Essere e apparire

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Essere o apparire? Non si tratta tanto di dare un giudizio filosofico o di estetica stilistica esteriore, ma di comportamento che talvolta fa trasparire una stima esagerata dell’“esterno” e di crisi depauperante dell’“interno”. In chi possiede una vera personalità, non esiste “fuori” o “dentro”, perché il valore di una persona non si misura da riferimenti spaziali. E’ l’entità spirituale dell’uomo che si rivela nella sua corporeità. Spirito e corpo si armonizzano e la visibilità diventa trasparenza dell’interiorità. Oggi si nota una sorta di prevalenza dell’apparire più che dell’essere.

La stima esagerata di un eccesso di “visibilità” porta alla vanità e perfino alla menzogna dei rapporti umani sino al fariseismo più menzognero e nauseante. Quello che preoccupa è che questo modo di “autoporsi” diventa uno stile che provoca la mancanza di fiducia negli altri con conseguente non credibilità.

Lo stile dell’apparire è ormai di moda. “Moda”, come disse Pio XII, ha lo stesso etimo filologico di “modestia”. Oggi, purtroppo, la modestia non è più di moda. Se non appari e non fai spettacolo di te stesso e delle tue cose, non conti nulla, non vali niente. Il guaio è che la teatralità di se stessi, per essere popolarmente accolta con urla, consensi e applausi, degenera nella sottocultura della volgarità. Si sa che i capricci della moda portano a ostentare quella specie di esuberanza popolare o popolana in modo da essere irresistibili in ogni circostanza. Se la moda pubblicitaria, in certe sue creazioni, diviene ridicola, è d’obbligo manifestarla “seriamente” dimenticando i valori essenziali dello spirito e le verità eterne dell’essere.

Quando l’uomo si dà alle vanità, inesorabilmente vive di surrogati dell’apparenza. Nascono da qui, l’agitazione, la stanchezza, il malumore, la falsità, la violenza e ogni sorta d’inquietudine. Le leggi dello spirito non sono la somma di cose sensibili moltiplicate all’infinito: la quantità non darà mai la qualità. Siamo convinti che la dialettica dell’apparire sia in profonda antitesi con quella dell’essere. Anche se per alcuni l’essere è una parola che non significa niente, tuttavia non si riduce all’apparire che appare e poi scompare. Chi cerca soltanto l’apparire senza preoccuparsi di essere, piomba inesorabilmente nel ridicolo e nel nulla. È necessario, dunque, avere vivo il senso e il valore effettivo e insostituibile dell’essere per testimoniarlo con lo stile di vita e per non rimanere vittime dell’ipocrisia e della menzogna.

Quando si riceve o si compra un titolo, un ruolo, un incarico, l’individuo, talvolta, cambia volto, interpone distanze, smorza o spegne i rapporti di amicizia o di cordialità che c’erano prima e si erge sul piedistallo del valore labile dell’apparire mortificando quello effettivo dell’essere. L’apparire, però, con i casi della vita e con l’andare del tempo, può cambiare e invecchiare, generando inconsistenza e tristezza, mentre l’essere è sempre fonte di serena stabilità e motivo di feconda gioia.

In una delle sue parabole, Gesù ci ha parlato della casa fondata sulla roccia e di quella fondata sulla sabbia (cf Mt 7,24-27). Si tratta di un esempio eloquente che illumina la differenza tra l’essere e l’apparire. Nella misura in cui si dà spazio allo spirito, l’“essere” dona vita e vitalità all’“apparire”. Gli stessi miracoli che Gesù compie non sono azioni taumaturgiche destinate all’applauso e alla vanagloria, essi rivelano il mistero della sua presenza e della sua missione che guarisce e salva, che annunzia il Regno e libera l’umanità dal male. Il credente è quella creatura umana che cerca Dio nel Figlio suo Gesù. La ricerca della fede non punta a fare spettacolo religioso, ma a rendere visibile il gesto di Dio che si accosta alla povertà e al dolore dell’uomo e nel Figlio lo condivide e lo trasforma. L’apparire di Dio in Cristo è dato dall’incontro tra l’incerta e fragile speranza umana e l’essere divino di Gesù che ci afferra per mano, ci solleva, ci guarisce e ci salva. I miracoli che Gesù compie sono, dunque, il segno efficace che il Regno di Dio è iniziato e che la salvezza e la liberazione di Cristo trasformano tutto l’uomo donandogli la guarigione più profonda che tocca la radice della sua libertà e lo abilita al servizio squisito della carità. I gesti della visibilità del Verbo sono, dunque, rivelazioni della sua divinità fatta carne per redimere la nostra umana natura.

