Mansiones multae sunt. Rendere omaggio e giustizia alla memoria di un sacerdote coerente

[Korazym.org/Blog dell’Editore, 14.01.2024 – Vik van Brantegem] – Sull’opera del Priore di Barbiana, Don Lorenzo Milani, nome completo Lorenzo Carlo Domenico Milani Comparetti (Firenze, 27 maggio 1923-Firenze, 26 giugno 1967) si è discusso molto mentre era in vita e, ancor di più dopo la sua morte. Protagonista di un’esperienza pastorale fortemente ostacolata dalle gerarchie di allora, il suo insegnamento e il suo atteggiamento di fedeltà critica verso la Chiesa, di cui ha sempre dichiarato di sentirsi figlio, riescono ancora oggi a scuotere le coscienze intorbidite dall’indifferenza verso un Cristianesimo sempre più abitudinario e rassegnato.
«Imparerai a tue spese
che nel lungo tragitto della vita
incontrerai tante maschere
e pochi volti»
(Luigi Pirandello,
Uno, nessuno e centomila).

Don Milani ha testimoniato con coerenza come nel dono di sé a Cristo si incontrano i fratelli nelle loro necessità e lì si servono. Il dovere di rendere omaggio e fare giustizia alla sua memoria di un sacerdote, che appare come una figura profetica nel panorama della Chiesa in Italia degli ultimi decenni, ho appreso nella quasi trentennale frequentazione dall’amico Don Simone Di Vito, il compianto parroco di Sant’Albino in Scauri di Minturno. Nel contempo, questo articolo rende omaggio e fa giustizia anche alla sua memoria, che visse e spronava a vivere con coerenza il Vangelo, alla vigilia del primo anniversario della sua morte, avvenuto il 2 febbraio 2023.
Quindi, non posso lasciar passare inosservato e in silenzio, quanto letto recentemente: «È rimasta memorabile una lettera che l’allora Arcivescovo di Firenze Ermenegildo Florit inviò a Don Milani, che ancora prima del Sessantotto aveva scelto la lotta di classe come impegno di base del vero cristiano, insegnando ai suoi allievi, non i principi evangelici, ma come riscattare la propria condizione sociale sviluppando la critica contro la borghesia, la scuola di Stato, le istituzioni. A Don Milani che trattava i ricchi con disprezzo, Florit ricorda che sono proprio loro i primi ad aver bisogno della misericordia di Dio, ad essere cristianamente corretti se sbagliano. Ma erano l’odio e la lotta di classe le chiavi giuste per aprire loro il cuore e risvegliare in essi la solidarietà verso il più povero?»
Aggravandosi il suo male, Don Milani all’inizio del 1964 s’era dovuto ricoverare in ospedale a Firenze per qualche tempo. Poi, grazie a una nuova cura, potè ritornare a Barbiana. Allora il suo vescovo, l’Arcivescovo metropolita di Firenze, Cardinale Ermenegildo Florit, informato dal Vicario Generale, gli scrisse da Roma una lettera d’auguri, a cui Don Milani rispose il 5 marzo 1964 con una lettera che è una lezione di vita, per credenti e non:
«La ringrazio della sua lettera che non posso interpretare che come un atto d’amicizia. Non riesco però a capire se ella ha mai saputo quel che ho detto e scritto a Mons. Vicario [in riferimento ad una lettera del 20 ottobre 1963] e se sa che, fra l’altro, io gli ho chiesto che anche lei venisse a parlare ai miei ragazzi e ai loro genitori [ci teneva, perché non pochi dicevano, o potevano pensare che «gran cose aveva combinato quel prete per essere stato mandato lassù a Barbiana»]. Naturalmente ciò che le chiederei non sarebbe un qualsiasi discorso generico, ma d’esaminare in presenza a loro, a fondo, senza pudori e senza pietà, il problema dei rapporti tra il mio apostolato e il vostro atteggiamento.
Ho passato i miei diciassette anni di sacerdozio tutto teso solo verso le anime che il Vescovo mi aveva affidato. Del Vescovo non mi son mai curato. Pensavo nella mia ingenuità di neofita che il Vescovo fosse un padre commosso della generosità dei suoi figli apostoli, preoccupato solo di proteggerli aiutarli benedirli nel loro apostolato. Pensavo che egli amasse i miei figlioli così che tutto quel che facevo per loro gli paresse fatto a lui e così il legame fra me e lui anche senza mai vedersi o scriversi fosse il più alto e il più profondo che esiste: un oggetto d’amore in comune.
