Pierbattista Pizzaballa ordinato vescovo: i cristiani in Terra santa dono per tutti

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L’unico strumento nelle nostre mani per evitare che i cristiani ‘emigrino dal Medio Oriente, o vengano fatti uscire da progetti non chiari’, è trovare sempre ‘forme antiche e nuove per essere Chiesa in uscita, che ha a cuore la promozione di spazi di incontro e riconciliazione’:

così ha detto il cardinale Leonardo Sandri, prefetto della Congregazione per le Chiese Orientali nell’omelia della concelebrazione eucaristica per l’ordinazione episcopale del francescano Pierbattista Pizzaballa, nominato lo scorso 24 giugno arcivescovo titolare di Verbe e amministratore apostolico del Patriarcato di Gerusalemme dei Latini, celebrata nella cattedrale di Bergamo sabato 10 settembre, insieme a mons. Fouad Twal, patriarca emerito di Gerusalemme, e mons. Francesco Beschi, vescovo della diocesi lombarda. Con il porporato hanno concelebrato una trentina tra arcivescovi e vescovi, tra i quali i nunzi apostolici in Israele, Palestina, Giordania, Libano, Cuba, Singapore e Canada.

Tra i presenti anche l’arcivescovo di Akka dei greco-melkiti, l’arcivescovo maronita di Haifa, il vicario apostolico dell’Arabia e quello di Istanbul. Era presente inoltre una delegazione ecumenica, con l’arcivescovo Nektarios, inviato dal patriarca greco-ortodosso di Gerusalemme. Nel tratteggiare la figura e la missione episcopale, il card. Sandri ha sottolineato:

“Nel mistero della Chiesa, insieme al vescovo Pierbattista, ci rendiamo conto che al centro non c’è un uomo, ma la grazia di Dio che ha operato e opererà ancora più efficacemente dentro di lui. Ce lo ha ripetuto san Paolo, le cui parole appena proclamate sono diventate il tuo motto episcopale: ‘Sufficit tibi gratia mea – Ti basta la mia grazia’. E’ una espressione ben lungi da un vago sentimentalismo o da una fede disincarnata. Paolo arriva a ‘vantarsi ben volentieri delle proprie debolezze, perché dimori in lui la potenza di Cristo’, di fronte ad una situazione di grande difficoltà nell’esercizio del ministero apostolico che gli è stato affidato dal Signore”.

Riprendendo le letture dell’ordinazione il prefetto della Congregazione per le Chiese Orientali si è soffermato sul testo del libro di Isaia, sottolineando che il vescovo deve annunciare la consolazione di Dio: “Il testo del profeta Isaia, tratto dal cosiddetto ‘libro della consolazione’, pone l’uomo di ogni tempo anzitutto dinanzi ad una domanda: ‘Perché spendi denaro per ciò che non sazia e non disseta, ritrovandoti ultimamente come il popolo disperso e esiliato a Babilonia?’.

La risposta però consiste non in un giudizio di condanna da parte di Dio, ma in una promessa di fedeltà e di alleanza eterna. L’iniziativa ancora una volta è del Signore che redime, raduna dalla dispersione, ama e si prende cura. Ma Dio ha bisogno del profeta che se ne faccia portavoce ed interprete, uno che viva tra gli uomini e sia capace di ridestare in loro la fame e la sete dell’Autore della Vita.

Il Vescovo allora, superato il senso di inadeguatezza e confermato nell’assoluto primato della grazia, di cui ha fatto egli per primo esperienza, passa annunciando la consolazione che viene da Dio ‘consolate, consolate il mio popolo; come sono belli sul monte i piedi del messaggero che annuncia la pace’”.

Riferendosi in particolare a mons. Pizzaballa, il porporato ha indicato nel vescovo un uomo bisognoso di una ‘speranza affidabile per la propria vita e il proprio destino’: “Tanti cuori in Terra Santa e particolarmente nel territorio del Patriarcato Latino hanno sete di giustizia e di pace: dimensioni fondamentali del vivere umano, che prima ancora che rivendicate come diritto dagli altri devono essere desiderate e operate nei rapporti dentro la Chiesa e tra le Chiese, oltre che con i credenti Ebrei e Musulmani.

Essere vescovo per la Chiesa Latina che è in Gerusalemme, amministrandola a nome e per conto del Santo Padre, come pure guidando l’Assemblea degli Ordinari Cattolici di Terra Santa, è compito senz’altro arduo, ma potrà essere vissuto pieno di gioia e di serena determinazione, perché ancorati nella Parola del Signore e non nei nostri progetti umani… Sacerdoti e fedeli, guidati dal Vescovo, dovranno avere ogni giorno il coraggio di scavare più in profondità dentro il proprio cuore, attraverso le vicende della storia, per ritrovare il Cristo che ne è il Signore.

Allora la comunità cristiana, che chiede di essere preservata, sostenuta e protetta, continuerà ad essere dono per tutti, per coloro che abitano quei luoghi da secoli, ma anche per i pellegrini e per le migliaia di lavoratori migranti che ormai ne fanno stabilmente parte. L’unico strumento nelle nostre mani per evitare che i cristiani emigrino dal Medio Oriente, o vengano fatti uscire da progetti non chiari, è trovare sempre forme antiche e nuove per essere chiesa in uscita, che ha a cuore la promozione di spazi di incontro e riconciliazione”.

