A Bose misericordia e perdono

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La Comunità di Bose ha compiuto 50 anni nel giorno della chiusura del Concilio Vaticano II: essa nacque l’8 dicembre 1965, quando Enzo Bianchi decise di iniziare a vivere, solo, in una casa affittata presso le cascine di Bose, una frazione del comune di Magnano (Biella). I primi confratelli giunsero tre anni dopo, e fra essi c’erano anche una donna e un pastore protestante.

Il 17 novembre 1967 il vescovo di Biella, mons. Carlo Rossi, dispose l’interdetto per la presenza di non cattolici nella comunità, ma per intercessione del card. Michele Pellegrino, arcivescovo di Torino, l’interdetto fu rimosso l’anno successivo. Lo stesso arcivescovo di Torino, approvò la regola monastica il 22 aprile 1973 in occasione delle professioni dei primi sette fratelli.

Il vescovo di Biella, mons. Gabriele Mana, ha confermato, il 29 giugno 2010, l’acquisizione della personalità giuridica canonica e approvato alcune modifiche allo statuto con l’annessa regola monastica. E nella ‘Lettera agli amici’ per l’avvento del 2015 il priore Bianchi ha ricordato che grazie al Concilio Vaticano II:

“sono emerse come urgenti due indicazioni del Vangelo: la comunione visibile tra tutti i cristiani battezzati nel nome del Signore Gesù e l’ascolto dell’umanità tutta, anche quella non cristiana, impegnata in altre vie di spiritualità o in un cammino di umanizzazione ispirato dalla coscienza.

Questo è stato il cambiamento autentico e concreto nello stare della chiesa nella storia del mondo. Se anche il nostro cammino monastico ecumenico a Bose è stato possibile, lo dobbiamo a questo evento. Quanto a quest’ultimo, io non sono sicuro di nulla, se non che abbisogna anch’esso della misericordia del Signore!

Per questo non facciamo nessuna commemorazione e nessuna festa: non perché vogliamo essere diversi dagli altri, ma perché mettiamo nelle mani del Signore il cammino percorso e gli diciamo e gli ripetiamo ogni giorno ‘Kyrie, eleison!’…

Questo messaggio scandaloso della misericordia resta difficile da capire per quanti si sentono giusti, quello che si sentono in pace con Dio, ma dovremmo dire, secondo i vangeli sinottici, per i quali Gesù non è assolutamente venuto perché non è venuto né per i sani né per i giusti ma per i malati e per i peccatori.

Così egli ha dichiarato. Ma Gesù è sempre compreso e atteso da chi si riconosce nel peccato, bisognoso del perdono di Dio. Così è stato durante il ministero di Gesù, così è stato nella storia della chiesa, così è ancora ai nostri giorni”.

L’impegno dei monaci di Bose consiste nel rendere testimonianza alla misericordia di Dio: “Vorremmo saper dare testimonianza a Cristo, l’unico Signore che riconosciamo, mentre su di noi chiediamo solo a voi la preghiera e al Signore la sua misericordia.

Non sappiamo dire se questa vicenda è stata voluta dal Signore: lo speriamo. Non sappiamo dire se facciamo il bene o se siamo di ostacolo al Signore: ce lo dirà il Signore stesso nel giorno del giudizio…

Al centro di tutto il nostro vivere c’è il Signore Gesù, quest’uomo che ci ha insegnato a vivere in questo mondo, quest’uomo che è passato facendo solo il bene, quest’uomo che era straordinario perché ‘umanissimo’, quest’uomo che raccontava Dio con la sua carne, la sua vita, la sua parola.

Egli era ed è Dio, parola in verità ambigua, ma che per noi significa la verità, l’eternità, ciò che ci precede, ci accompagna, ci segue, qui e al di là della nostra morte. Sì, noi lo amiamo senza averlo visto e senza vederlo crediamo in lui che dà senso alle nostre vite, sempre inadeguate in ogni relazione vissuta: con gli uomini e le donne che incontriamo e con lui, nel quale c’è tutta l’umanità e tutta la divinità”.

Nella vita monastica della comunità di Bose ci sono due parole: misericordia e perdono attraverso un itinerario di riflessione sull’arte del perdono: come annunciare oggi il perdono di Dio? Come risanare la memoria ferita? Dove ritrovare la gioia del perdono tra le chiese e gli uomini?

Quali sono oggi i luoghi del perdono cristiano (gli sposi che si separano, la ricostruzione della fiducia dopo i conflitti, la ricomposizione delle relazioni interpersonali e comunitarie)? Come coniugare giustizia e perdono nella loro dimensione pubblica e storica?

A queste domande ha risposto un documento del convegno svoltosi nello scorso settembre: “E’ difficile vivere la misericordia e il perdono… Abbiamo anche ascoltato che quel Volto misericordioso attende di riflettersi nell’esistenza del figlio perdonato.

Innanzitutto come esultanza di chi si riconosce perdonato e ne gioisce, e poi come capacità di perdono che anche il figlio perdonato è chiamato ad accordare al proprio fratello. Il comando di Gesù, più volte ripreso dai relatori di questi giorni: ‘Siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso’ (Lc 6,36), ne è la formulazione più chiara.

Tale dinamica di perdono reciproco l’abbiamo osservata nella lettura della storia di Giuseppe e i suoi fratelli, dove il perdono è apparso non come fatto di un momento, ma frutto di elaborazione, tramite il ritorno (teshuvah) e il cambiamento di mente (metanoia).

La riconciliazione è un cammino, e ha i suoi tempi; i fratelli separati hanno bisogno di tempo per ridiventare fratelli. Non è una semplice parola o un atto giuridico che li ricostituirà fratelli, ma il tornare a frequentarsi, ad incontrarsi e a guardarsi negli occhi. Questo dovremmo ricordarlo ogni volta che, anche a ragione, lamentiamo lentezza nel nostro cammino ecumenico”.

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