Dopo sette anni di questa illusione idillica, d’un tratto seppi la tragica, realtà: la Curia fiorentina e il Vescovo erano un deserto! Allora scelsi quella che in quel momento mi parve la via della santità: per nove anni ho badato soltanto a salvarmi l’anima, a accettare in silenzio le crudeltà con cui calpestavate in me un uomo, un neofita, un cristiano, un sacerdote, un parroco cui in diciassette anni di sacerdozio non avevate saputo trovare neanche il più piccolo appiglio per un richiamo, un consiglio, un rimprovero.
Ho badato a accettare in silenzio perché volevo pagare i miei debiti con Dio, quelli che voi non conoscete. E Dio invece mi ha indebitato ancora di più: mi ha fatto accogliere dai poveri, mi ha avvolto nel loro affetto. Mi ha dato una famiglia grande, misericordiosa, legata a me da tenerissimi e insieme elevatissimi legami. Qualcosa che temo lei non abbia mai avuto. E per questo m’è preso pietà di lei e ho deciso di risponderle.
Da due anni in qua i medici e alcuni segni m’han detto che è l’ora di prepararsi alla morte. Allora ho voluto riesaminare freddamente questi diciassette anni di vita sacerdotale.
Anzi i loro frutti.
E m’è improvvisamente saltato all’occhio che la santità non è così semplice come io credevo. Lasciarsi calpestare può essere santo, ma nel calpestare me voi calpestavate anche i miei poveri, li allontanavate dalla Chiesa e da Dio.
E poi che serve amare e tacere, porger la guancia ai soprusi e alle calunnie quando chi li compie è il capo della Chiesa fiorentina? Più santamente io tacevo e più scandalosa appariva la lontananza del Vescovo dai poveri, dalla verità, dalla giustizia.
Ho lavorato alla costruzione della mia personale santità che (se anche l’avessi raggiunta) non sarebbe servita (in questa vita) che a metter in luce l’abiezione d’una Curia che esilia i santi e onora gli adulatori e le spie.
Se lei non mi onora oggi con un qualsiasi atto solenne, tutto il mio apostolato apparirà come un fatto privato, qualcosa di simile all’opera d’un pastore protestante.
Ma io non lo sono stato e lei lo sa. Se lei ne avesse avuto anche solo l’ombra del dubbio le correva l’obbligo gravissimo di cercarmi, parlarmi, salvarmi. Ho servito per diciassette anni la Chiesa Cattolica nei suoi poveri, vorrei oggi per una volta servirla anche nei suoi ministri che purtroppo fino a oggi ho trascurato, anzi dimenticato.
Ecco perché le porgo oggi una mano. Vuole ereditare la mia umile opera? Vuole mietere dove io ho seminato? Vuoi partecipare all’abbraccio affettuoso dei poveri che mi vogliono bene, che ho tentato di avvicinare al Signore, che sono talmente buoni (vorrei quasi dire tanto «stupidamente» buoni) da esser capaci di perdonarle tutto da oggi a domani e accoglierla come uno di loro così come hanno accolto me? Vuole con un tratto di penna cancellare diciassette anni di scandali che la Curia fiorentina ha dato ai due popoli che mi aveva affidato [di San Donato di Calenzano e di Barbiana]? Vuole annettere con un tratto di penna (che è doveroso oltre a tutto) nell’ortodossia cattolica ciò che per diciassette anni ho eroicamente mantenuto fino allo scrupolo nell’ortodossia cattolica e che il suo comportamento fino a oggi faceva invece apparire eterodosso?
Le propongo una soluzione pratica. Mi inviti lei personalmente a tenere delle lezioni o conversazioni di pratica pastorale al Seminario Maggiore. Non le chiedo di dire ai seminaristi e ai miei due infelici popoli che questa mia è la santità, che questa è la ricetta unica dell’apostolato, che tutto il resto è errore. Le chiedo solo di dire ai seminaristi e ai miei due infelici popoli che nella Casa del Padre mansiones multae sunt [Dalla frase evangelica delle Vulgata: «Nella casa del Padre mio vi sono molti posti. Se no, ve l’avrei detto. Io vado a prepararvi un posto» (Gv 14,2)] e che una di esse generosa e ortodossa fino allo spasimo è stata quella del prete che ella ha fino ad oggi implicitamente insultato e lasciato insultare.