Questo è lo stile di un pastore per il card. Sandri, che ha ripreso la Regola pastorale di san Gregorio Magno, che afferma: “La Verità stessa, quando apparve in mezzo a noi assumendo la natura umana, si dà alla preghiera sul monte e compie miracoli nelle città, suggerendo con l’esempio ai pastori saggi di accostarsi con amore alle necessità degli afflitti, pur tenendo lo sguardo alla contemplazione.

La carità infatti raggiunge le altezze quando scende con gesto d’amore alle infime necessità dei poveri, e quanto è maggiore la benevolenza nel piegarsi verso gli umili, tanto è più rapido il volo verso Dio”.

Al termine della concelebrazione mons. Pizzaballa ha ringraziato coloro che hanno partecipato alla celebrazione episcopale: “Ho trascorso questi ultimi giorni di preparazione al nuovo ministero affidatomi presso il santuario di Caravaggio, dove siamo stati tutti almeno una volta e i cui ricordi affondano nella mia primissima infanzia e da lì ho ripercorso il cammino di grazia che mi ha accompagnato in tutti questi anni.

La grazia ha le sembianze di volti e nomi, attraverso i quali, non sempre consapevolmente, ho ricevuto tanto… La consapevolezza della grazia non esonera, però, ma spinge all’impegno affinché abbiamo quanto basta per lavorare nel campo di Dio che è la Chiesa. Qui dico con fiducia e convinzione il mio voler essere per tutti! Se ciò che sono è da tanti non posso che vivere per tanti!”

Ed ha spiegato la scelta dello stemma: “Nello stemma che ho scelto ho voluto mettere solo due cose: Gerusalemme e la Parola. Dalla Parola desidero iniziare e fondare il ministero che mi è stato assegnato perché poco alla volti ci plasmi, come ha fatto dall’inizio per generazioni di credenti, e illumini le nostre scelte, le nostre relazioni e le nostre città dove è calata la vita di noi tutti, soprattutto su Gerusalemme, che ci richiama tutti.

E Gerusalemme. Chiedo, insieme a tanti, pace per Gerusalemme ma soprattutto la pace di Gerusalemme, che è la pace offerta nel cenacolo della Cena e di Pentecoste: pace che non è soppressione delle differenze, annullamento delle distanze, ma nemmeno tregua o patto di non belligeranza, garantito da accordi o separazioni. Chiedo una pace che sia accoglienza cordiale e sincera dell’altro, volontà tenace di ascolto e di dialogo, strade aperte su cui la paura e il sospetto cedano il passo alla conoscenza, all’incontro e alla fiducia, dove le differenze siano opportunità di compagnia e non pretesto per il rifiuto reciproco”.

Nell’omelia domenicale mons. Pizzaballa ha ripreso il tema dell’unità della Chiesa che vive il dono della misericordia: “La realtà dell’uomo è una realtà che incontra spesso la possibilità di perdersi. Perdersi non è inteso qui in termini morali, di depravazione, di peccato: questa, semmai, è una conseguenza. Ci perdiamo quando dimentichiamo a chi apparteniamo. Per stare all’immagine del Vangelo, ci si perde quando la pecora non appartiene più al pastore, la dracma alla donna, il figlio al padre.

Ci perdiamo quando ci allontaniamo dalla relazione che ci fa vivere, come il figlio minore che, lontano da casa, muore di fame. Vorrebbe saziarsi delle carrube dei porci, ma nessuno gli dà nulla; e non perché tutti siano cattivi, ma perché nessuno, se non il padre, può dare la vita”.

Ma Dio è sempre pronto al rinnovare sempre l’alleanza con l’uomo: “Ogni nostro perdersi è carico di una speranza e di una promessa singolare. Perché solo chi è perso può fare l’esperienza di essere ritrovato. L’unica condizione, quella che ci scandalizza davvero, è il riconoscersi bisognosi di una salvezza compiuta in quel modo, cioè nel riconoscersi grati a un Dio che viene a cercarci proprio lì dove ci siamo persi. L’unica condizione per lasciarci trovare, insomma, è il riconoscere di essere persi”.

Dalla scoperta di tale verità inizia una diversa lettura della propria vita: “Da quella presa di coscienza inizia il suo cammino di salvezza, che sarà ancora lungo e porterà alla scoperta di un padre diverso da come lo aveva sempre pensato. Quel versetto, quella presa di coscienza, apre il passaggio al ritrovamento, e rende possibile tutto il resto.

E tornato a casa, la sua fame troverà non soltanto del pane, ma un ricco banchetto di festa. Se la fame è assenza di relazione, il ritrovarsi è una festa, l’unica vera festa possibile. Non è un caso che anche per noi oggi la relazione più profonda e più vera che noi viviamo è data in un banchetto, in una cena, l’Eucarestia. Dunque, è questo riconoscersi persi che fa la differenza. Differenza dal figlio maggiore, che non sa di essere perso anche lui, pur essendo rimasto sempre in casa, ossequioso e obbediente”.

Mons. Pizzaballa ha concluso la meditazione affermando che la vera festa è fatta dal Padre che ritrova la relazione con l’uomo: “Dentro c’è la festa. E la parabola della misericordia sottolinea che la fa innanzitutto chi ritrova, cioè il pastore, la donna, il padre: è la festa di Dio, la festa per una relazione finalmente ristabilita, senza la quale neanche il Signore sembra poter vivere”.

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