Caritas indaga tra i migranti sfruttati nei campi

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Chi sono i caporali? Conterranei, parenti, amici più vicini. Tra gli schiavi dell’agricoltura ci si vende. Il dato emerge dal rapporto 2015 di Presidio, il progetto di Caritas italiana a tutela dei migranti che lavorano la terra di base in dieci località in Piemonte, Campania, Puglia, Calabria e Sicilia, nel volume ‘Nella terra di nessuno’, presentato ad Expo.

Sono cinque i profili dei caporali scovati nel rapporto. Il primo è il ‘caporale-lavoratore’, che svolge le stesse mansioni degli altri, ma porta manodopera e per questo ha piccoli benefit. C’è poi il ‘caporale-tassita’, che si fa pagare per il trasporto giornaliero sul campo all’inizio e alla fine dei turni. C’è il ‘caporale-venditore’ che si fa pagare per portare beni di prima necessità ai lavoratori. Quarto tipo è il ‘caporale-aguzzino’ che impone ad ogni suo sottoposto una tassa: è la tipologia più violenta. Ultimo caso è il ‘caporale-amministratore delegato’ che per ogni segmento della filiera del raccolto ha un guadagno extra.

I mille volti del caporalato sono uno degli aspetti più problematici della tratta dei lavoratori. In oltre sette casi su dieci chi parte contrae un debito, che dovrà estinguere con il lavoro delle sue braccia: un modo per legarsi indissolubilmente al lavoro nei campi. Il progetto Presidio segue in tutto 1.277 persone. La maggioranza dei lavoratori è concentrata tra Saluzzo (24,3%) e Foggia (19,2%). In maggioranza si tratta di burkinabè (250 circa), maliani (150), ghanesi (130), tunisini (100) e ivoriani (100).

I principali Paesi di provenienza dei caporali sono Burkina Faso, Ghana, Tunisia e Marocco. Nel Paese nordafricano, ad esempio, gli operatori segnalano l’esistenza di liste gestite da caporali stavolta italiani attraverso le quali si viene “selezionati” per entrare nel decreto flussi.
L’‘iscrizione’, illegale ovviamente, costa tra gli € 2/3.000. Il salario medio che guadagneranno nei campi va tra i 20 e i 25 euro, solo in pochissimi casi tra i 30 e i 40 euro al giorno. La metà di chi si trova a lavorare nei campi non ha un documento, ma questo viene percepito come un’urgenza solo in un caso su dieci, secondo i dati di Presidio.

Il problema più sentito, invece, è la casa, segnalata come priorità da tre schiavi del raccolto su dieci, soprattutto burkinabè (meno i tunisini). Due lavoratori su tre, infatti, sono costretti a vivere in baraccopoli. Sono 317 i casi di sfruttamento lavorativo (181 quello di sfruttamento multiplo) che sono stati poi seguiti da progetti di reinserimento sociale. Lo sfruttamento però va molto oltre i campi.

Basti pensare che degli oltre 5.400 casi accertati di sfruttamento tra il 2010 e il 2013 l’incidenza maggiore è in Emilia-Romagna (102 casi), seguita dalla Lombardia (60 casi). La maggior parte dei casi si concentrano al Nord Italia. Infatti secondo il dossier della Caritas lo sfruttamento lavorativo, pur se proibito dalle fondamentali Convenzioni dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, è ancora un fenomeno sottovalutato, ma per opinione unanime è anche la forma di schiavitù moderna più estesa e meno contrastata.

Le situazioni di sfruttamento lavorativo trovano terreno fertile in determinati settori economici che si prestano a pratiche abusive o irregolari: le macroaree della grey economy, del lavoro ‘clandestino’, del lavoro nero, sono tutti campi che favoriscono la nascita di relazioni di sfruttamento, che fondano impietose radici nella vulnerabilità di uomini, donne ed anche bambini, spesso privi di una libera alternativa tra la sottomissione ed il rifiuto.

Nella prefazione dell’indagine David Mancini, procuratore distrettuale antimafia de L’Aquila, ha scritto: “La condizione di vulnerabilità degli sfruttati, i timori delle vittime, la difficoltà di monitorare e di investigare degli organi competenti, l’assenza di validi strumenti normativi, sia in termini di assistenza e protezione delle vittime, sia in termini repressivi, sono alcune delle ragioni che rendono difficile l’emersione dei fenomeni criminali, in cui vittime ‘invisibili’ alimentano imponenti profitti di sistemi economici non tracciati.

In termini generali, si può dire che lo sfruttamento lavorativo avanza senza freni laddove manchino politiche nazionali strutturali e programmatiche tese a garantire contemporaneamente i diritti umani delle vittime e a sradicare i sistemi economici illegali sommersi”.

Riprendendo le parole di papa Francesco: ‘Lo sfruttamento fisico, economico, sessuale e psicologico di uomini, donne e bambini incatena decine di milioni di persone alla disumanizzazione e alla umiliazione’, il procuratore ha richiamato il bisogno di azioni concrete nel nostro Paese:

“Occorrono le azioni. In concreto, a livello nazionale, si impone la necessità di serie politiche nazionali anti tratta ed anti sfruttamento. In Italia, pur a fronte di esperienze uniche al mondo di assistenza alle vittime e contrasto alle organizzazioni criminali, ancora si naviga a vista. Mancano la programmazione e la stabilità delle azioni.

Manca un piano nazionale antitratta, un efficiente sistema di coordinamento delle azioni, una politica di investimento finanziario e culturale sulle azioni di contrasto allo sfruttamento delle persone. Manca un quadro normativo efficace che sappia graduare le risposte sanzionatorie e colmare le gravi lacune attuali…

L’esperienza del progetto Presidio di Caritas Italiana rappresenta la testimonianza più avanzata finora mai realizzata in Italia in materia di azioni concrete nel settore dello sfruttamento lavorativo e specificamente in quello dell’agricoltura. Il progetto oggi fornisce un’ampia ed aggiornata base di conoscenze e consente, ai più alti livelli di intervento, di disporre di dati, esigenze, criticità e conseguentemente, di un complesso apparato di possibili risposte.

Ogni amministratore pubblico, ogni responsabile di settori istituzionali coinvolti dovrebbe leggere e studiare i dati del progetto Presidio. L’esame della straordinaria relazione del lavoro svolto in diverse aree italiane offre al lettore alcune indubitabili certezze, non ricavabili altrimenti nell’oscurità della scarsa attenzione riservata al problema dai mass-media…

Per questa ragione, così come è stato per la lotta alla mafia, una profonda presa di coscienza civile può fare da impulso per dire ‘no’ alle diffuse violazioni dei diritti umani in un contesto di sfruttamento, spesso anche mafioso, del lavoro di donne e uomini vulnerabili. Ed allora l’auspicio è che le intere comunità locali, insieme a quella nazionale, divengano un autentico ‘presidio’ dei diritti e della dignità dei lavoratori”.

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