Un abbraccio fraterno dal suo
Lorenzo Milani sac.»
Don Milani ricevette l’ultima lettera dal Cardinal Florit, datata 25 gennaio 1966, quando era in ospedale, con i segni della malattia che avanzava. Il Cardinal Florit definì i suoi interventi come impregnati di un’«atmosfera quasi di lotta classista», occasione o pretesto a chi voglia «colpire la Chiesa o non la conosca». C’è una precisa accusa, in cui viene detta la ragione per averlo lasciato in esilio a Barbiana: «Il tuo vescovo ad un certo punto, quando tu eri in ospedale, ti scrisse: “In parte il sentirti tagliato fuori dalla Diocesi è dipeso da quello che tu chiami il tuo ‘esilio’ a Barbiana, ma in parte dal tuo carattere e dal tuo atteggiamento”. I tuoi superiori hanno creduto di non riconoscere in te la necessaria disposizione alla carità pastorale, ma lo zelo fustigatore che ti fa apparire dominatore delle coscienze prima ancora che padre».
Nel leggere la lettera, Don Milani scoppiò a piangere, perché erano invece proprio la carità pastorale e la paternità i due pilastri su cui aveva fondato la sua missione sacerdotale, la ragione del proprio vivere e dell’impegno per le 82 anime della parrocchia. Non ne è solo ferito, ma abbattuto dall’ottusità del suo vescovo, che non comprende lo spirito sacerdotale del Priore di Barbiana.
Il 7 dicembre 1965 il Concilio Vaticano II aveva promulgato il Decreto sul ministero e la vita dei presbiteri Presbyterorum ordinis, dove emergeva quella espressione: i sacerdoti, «rappresentando il buon pastore nello stesso esercizio della carità pastorale, troveranno il vincolo della perfezione sacerdotale che realizzerà l’unità nella loro vita e attività». È la carità pastorale che unisce il ministero e la vita spirituale del ministro. Don Milani è padre perché «vive la carità pastorale in modo “personalizzato”, non badando tanto all’estensione quanto alla profondità».
All’incirca un anno prima di morire, molto malato, Don Milani il 22 marzo 1966 ricevette a Barbiana la visita del Cardinal Florit. Fu un incontro tempestoso, teso, come racconta il cardinale nel suo diario: «È stata una conversazione concitata di oltre un’ora. Momenti angosciosi. È un dialettico affetto da mania di persecuzione. Non preoccupazione di santità fondata sull’umiltà, ma pseudo-santità puntata verso la canonizzazione di sé stesso. Egocentrismo pazzo; tipo orgoglioso, squilibrato». Tra il Cardinal Florit e Don MIlani fu rottura. Definitiva. «Sa quale è la differenza, eminenza, tra me e lei? Io sono avanti di cinquant’anni…», sbottò Don Milani.
Il Cardinal Florit scrive il 22 marzo 1966 nel suo diario: «È stata una conversazione concitata di oltre un’ora. Momenti angosciosi. È un dialettico affetto da mania di persecuzione. Non preoccupazione di santità fondata sull’umiltà, ma pseudo-santità puntata verso la canonizzazione di se stesso. Egocentrismo pazzo, tipo orgoglioso e squilibrato».
Don Milan ha sofferto tanto come sacerdote, prima a San Donato di Calenzano e poi nell’esilio a Barbiana. Papa Francesco, visitando Barbiana e pregando sulla tomba di Don Milani, ha risposto, con il suo gesto, alla richiesta più volte fatta da Don Milani al suo vescovo — il Cardinale Ermenegildo Florit — e mai esaudita, perché fosse riconosciuto e compreso nella sua fedeltà al Vangelo e nella rettitudine della sua azione pastorale.
Lo stesso Cardinal Florit, che tanto l’aveva osteggiato e fatto soffrire, lasciata la guida dell’Arcidiocesi di Firenze, raggiunge il cimitero di Barbiana dove, dopo aver pregato sulla tomba di Don Milani, esclama, come riportato dall’allievo Michele Gesualdi: «Ma quanto mi avete male informato su questo sacerdote!». L’affermazione fa pensare anche a quanto malanimo e distorsione della verità circolino nelle Curie.
