Cantare la professione di fede

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Nella lettera ai Romani, san Paolo manifesta un suo desiderio orante per i Giudei che, non volendo riconoscere la giustizia di Dio… e cercando di far sussistere la propria (Rm 10,2-3), non hanno raggiunto la giustificazione di Cristo e, pertanto, non sono entrati nel piano della salvezza. I Giudei, infatti, nella loro incredulità responsabile, si sono messi in uno stato di antitesi assoluta con la vera giustificazione che è dono d’amore elargito soltanto da Dio. L’uomo di fede, infatti, deve accogliere umilmente il dono nel cuore e viverlo in entusiasmo nella propria vita. Cristo è il punto d’arrivo cui tendeva tutto l’Antico Testamento. Con l’Incarnazione, il Verbo del Padre offre la salvezza a tutti gli uomini, ma la riceve soltanto chi dà il proprio assenso nell’intimo della sua persona rendendola visibile e udibile all’interno della comunità cristiana in cui vive.

Paolo, ancora nella lettera ai Romani, citando Deuteronomio 30,14, scrive: La parola è vicino a te, nella tua bocca e nel tuo cuore. Poi continua: Questa è la parola della fede che noi proclamiamo: se tu professerai con la tua bocca Gesù come Signore e crederai nel tuo cuore che Dio lo ha risuscitato da morte, sarai salvato. Con il cuore, infatti, si crede per ottenere la giustificazione, con la bocca si fa la professione per ottenere la salvezza (Rm 10,8-10).  Questa professione di fede il credente la “rivela” quando, nella celebrazione della Messa, dopo la Liturgia della Parola, “dice” il Credo insieme ai suoi fratelli credenti.

Il Credo fu inserito nella Messa molto tardi. All’inizio, faceva parte della liturgia battesimale perché era professato soltanto da quelli che dovevano ricevere il battesimo. L’iniziativa di recitarlo nella Messa partì dall’Oriente, quando il vescovo Pietro Fullone lo introdusse ad Antiochia nel 471. Il Patriarca di Costantinopoli Timoteo, intorno al secolo 511, dispose che, prima di iniziare la Prece eucaristica, il Credo fosse pronunziato da tutta quanta l’assemblea. A Roma lo introdusse papa Benedetto VIII (1022-1024), in occasione dell’incoronazione di Enrico II (1014). Dapprima fu inserito soltanto nelle celebrazioni più solenni, poi fu esteso a tutte le domeniche e alle feste principali. L’esecuzione doveva essere fatta con una sorta di recitativo cantillato popolare per far partecipare tutti. Intorno al sec. XIII, non mancò il caso, come in altre parti della Messa, di infarcire il Credo con i tropi. Nei secoli XV-XVII, fu praticato l’uso di sostituire alcuni versetti del testo con interventi organistici, ma tale prassi, chiamata dell’alternatim, apparve un grave abuso che decadde nel sec. XVII quando Clemente VIII, nel Caerimoniale episcoporum (1600), diede questa norma: Sed cum dicitur Symbolum in Missa non est alternandum cum organo, sed illum integrum per chorum cantu intelligibili proferatur. In seguito, nacquero molte melodie, alcune con formule ripetitive per alcuni articoli di fede.

Delle sei melodie riportate nel Kyriale Romanum, la più antica rimane quella del Credo I che fa da base al Credo II, IV e VI. Le melodie del Credo IV e III sono tardive, del periodo post-classico che va dal sec. IX al XVII. In questo periodo, cambia la tecnica compositiva rispetto a quella precedente del fondo primitivo. I canti si presentano più estesi, con ampi intervalli e in essi si avverte più chiaramente l’avvento della tonalità. Se togliamo la melodia del Credo IV e III, rimane autentica solo quella del Credo I. L’Edizione vaticana ci ha consegnato quattro melodie: la I autentica, in stile sillabico. La melodia si snoda attorno alla corda fondamentale di Sol con ruolo di corda dominante e di cadenza finale. Il procedimento compositivo è caratteristico del gregoriano antico. La melodia del II è variazione della I. Quella del III, De Angelis, è melodia di tipo tonale in stile semi-ornato del sec. XVII. La IV, che risale al sec. XV, è in stile sillabico caratterizzata da ampi intervalli e da un’estensione melodica che supera l’intervallo d’ottava. La produzione monodica del Credo, nelle fonti studiate da T. Miazga (1976), annovera più di 700 melodie, ma è possibile che il numero sia maggiore, e tutte di tipo gregoriano o d’imitazione gregoriana. Nella storia delle composizioni polifoniche e sinfonico-corali, la produzione è enorme e varia per forme e per stili.  

