Segreto del parto: la salute delle donne e il futuro dei bambini

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A dicembre l’Anfaa (Associazione nazionale famiglie adottive ed affidatarie) è scesa in campo in difesa dell’attuale normativa a tutela della garanzia dell’anonimato del parto, in seguito all’ordinanza del Tribunale per i minorenni di Catanzaro, che ha sollevato una questione di legittimità costituzionale per l’articolo 28 (comma 7) della legge 184 del 1983 con il quale si esclude la possibilità per la persona adottata non riconosciuta alla nascita di accedere all’identità della madre biologica.

Inoltre il Garante per la protezione dei dati personali, Antonello Soro, in un’intervista pubblicata da La Stampa ha sottolineato l’importanza che il diritto alla segretezza del parto venga tutelato e garantito: “La madre che al momento del parto abbia deciso di non essere nominata va rispettata e tutelata dal trauma che potrebbe subire nel rivivere, a distanza di anni e su sollecitazione esterna, quella scelta non certo facile”.

Ed il 10 dicembre l’Anfaa ha consegnato all’on. Carlo Leoni, consigliere politico istituzionale della presidente della Camera, on. Laura Boldrini, le prime 2500 firme. Per capire meglio questa ‘battaglia’ di civiltà abbiamo chiesto alla presidente nazionale dell’associazione, Donata Nova Micucci (concedendoci una lunga intervista divisa in due parti), di spiegarci il significato di tutelare questa segretezza: “Ad oggi la legge italiana consente ad una donna di partorire in ospedale, garantendo così le necessarie cure sanitarie per sé e per il nascituro, anche nel caso in cui la partoriente non intenda riconoscere il proprio nato, che viene dichiarato adottabile e immediatamente inserito in una famiglia adottiva. Lo Stato riconosce a questa donna il diritto alla segretezza del parto, diritto che la normativa vigente le ha garantito per 100 anni: prima di questa scadenza la sua identità non può essere svelata!”

Allora, perché si tenta di abolire il diritto alla segretezza del parto?
“Nel dicembre 2013, una sentenza della Corte Costituzionale (n. 278), purtroppo, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della vigente normativa in materia di adozione ‘nella parte in cui non prevede, attraverso un procedimento, stabilito dalla legge, che assicuri la massima riservatezza, la possibilità per il giudice di interpellare la madre che abbia dichiarato di non voler essere nominata (…) su richiesta del figlio ai fini di una eventuale revoca di tale dichiarazione’. In ottemperanza di quanto ha stabilito la Corte, il Parlamento è chiamato a emanare una normativa in materia che, nel rispetto del diritto alla segretezza assicuratole dallo stato, preveda sì la possibilità di revoca da parte della donna di questa sua decisione, ma che, tuttavia, stabilisca un iter idoneo ad assicurare ‘la massima riservatezza”’.

In commissione Giustizia sono stati deposti alcuni emendamenti anche in opposizione tra loro, come quelli dell’on. Berretta e dell’on. Rossomando: perchè queste due visioni opposte?
“In ottemperanza a questa Sentenza, sono state presentate presso la Camera dei Deputati diverse proposte di legge, in discussione alla Commissione Giustizia, che le ha unificate attraverso un Testo base presentato dal relatore on Berretta, poi assunto dalla stessa Commissione, decisamente preoccupante. La procedura di accesso all’identità delle partorienti, nella formulazione di questo Testo base, prevede che il Tribunale, su richiesta dei non riconosciuti alla nascita, si attivi per rintracciarle con modalità tali da assicurare ‘la massima riservatezza’ ma, contestualmente, ‘senza formalità’, vale a dire in assenza di alcuna garanzia del rispetto del suo anonimato.

Questo Testo, se approvato, avendo effetto retroattivo, rischierebbe di avere conseguenze gravi ed irreversibili sulle oltre 90.000 donne che dal 1950 ad oggi hanno partorito il loro nato avvalendosi del diritto alla segretezza. La stessa Corte Costituzionale, nella sentenza n. 278/2013, ha precisato che il Parlamento, nel dar corso alle domande di accesso alla identità della donna che non ha riconosciuto il proprio nato, dovrà ‘cautelare in termini rigorosi il suo diritto all’anonimato’, diritto che, dunque, non solo non viene censurato ma, anzi, nella sentenza trova conferma e rinforzo. Riteniamo, pertanto, che per rendere esigibile il diritto all’anonimato, come previsto nella proposta di legge dell’on. Rossomando (e negli emendamenti al suddetto Testo base) solo alle donne che non hanno riconosciuto può essere riconosciuta la facoltà di recedere dalla decisione a suo tempo assunta e di esprimere la disponibilità ad incontrare il proprio nato”.

Quindi?
“Riteniamo che nei confronti di questa donna e di tutte coloro che hanno deciso di non riconoscere il loro nato, nessuno di noi possa permettersi di dare giudizi: si tratta di scelte dolorose e sofferte, che tutti noi dobbiamo rispettare, compresi, per primi, i loro nati, cui hanno dato la vita. Non è ammissibile a nostro parere il percorso inverso, come previsto nello stesso Testo base, cioè che siano i nati da queste donne ad avviare il procedimento presso il Tribunale per i minorenni. Se le richieste di accesso all’identità delle donne che li hanno generati partissero da loro, le conseguenze porterebbero, nei fatti, alla violazione del diritto alla segretezza ancora riaffermato dalla Corte Costituzionale.

Infatti, le istanze sarebbero inevitabilmente prese in esame da un numero elevato di persone: i giudici, i cancellieri e la polizia Giudiziaria del Tribunale per i minorenni al quale si rivolge l’interessato, i responsabili dei reparti maternità e gli impiegati addetti alla conservazione del plico in cui sono indicate le generalità della donna e del neonato, il personale dell’anagrafe tributaria nazionale incaricato di rintracciare attraverso il codice fiscale l’ultima residenza della donna, gli altri giudici, i cancellieri incaricati di contattarle, il personale, anche impiegatizio, servizi sociali interpellati al riguardo dallo stesso Tribunale (è assai probabile che le donne non abitino più nelle città in cui hanno partorito).

Inoltre le lettere di convocazione, indirizzate alle donne (su carta intesta del Tribunale o della Procura per i minorenni o da altro Ente) per verificare la loro disponibilità ad incontrare i propri nati, potrebbero molto facilmente essere viste dai loro familiari. Non nascondiamo neppure le nostre preoccupazioni sulle conseguenze che la nuova norma potrà avere sulle gestanti che in futuro volessero non riconoscere il proprio nascituro: lo faranno sapendo che, senza il loro preventivo consenso, potranno essere rintracciate dopo 20/30 anni o più? Che ne sarà dei loro piccoli?

Non dovremo stupirci se queste gestanti non andranno più a partorire in ospedale, non avendo garanzie sulla segretezza del parto e se aumenteranno gli infanticidi e gli abbandoni dei neonati. Riteniamo inoltre veramente disumana la disposizione contenuta nel Testo base, secondo cui la richiesta di accesso all’identità della partoriente è incondizionata nel caso in cui la donna sia deceduta: una violazione palese non solo del suo diritto all’anonimato, ma anche del suo diritto alla riservatezza che non sarebbe più in grado di tutelare!Lo Stato si è impegnato nei confronti di queste donne a non rendere mai noto il loro nominativo ed ora, il Parlamento, non può tradire quell’impegno!”

Per ulteriori approfondimenti rinviamo al sito www.anfaa.it

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