Alla luce di quanto è accaduto anche al Cardinal Florit, è significativo la lunga lettera dell’8 agosto 1959 intitolata Un muro di foglio e di incenso, che Don Milani scrisse da Barbiana a Nicola Pistelli, Direttore di Politica di Firenze, perché fosse pubblicata; cosa che non avvenne. Cito da questo documento più incisivo ed esplicito sul ministero episcopale e la formazione dei vescovi: «Criticheremo i nostri vescovi perché vogliamo loro bene. Vogliamo il loro bene, cioè, che diventino migliori, più informati, più seri, più umili. Nessun vescovo può vantarsi di non aver nulla da imparare. Ne ha bisogno come tutti noi. Forse più di tutti noi per la responsabilità maggiore che porta e per l’isolamento in cui la carica stessa lo costringe. E non è superbia voler insegnare al vescovo perché cercheremo ognuno di parlargli di quelle cose di cui noi abbiamo esperienza diretta e lui nessuna. L’ultimo parroco di montagna conosce il proprio popolo, il vescovo quel popolo non lo conosce. L’ultimo garzone di pecoraio può dar notizie sulla condizione operaia da far rabbrividire dieci vescovi non uno. L’ultimo converso della Certosa può aver più rapporto con Dio che non il vescovo indaffaratissimo. E il vescovo, a sua volta, ha un campo in cui può trattarci tutti come scolaretti. Ed è il sacramento che porta e quelli che può dare. In questo campo non possiamo presentarci a lui che in ginocchio. In tutti gli altri ci presenteremo in piedi. Talvolta anche seduti e su cattedre più alte della sua. Quelle in cui Dio ha posto noi e non lui. L’ultimo di noi ne ha almeno una di queste cattedre e il vescovo davanti a lui come uno scolaretto». «Dopo la critica, la miglior forma di educazione che possiamo dar loro è di informarli» in modo corretto, senza ingannarli, dissolvendo il «muro di incenso che li circonda». Per un vescovo è difficile farsi un’idea su questioni complesse e, quindi, è imperativo che si circonda di collaboratori capaci di filtrare le notizie e le interpretazioni.
Mentre per il Cardinal Florit, Don Milani era un “egocentrico pazzo”, per un successivo Arcivescovo di Firenze, il Cardinale Silvano Piovanelli, che era stato suo compagno in seminario, fu davvero un santo.
Nell’intervista rilasciata al giornalista Mario Lancisi per il suo libro Il segreto di Don Milani», il Cardinal Piovanelli ha affermato, che dal punto di vista umano, il seminarista Lorenzo Milani era «simpatico, amabile». Qualcuno ha detto che in realtà c’era chi lo amava e chi lo odiava: «Credo che questo giudizio valga più per il dopo che per gli anni del seminario. Certo, Lorenzo aveva una forte personalità e può darsi che qualcuno non legasse troppo con lui, come d’altra parte capita in tutti i gruppi. Noi gli volevamo bene».
Il Cardinal Piovanelli ha conservato molti ricordi di lui e citandone uno, ha sottolineato «la sua esagerazione, tra virgolette, nelle posizioni che assumeva. Era, si badi bene, esagerato non tanto nei confronti degli altri ma di se stesso. Questo tratto del carattere credo derivasse dalla sua conversione. Lorenzo mi ricorda Edith Stein: ebrea, si converte, diventa suora. Il passaggio dall’ateismo o dall’agnosticismo alla conversione comporta spesso una radicalità di posizione». Era «esagerato ad esempio nella povertà. Noi in genere eravamo tutti figli di povera gente e poi in quegli anni in seminario si conduceva una vita davvero povera. Lorenzo, che proveniva da una famiglia ricca, accentuò ancora di più la povertà del seminario. Così al posto del letto mise una branda, non volle neppure la libreria ma se ne fece una più modesta con degli assi di legno e non volle neppure le scarpe, che sostituì con dei sandali fatti con i copertoni ritagliati di una motocicletta e tenuti insieme da legacci di cuoio».
Tra gli altri ricordi significativi per comprendere la figura di Don Milani, il Cardinal Piovanelli riferisce che «al tempo di guerra quando la gente mangiava pane nero e c’era la carestia», «un giorno Lorenzo, camminando per le strade di San Frediano, un quartiere popolare di Firenze, si mise a mangiare un pezzo di pane bianco, proveniente dalla sua fattoria di Montespertoli. Dalla finestra una donna lo vide e lo sgridò: “Non si mangia il pane dei ricchi nelle strade dei poveri”. L’episodio turbò molto Lorenzo e credo che esso serva a capire meglio anche la sua scelta di povertà. La quale non fu povertà di carattere sociologico, materiale bensì condivisione, mettersi insieme con gli altri, alla pari, mai sopra».