Disarmante nella sua semplicità, il modo in cui Marco descrive la guarigione della suocera di Simone è emblematico: Gesù si avvicinò e la fece alzare prendendola per mano; la febbre la lasciò ed ella li serviva (Mc 1,31). I verbi che usa l’evangelista per descrivere i gesti della tenerezza divina, sono quelli della “risurrezione”: egeírō, la stessa forza dell’Essere divino apparirà e agirà nella resurrezione di Gesù; diaconéo, servizio: la guarigione abilita al servizio. La Chiesa e il credente, che fanno esperienza dell’Essere divino che si rivela attraverso la parola di speranza generata dalla Risurrezione, devono testimoniare la luce che da essa proviene nel servire i fratelli, altrimenti è truffa.

San Paolo istruisce i Galati con queste incisive parole: Voi, fratelli, siete stati chiamati a libertà… mediante l’amore siate a servizio gli uni degli altri (Gal 5,13).  C’è differenza, allora, tra “testimonianza” e “ostentazione”, così come c’è differenza tra “verità” e “ipocrisia”. È esemplare il gesto di Gesù non appena compiuto il prodigio: dopo aver curato i malati, il Signore lasciò Cafarnao e si ritirò in un luogo deserto, e là pregava (Mc 1,35). La giornata era cominciata con la preghiera pubblica nella sinagoga e adesso, dopo aver guarito e consolato, Gesù si rifugia nella solitudine della preghiera: per il credente, ecco l’esempio! L’uomo sapiente è la persona che dà testimonianza evitando qualsiasi teatralità in cerca di applausi.

Si è soliti dire: «Se tu non appari, non conti». Nella vita, il mito dell’apparire senza essere è insipienza e sconsacrazione. “Epifania” è Sapienza e Consacrazione, è grembo della Verità accolta e vissuta nella carità. Sei accolto per quello che sei e per come lo vivi. Non “maschera” ma “volto”, non trucco ma luce degli occhi e amore nel cuore. L’essere credenti appare dal come si vive l’esperienza della libertà che, animata dalla carità, spinge, nella concordia, al servizio fraterno.

Sono sempre più convinto che la vera fede, non quella finta, apparente e coreografica, ha un’importanza fondamentale per la conoscenza delle realtà essenziali per essere, per vivere e per prendere decisioni valide sia nell’ambito dell’esistenza del singolo, sia in quello della vita comunitaria e sociale.

Virtù fondamentale per vivere la verità dell’essere è l’umiltà. La mancanza di umiltà, come anche la falsa umiltà, annulla la verità dell’essere e fa esplodere la menzogna dell’apparire. L’uomo umile, dopo ciò che ha realizzato, è sempre consapevole della grande sproporzione che rimane fra ciò che si è e le grandi cose della vita.

Di fronte al marasma di teorie, di mode, di ideologizzazioni, è urgente riprendere in mano la ragione e ricercare la verità che è dentro di noi e nel mondo che ci circonda. Bisogna ricercare soprattutto la verità nella dimensione trascendente che è Cristo, Parola del Padre. È lui la sorgente della verità assoluta, è lui la personificazione della Verità, quella che illumina e da senso e ragione all’esistenza umana. È Cristo la verità che ci fa liberi. Accoglierla e viverla come criterio di vita e di comportamento significa conoscere se stessi e non cadere nell’illusione di credersi e apparire quel che non si è. Parafrasando san Giovanni apostolo, possiamo dire che la sequela e l’accettazione della verità è il criterio fondamentale di riconoscimento di se stessi, che abilita a essere e a vivere la libertà nella verità. “Fare la Verità” nella libertà e nella carità è, perciò, una realtà insieme mentale e morale, divina e umana, di coscienza interiore e di volontà operativa.

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