Il fascino delle rovine

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A Palazzo Althemps a Roma, fino al 31 gennaio 2016, si visita la mostra “La forza delle rovine” promossa dalla Soprintendenza Speciale per il Colosseo, dal Museo Nazionale Romano e dall’Area archeologica di Roma, per la cura di Marcello Barbanera e Alessandra Capodiferro.

Si tratta della selezione ragionata di 120 opere suddivise in nove sezioni: tra reperti classici – sculture, pitture, incisioni, acquerelli, libri antichi – e testimonianze moderne – fotografie, brani musicali e cinematografici. Nell’insieme viene sviluppato un ampio discorso sulle rovine del passato intese sia come luoghi della memoria storica e artistica che come sorgenti di stimoli creativi per il presente. La mostra è disseminata attraverso tutte le sale – a volte in modo un po’ enigmatico – e interagisce con le formidabili opere scultoree della collezione permanente. Chi visita la mostra al Museo storico romano di Palazzo Althemps ha anche l’occasione di visitare i nuovi e bellissimi spazi espositivi aperti al pubblico: uno per tutti la suggestiva Cappella al secondo piano.

La mostra “La forza delle rovine” (Catalogo Electa) ha carattere saggistico – come spesso succede oggi – e la scelta delle opere segue di più criteri intellettuali e documentari piuttosto che storici ed estetici. Se lo studio archeologico e sistematico delle rovine del mondo classico cominciò nel ‘700 con l’Illuminismo e il Neoclassicismo, abbandonando gli approcci moralistici e collezionistici dei secoli precedenti, l’”estetica delle rovine” – come già ricordava un fascicolo della torinese Rivista di estetica del 1981  – ebbe inizio con il Romanticismo: quando ciò che era segnato da morte e distruzione divenne un vero e proprio oggetto di culto. Osserviamo che in simili mostre sarebbe importante che la trama concettuale e critica non sovrastasse mai le occasioni di fruizione estetica e che i documenti avessero livello almeno pari alle opere esposte nelle varie sale: In modo che il pubblico possa agevolmente e piacevolmente passare dall’una all’altra cosa. Requisiti che a volte sono stati rispettati, altre meno.

La mostra  sul “Fascino delle rovine” – comunque ricca di iconografie e di idee – è posta sotto il segno di un pensiero di Walter Benjamin: “Le allegorie sono, nel campo del pensiero, ciò che le rovine sono in quello delle cose”, sentenza da cui scaturiscono sia l’interesse per l’oggetto rovinoso del passato che la diagnosi della natura rovinosa del presente. Dilatata oltre l’archeologia la nozione di “rovina”, la mostra insegue “catastrofi” moderne e contemporanee, naturali e artificiali, come guerre, disastri nucleari e ambientali. Segnala “frammenti” di statue colossali, come il cosiddetto Polifemo della collezione Althemps, e “paesaggi di rovine” come quello di Roma che, dal XVI secolo, divenne location privilegiata per i  pittori che ritraevano i resti dei monumenti del passato. Nell’incisione domina l’”anatomia delle rovine” di Giambattista Piranesi, con incisioni prestate dall’Istituto Centrale per la Grafica di Palazzo Poli. Viene poi mostrato l’occhio meccanico dei fotografi di oggi, che coglie relitti industriali e umani, e si odono brani di musica con esempi di poesia: il “canto delle rovine”. Si giunge, infine, a problematizzare l’ironica sentenza di Denis Diderot “Beati gli antichi, che non avevano antichità”, per poi concludere – con eguale ironia – con la pubblicità della Gibaud che raffigura un uomo fasciato di lana elastica che sorregge con il capo l’architrave di un tempio greco.

Nel corso di questa galoppata intellettuale si vedono pure dei bei dipinti: come il “Ritratto della famiglia del fratello” di Bernardo Licinio (1535) in cui si esibisce una statuetta antica e il “Mario sulle rovine di Cartagine” di Michele de Napoli (1839-1840. ) pensoso sulla pur vittoriosa catastrofe di quella città. Dipinti che mostrano come l’antico si sia innestato nel presente, nel corso del tempo, a più livelli, segnalando così un possibile punto di fuga dalle strettoie della contemporaneità.

Nella foto: “Mario sulle rovine di Cartagine” di Michele de Napoli (1839-1840).

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