Dopo l’ordinazione il Cardinal Piovanelli ha ancora incontrato Don Milani: «Una volta sono andato anche a predicare nella sua parrocchia, a San Donato di Calenzano. Mi colpì la cura che metteva nello stare con i ragazzi e nel preparare la catechesi».
Qual è il filo rosso che unisce la figura di Lorenzo, come lei l’ha conosciuta dai tempi del seminario, a quella emersa dopo la sua morte?: «La coerenza. Anche negli aspetti polemici con l’ambiente e con i superiori Lorenzo è stato sempre coerente con i suoi valori, con la sua coscienza».
Da vescovo di Firenze, nel 1986, lei ha fatto visita alla tomba del suo ex compagno di seminario. Una visita non facile, considerato un certo clima di diffidenza che si continuava a respirare in quegli anni nei confronti del priore di Barbiana. Quale fu il significato del suo gesto?: «In Lorenzo io ho sempre distinto quella che era la sua linea di fondo: la fede, la dedizione ai poveri, la coerenza ecc. e certi modi di vivere e presentare agli altri i valori in cui credeva».
Quali messaggi di Don Milani lei considera più importanti e attuali, soprattutto per i giovani?: «Intanto quello dell’interezza, cioè di essere se stessi, di non fare compromessi con i propri ideali. Poi il messaggio che la vita deve essere dedicata alla liberazione degli altri. Nell’aiutare gli altri a liberarsi, uno poi libera anche se stesso. Infine don Milani ci ha insegnato a non sciupare la propria vita in cose superficiali e secondarie, ma a impiegare ogni energia e tutto il proprio tempo per aiutare gli altri a essere pienamente se stessi, salvando la propria vita dalla mediocrità. Per don Milani è importante non svendere la propria vita».
Infine quale messaggio per la Chiesa? «La scelta di strade le quali non siano tortuose ma vadano subito al cuore del problema. La polemica sua, anche con i preti vicini alla parrocchia, era questa: ma perché perdete tempo con i ragazzi facendoli giocare al pallone o al biliardo? Cercate piuttosto di interessarli ai valori che contano, diceva».
L’attuale Arcivescovo metropolita di Firenze, il Cardinale Giuseppe Betori, davanti al Papa in visita a Barbiana, ha messo in guardia dal rischio «che la figura e la vicenda di Don Lorenzo Milani vanno liberate da ogni retorica, non vanno mitizzate, vanno sottratte a strumentalizzazioni ideologiche, difendendone invece la permanente e feconda provocazione». In un’intervista ad Avvenire, il Cardinal Betori ha spiegato che la grandezza di Don Milani è determinata prima di tutto dal suo «essere un uomo di fede che ha incontrato Cristo e non lo ha mai abbandonato», oltre al suo «essere prete anche nella sofferenza e nelle difficoltà dei rapporti con i suoi superiori e con i confratelli, ma sempre fedele alla Chiesa a cui si rivolgeva costantemente per trovare perdono e misericordia». Una grandezza confermata dal suo «essere educatore, convinto che fare scuola sia quell’’arte delicata’ che ha la possibilità e il dovere di rendere migliori le persone».
Il Cardinal Betori ha affermato: «Certi percorsi dolorosi non ci appartengono più, finalmente si può fare giustizia di non poche mistificazioni con cui al tempo si volle oscurare la passione e la lealtà ecclesiale di Don Milani. Si tratta quindi non di cancellare il passato, ma di rileggerlo e di comprenderlo, cercando soprattutto quello che l’esperienza pastorale di don Milani ha da dire ancora alla nostra Chiesa e alla nostra società. Gli argomenti non mancano, con tutto quello che il priore di Barbiana ha rappresentato per la difesa degli ultimi e degli umili».