La Riforma liturgica del concilio ecumenico Vaticano II riporta il Simbolo o Professione di fede al suo fondamento. I Principi e Norme del Messale romano affermano che la professione di fede ha lo «scopo di suscitare nell’assemblea, dopo l’ascolto della Parola di Dio nelle Letture e nell’omelia, una risposta di assenso e di richiamare alla mente la regola di fede, prima di incominciare la celebrazione dell’Eucaristia» (n. 43). Il documento suggerisce, inoltre, che «nella scelta delle parti da cantare si dia la preferenza a quelle di maggiore importanza e soprattutto a quelle che devono essere cantate dal sacerdote e dal popolo insieme… In lingua latina sappiano cantare… specialmente il Simbolo della fede e la Preghiera del Signore» (n. 19). Il canto del Credo è professione di fede proclamata come atto personale, libero e gratuito. I Principi e Norme suggeriscono anche la forma esecutiva: «Il Simbolo… se recitato, si reciti dal sacerdote col popolo; se cantato si esegua normalmente da tutti o a cori alterni». E ci offre due modelli: il Simbolo niceno-costantinopolitano e il Simbolo apostolico concesso nel 1983.

Come professione di fede comunitaria, l’esecuzione prevede un linguaggio musicale incisivo e conciso di fluida semplicità in forma assembleare o responsoriale–battesimale o antifonale con l’alternatim. Ecco le possibili forme che consentono una partecipazione attiva e cosciente:

– Canto dei versetti a cori alterni o a blocchi con divisioni logiche o a forma dialogico-battesimale.

– Recitativi alternati con polifonie del testo che si riferiscono al Mistero che si sta celebrando in quella data Festività: Natale, Pasqua, Pentecoste…

– È, comunque, improponibile, l’esecuzione di un Credo a tipo di suite d’interminabili mottetti polifonici o a forma di cantata.

Non va dimenticato che gli slavi ortodossi eseguono la Professione di fede a quattro voci: si tratta, però, di una cantillazione polifonico-omofona uniforme. I Bizantini, invece, la recitano con una forma cantillata molto elementare.

Il Symbolum è, dunque, la carta d’identità con cui il credente riconosce la propria fede e la esprime narrandola in canora bellezza. La musica, per sua natura, ha una straordinaria capacità di narrare professando la propria fede. Se con il cuore si crede, con la bocca si professa la propria fede. Cuore e bocca: l’Amore è Mistero, esprimere l’Amore è cantare il Mistero. Nel momento sacramentale della celebrazione della Messa, al termine della Liturgia della Parola, il Credo, come atto di fede personale, non può essere delegato ad altri, così come ad altri non si delegano i propri gesti d’amore. Il Credo, infatti, col pretesto di vacua solennità, non può né deve essere eseguito come una sorta di piacevole riflessione artistica affidata o al gruppo di professionisti o ad avventurieri di zavorre anti-musicali. L’“esecuzione” del Symbolum deve essere vera e propria professione di fede proclamata e perciò cantata in entusiasmo come atto d’amore personale, cosciente, libero, gratuito e comunitario.

Il Credo, che sgorga dal cuore, fiorisce sulla bocca col canto: professione di fede testimoniata nell’incanto d’amore donato, accolto e ridonato.

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