dalle Conferenze episcopali nazionali, non vada più sottoposta ad una revisione da parte della Sede apostolica (recognitio), ma alla sua conferma (confirmatio), che, come ha spiegato mons. Arthur Roche, arcivescovo segretario della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, “non si configura pertanto come un intervento alternativo di traduzione, ma come un atto autoritativo con il quale il dicastero competente ratifica l’approvazione dei vescovi”.

Nell’introduzione al Motu proprio papa Francesco ha scritto del valore della modifica: “L’importante principio, confermato dal Concilio ecumenico Vaticano II, secondo cui la preghiera liturgica, adattata alla comprensione del popolo, possa essere capita, ha richiesto il grave compito, affidato ai Vescovi, di introdurre la lingua volgare nella liturgia e di preparare ed approvare le versioni dei libri liturgici…

La Chiesa Latina era consapevole dell’incombente sacrificio della perdita parziale della propria lingua liturgica, adoperata in tutto il mondo nel corso dei secoli, tuttavia aprì volentieri la porta a che le versioni, quali parte dei riti stessi, divenissero voce della Chiesa che celebra i divini misteri, insieme alla lingua latina.

Allo stesso tempo, specialmente a seguito delle varie opinioni chiaramente espresse dai Padri Conciliari relativamente all’uso della lingua volgare nella liturgia, la Chiesa era consapevole delle difficoltà che in questa materia potevano presentarsi. Da qui una serie di provvedimenti emanati nel corso dei decenni dalla Sede apostolica”.

Il papa ha sottolineato la validità del documento per continuare il rinnovamento della vita liturgica: “Affinché le decisioni del Concilio circa l’uso delle lingue volgari nella liturgia possano valere anche nei tempi futuri, è oltremodo necessaria una costante collaborazione piena di fiducia reciproca, vigile e creativa, tra le Conferenze episcopali e il dicastero della Sede Apostolica che esercita il compito di promuovere la sacra Liturgia, cioè la Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti. Perciò, affinché continui il rinnovamento dell’intera vita liturgica, è sembrato opportuno che alcuni principi trasmessi fin dal tempo del Concilio siano più chiaramente riaffermati e messi in pratica”.

Il provvedimento papale di quattro paragrafi precisa che regolare la sacra Liturgia ‘compete propriamente alla Sede Apostolica e, a norma del diritto, al Vescovo diocesano’ (1); è ‘di competenza della Sede Apostolica ordinare la sacra liturgia della Chiesa universale, pubblicare i libri liturgici, rivedere gli adattamenti approvati a norma del diritto dalla Conferenza episcopale, nonché vigilare perché le norme liturgiche siano osservate ovunque fedelmente’ (2);

‘spetta alle Conferenze Episcopali preparare fedelmente le versioni dei libri liturgici nelle lingue correnti, adattate convenientemente entro i limiti definiti, approvarle e pubblicare i libri liturgici, per le regioni di loro pertinenza, dopo la conferma della Sede Apostolica’ (3); e, infine (4), ‘al Vescovo diocesano nella Chiesa a lui affidata spetta, entro i limiti della sua competenza, dare norme in materia liturgica, alle quali tutti sono tenuti’.

Il Motu Proprio stabilisce anche il valore della traduzione alfine di annunciare la salvezza: “Fine delle traduzioni dei testi liturgici e dei testi biblici, per la liturgia della parola, è annunciare ai fedeli la parola di salvezza in obbedienza alla fede ed esprimere la preghiera della Chiesa al Signore.

A tale scopo bisogna fedelmente comunicare ad un determinato popolo, tramite la sua propria lingua, ciò che la Chiesa ha inteso comunicare ad un altro per mezzo della lingua latina. Sebbene la fedeltà non sempre possa essere giudicata da parole singole ma debba esserlo nel contesto di tutto l’atto della comunicazione e secondo il proprio genere letterario, tuttavia alcuni termini peculiari vanno considerati anche nel contesto dell’integra fede cattolica, poiché ogni traduzione dei testi liturgici deve essere congruente con la sana dottrina”.

Per questo mons. Roche ha fornito una chiave di lettura alla modifica: “Lo scopo della modifica è definire meglio i ruoli della Sede apostolica e delle conferenze dei vescovi, chiamate a operare in dialogo tra loro, nel rispetto della propria competenza, che è differente e complementare, in ordine alla traduzione dei libri tipici latini, come degli eventuali adattamenti, che possono riguardare testi e riti.

E ciò al servizio della preghiera liturgica del popolo di Dio”. Commentando il Motu Proprio il prof. Andrea Grillo, docente di Teologia Sacramentaria presso la Facoltà Teologica del Pontificio Ateneo S. Anselmo di Roma, dal suo blog ‘Come se non’, ha spiegato il significato della traduzione ‘fedele’ al testo:

“Essa comporta una duplice fedeltà: non solo al testo, ma anche al destinatario. Per garantire questa duplice fedeltà, non è sufficiente una competenza centrale, ma è decisiva anche una competenza locale. La logica del Motu Proprio è quella di una ‘riconsiderazione della periferia’: per rendere pienamente il significato di un testo liturgico, originariamente latino, dobbiamo entrare nella lingua del popolo non solo con la testa, ma anche con il corpo.

Questo possono farlo non funzionari romani, ma Vescovi in loco. Una fedeltà solo letterale contraddice la complessità della struttura ecclesiale e della storia dei popoli. Il riferimento al Concilio Vaticano II è l’orizzonte in cui per essere fedeli alla tradizione occorre riconoscersi la possibilità di cambiare… Per passare dal latino alle lingue parlate occorre non semplicemente una trasposizione lessicale, ma sempre anche una interpretazione culturale, esistenziale, storica, sociale.

Quella che sembra a prima vista una distinzione giuridica e fredda, permette di far entrare la freschezza e la ricchezza delle vite dentro le parole della liturgia. Le quali sanno essere fedeli al latino solo se restano fresche e vive. Una teologia della liturgia partecipata e una ecclesiologia di comunione sono il presupposto e l’effetto di questa importante riforma del codice. E l’unità è garantita non dall’arretrare sul latino, ma dall’avanzare nella traduzione delle lingue del popolo”.

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