Secondo il giudizio storico, oltre mezzo secolo dopo, il Cardinal Betori attribuisce l’azione contro Don Milani ad un «partito romano», che nella Chiesa di quel tempo era schierato contro la «Firenze di Giorgio La Pira». L’ha espresso in una lettera a Giorgio Pecorini, un giornalista amico di Don Milani, riportata dalla rivista Segno, che sul caso di Don Milani nel 2017 pubblica un dossier, con al centro la ricostruzione dell’intervento della Congregazione per la Dottrina della Fede – a seguito di un rapporto per il Papa dell’Arcivescovo coadiutore di Firenze, Mons. Ermenegildo Florit – che nel 1958 dispose il ritiro del libro Esperienze pastorali, di cui veniva «sconsigliata» anche la lettura. In questo libro, che era stato pubblicato con l’Imprimatur, Don Milani sacerdote sosteneva le rivendicazioni sociali della popolazione delle campagne. In contrasto con le posizioni della Chiesa in una fase di cambiamenti profondi, Don Milani appoggiava le ragioni delle agitazioni e segnalava l’importanza dell’istruzione secondo un metodo poi attuato nella scuola di Barbiana con un’esperienza raccontata nel suo libro Lettera a una professoressa.
Pecorini scrive al Cardinal Betori: «Non essendo riusciti a trovare un appiglio disciplinare o canonico per una condanna formale, si dichiarò il libro “inopportuno” contemporaneamente stringendo vigilanza e moltiplicando calunnie sul suo autore».
Nella sua riposta a Pecorini, il Cardinal Betori scrisse che nella Chiesa a Firenze era stata avviata una «riabilitazione» di Don Milani, ammettendo che la posizione della Congregazione per la Dottrina della Fede era superata perché i tempi sono cambiati.
Giancarlo Chiapello – un volontario parrocchiale, Segretario e Capogruppo in Consiglio Comunale dei Popolari di Moncalieri, componente della Segreteria organizzativo nazionale di Italia Popolare, il movimento politico presieduto dal Prof. Alberto Monticone – ha scritto in un post sulla sua pagina Facebook: «Ricordando Don Lorenzo Milani, ricordato nell’appena concluso anno centenario dalla nascita, nella sua lotta contro le ideologie disumane fascista e comunista, che distruggono la libertà delle persone, che lui conobbe perché forte della fede competeva per salvare da queste le anime dei semplici. Insegna uno stile, un modo di comportarsi rispetto alle colonizzazioni ideologiche di oggi, in molti casi evoluzioni mefitiche delle precedenti ancora appannaggio di vecchi nostalgici sconfitti dalla storia. #iCare». Cita la definizione del comunismo di Don Milani, del 31 luglio 1966: «Il comunismo è la mediazione e l’organizzazione politica di ogni male, al fine di consentire, ad una classe dirigente parassitaria e brutale, la gestione di ogni forma di potere sulle spalle degli ultimi».
Quel “comunista” di Don Milani
di Giuliano Guzzo
Libertà e Persona, 16 maggio 2009
Nemmeno la Chiesa esce incolume dall’infelice suddivisione del mondo tra “destra” e “sinistra”, categorie che gli studiosi della politica reputano defunte da oltre un decennio ma che continuano, come se nulla fosse, a contaminare il lessico comune.
Accade così che alcuni preti siano tutt’ora accreditati come comunisti ed altri come fascisti, quasi che il Vangelo possa essere guardato, a seconda di chi lo predica, come un inserto speciale dell’”Unità” o de “Il Giornale”.
Ora, si dà il caso che il sacerdote più gradito negli ambienti di sinistra sia quel Don Lorenzo Milani passato alla storia come il Priore di Barbiana.
Non è mia intenzione deludere nessuno, né tanto meno pronunciarmi sull’appartenenza politica reale o presunta di Milani.
Reputo invece utile lasciare la parola a quest’ultimo che, in una lettera indirizzata all’Avvocato Corrado Bacci scritta il 27 dicembre del 1961, a proposito del mondo politico di sinistra annotava: ”Nelle Case del Popolo si vedono camerieri in giacca bianca che servono ai tavolini. E negli incontri sindacali non si riesce dai vestiti né dalla maniere a capire quali sono gli oppressori e quali gli oppressi[…] ho visto una foto di Togliatti all’Opera in smoking con dama ingioiellata accanto”.
In un’altra lettera spedita a Alessandro Mazzarelli, che col Priore di Barbiana intrattenne una fitta corrispondenza, possiamo leggere: ”Il comunismo è la mediazione e l’organizzazione politica di ogni male, al fine di consentire ad una classe dirigente parassitaria e brutale la gestione di ogni forma di potere sulle spalle degli ultimi”.
