Martini ed Eco in dialogo sulla speranza

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Le strane coincidenze: Umberto Eco è morto ad 84 anni, forse l’intellettuale italiano più celebre al mondo, grazie anche al successo del suo romanzo ‘Il nome della rosa’, edito nel 1980; al card. Carlo Maria Martini la città milanese ha intitolato una via a lato del Duomo; in questa occasione il card. Scola ha definito il gesto “un segno per la chiesa ambrosiana, per la città tutta e il territorio ambrosiano che sono certo avrà eco in Italia e non solo”.

Una coincidenza importante per la cultura italiana, che forse oggi ha perso il senso del dialogo, che invita alla costruzione di una società aperta al confronto tra credenti e non credenti, anticipando forse le aperture di papa Francesco sulla costruzione di ponti.

Per caso, sistemando i libri sconquassati dai figli nella libreria, ho scovato un libro, nato da uno scambio di otto lettere tra Umberto Eco e il card. Carlo Maria Martini, apparse sulla rivista ‘Liberal’ negli anni 1995/1996 sul tema: ‘In cosa crede chi non crede?’, con interventi di Montanelli, Scalfari, Severino, Sgalambro, Foa e Martelli.

Umberto Eco ha preso spunto dalla fine del millennio per rileggere nell’attualità (di allora) il libro dell’Apocalisse: “L’Apocalisse può essere letto come una promessa, ma anche come l’annuncio di una fine, e così viene riscritto a ogni passo, in questa attesa del Duemila, anche da chi non l’ha mai letto:

non più le sette trombe, e la grandine, e il mare che diventa sangue, e la caduta delle stelle, e le cavallette che sorgono col fumo dal pozzo dell’abisso e gli eserciti di Gog e Magog, e la Bestia che sorge dal mare, bensì il moltiplicarsi dei depositi nucleari ormai incontrollati e incontrollabili, e le piogge acide, e l’Amazzonia che scompare, e il buco dell’ozono, e la migrazione di orde diseredate che salgono a bussare, talora con violenza, alle porte del benessere, e la fame di interi continenti, e nuove inguaribili pestilenze, e la distruzione interessata del suolo, e i climi che si modificano, e i ghiacciai che si scioglieranno, e l’ingegneria genetica che costruirà i nostri replicanti, e per l’ecologismo mistico il suicidio necessario dell’umanità stessa, che dovrà perire per salvare le specie che ha quasi distrutto, la madre Gea che ha snaturato e soffocato.

Stiamo vivendo (e sia pure nella misura disattenta a cui ci hanno abituato i mezzi di comunicazione di massa) i nostri terrori della fine; e potremmo persino dire che li viviamo nello spirito del ‘bibamus, edamus, cras moriemur’, celebrando la fine delle ideologie e della solidarietà nel vortice di un consumismo irresponsabile. Così che ciascuno gioca col fantasma dell’Apocalisse e al tempo stesso lo esorcizza, tanto più lo esorcizza quanto più inconsciamente lo teme, e lo proietta sugli schermi in forma di spettacolo cruento, sperando con questo di averlo reso irreale.

Ma la forza dei fantasmi sta proprio nella loro irrealtà. Ora azzardo che il pensiero della fine dei tempi sia oggi più tipico del mondo laico che di quello cristiano. Ovvero, il mondo cristiano ne fa oggetto di meditazione, ma si muove come se fosse giusto proiettarlo in una dimensione che non si misura coi calendari; il mondo laico finge di ignorarlo, ma ne è sostanzialmente ossessionato.

E questo non è un paradosso, perché non fa altro che ripetere quanto è avvenuto nei primi mille anni… Ma già alcuni dei Padri avevano scritto che mille anni per il Signore sono un giorno, o un giorno mille anni, e che dunque il computo non andava fatto alla lettera; e in Agostino la lettura del passo sceglierà il senso ‘spirituale’.

Sia il millennio che la ‘Città di Dio’ non sono eventi storici, bensì mistici, e l’Armageddon non è di questa terra; non si nega certo che un giorno la storia possa compiersi quando il Cristo scenderà a giudicare i vivi e i morti, ma quello su cui si pone l’accento non è la fine dei secoli, bensì il loro procedere, dominato dalla idea regolativa (non dalla scadenza storica) della Parusia.

Con questa mossa, non solo Agostino, ma la Patristica nel suo complesso, dona al mondo l’idea della Storia come percorso in avanti, idea che era estranea al mondo pagano. Persino Hegel e Marx sono debitori di questa idea fondamentale, come ne sarà prosecutore Teilhard de Chardin. Il cristianesimo ha inventato la Storia, ed è infatti il moderno Anticristo a denunciarla come malattia”.

A questa lettera fa seguito la risposta del card. Martini, ribaltando la questione e facendo balenare la speranza di un fine e non un’illusione di una fine: “I problemi etici sono certo tra quelli che più immediatamente ci preoccupano. Ma i fatti del giorno che più impressionano l’opinione pubblica (mi riferisco in particolare a quelli che toccano la bioetica) sono spesso eventi ‘di frontiera’, in cui occorre anzitutto capire di che si tratta dal punto di vista scientifico, prima di dare con precipitazione giudizi morali su cui facilmente ci si divide.

E’ importante mettere a fuoco anzitutto i grandi orizzonti entro i quali si forma il nostro giudizio. E’ a partire da essi che si può cogliere anche il perché di valutazioni pratiche contrastanti. Lei pone dunque il problema della speranza e perciò del futuro dell’uomo, all’appressarsi del secondo millennio. Lei evoca quelle immagini apocalittiche che si dice abbiano fatto tremare le moltitudini verso la fine del primo millennio.

Anche se ciò non è vero, è ben trovato, perché la paura del futuro esiste, i millenarismi si sono riprodotti costantemente nei secoli, sia in forme settarie sia in quei chiliasmi impliciti che animano nel profondo i grandi movimenti utopici. Oggi poi le minacce ecologiche stanno prendendo il posto delle fantasie del passato e la loro scientificità le rende ancora più sconvolgenti…

Qui io ritengo che ci sia ancora molta strada da fare, e che questa strada si chiami esercizio di intelligenza e coraggio nello scrutare insieme le cose semplici. Spesso Gesù dice nei Vangeli: ‘Chi ha orecchi per intendere intenda!… fate attenzione!… non intendete e non capite ancora?’ (Marco 4,9; 8,17 ecc.). Egli non fa appello a teorie filosofiche o a dispute di scuola ma a quell’intelligenza che è data a ciascuno di noi per capire il senso degli eventi e orientarsi.

Ogni minimo progresso in questa intesa sulle grandi cose semplici segnerebbe un passo avanti anche nella condivisione delle ragioni della speranza… Perché un pensiero della fine renda attenti al futuro come al passato da ricomprendere in maniera critica è necessario che questa fine sia ‘un fine’, abbia il carattere di un valore finale decisivo, capace di illuminare gli sforzi del presente e darvi significato.

Se il presente ha senso in rapporto a un valore finale riconosciuto e apprezzato, che io posso anticipare con atti di intelligenza e di responsabile scelta, esso mi permette anche di riflettere sugli errori del passato senza angoscia”.

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