Ancora: ”Gli intellettuali comunisti, quasi tutti borghesi, soni i nostri nemici. Sono loro che vogliono quel laido “compromesso” fra gli sfruttati e gli sfruttatori. Lo vogliono in nome di Cristo e di Marx. Sono proprio dei figli di puttana […] i capi del comunismo affermano che la loro ideologia viene da lontano e andrà lontano. Non è vero. Il comunismo viene da pochi decenni di storia e va avanti strisciano e speculando tra le innumerevoli miseri della terra”.
Niente male, per un prete “comunista”.
Don Lorenzo Milani come non l’avevate mai detto
«Altro che padre nobile del cattolicesimo democratico, il priore educava gli ultimi proprio per sottrarli allo sfruttamento dei “parassiti” comunisti». Gli appunti inediti dell’amico socialista
di Roberto Persico
Tempi, 28 giugno 2007
«Una profonda indignazione ha suscitato negli ambienti cittadini il convegno svoltosi domenica mattina nei locali del Circolo “Matteotti”. Si è trattato dell’attacco all’unità antifascista sulla quale poggia la nuova democrazia italiana. E di qui ha preso le mosse il volgare discorso anticomunista. Un linguaggio che a Prato finora neppure i missini hanno mai tentato. Prato però ha fatto il vuoto intorno a questa associazione che lascia nella nostra città soltanto disgusto e indignazione».
Bersaglio della reboante prosa dell’Unità un convegno sulla Resistenza organizzato nell’aprile del 1964 da “Forza del Popolo”, un movimento nato un paio d’anni prima nell’ambito della Federazione giovanile del Partito socialista fiorentino. È Alessandro Mazzerelli, fondatore del gruppo, settantatré anni ma non glieli daresti, lucido e battagliero come allora, a raccontare a Tempi di quei giorni: «La memoria della Resistenza era egemonizzata dal Pci: la Resistenza come rivoluzione tradita, la cancellazione delle altre componenti, la rimozione dei crimini dei partigiani e via discorrendo. Allora proposi ai dirigenti del mio partito, il PSI, di fondare un’associazione alternativa, che sottraesse la storia del popolo alla manipolazione comunista. L’iniziativa piacque: nasceva dai giovani, da un cattolico militante, poteva essere un’occasione per uscire dall’angolo in cui il Psi era messo dall’ingombrante presenza del PCI». Era il 1962. Un paio d’anni dopo arrivò il convegno di cui sopra – «fu il primo convegno revisionista che si sia svolto in Italia», tiene a sottolineare Mazzerelli – con le conseguenti bordate dell’Unità. I dirigenti del Psi abbozzarono, presero le distanze, «noi non sapevamo». Intanto, però, il nome di “Forza del Popolo” e quello di Alessandro Mazzerelli avevano cominciato a circolare. E un giorno arrivarono fin sui monti sperduti di Barbiana. «Sei te quel matto della “Forza del Popolo”? Allora vieni subito a trovarmi». Quello che parlava all’altro capo del filo era Don Lorenzo Milani. Fu così che, il 31 luglio del 1966 (il nostro ricorda perfettamente data e ora dell’incontro), il giovane Mazzerelli si ritrovò a salire la mulattiera che portava alla canonica di Barbiana, dove Don Lorenzo faceva scuola 365 giorni all’anno.
Una lezione politica ancora valida
Iniziava, quel giorno, un rapporto a cui Mazzerelli sarebbe rimasto fedele tutta la vita. Ancora oggi «quel matto della “Forza del Popolo”» gira la Toscana portandosi dietro il materiale, stampato rigorosamente a proprie spese, del Movimento autonomista toscano, il piccolo partito in cui continua a condensare la lezione politica appresa in quei mesi sui monti del Mugello. Ultima impresa, la partecipazione alla campagna per le elezioni comunali di Lucca a sostegno di Mauro Favilla, il candidato del centrodestra che ha vinto per una manciata di voti. «Sono stato io – confida orgoglioso a Tempi – a suggerirgli la mossa decisiva: il “decalogo del politico” che avevamo steso con Don Milani, che prevedeva, come primo punto, il divieto di ricoprire più d’una carica pubblica. Favilla ne è rimasto colpito, e ha annunciato che, visto che già percepisce la pensione da senatore, avrebbe rinunciato allo stipendio da sindaco. Così ha conquistato gli indecisi».
«La loro ideologia non durerà»
Ma torniamo alla canonica di Barbiana e alla battaglia di Mazzerelli. «Don Milani – si lancia inarrestabile – è stato fatto diventare il capostipite di quella porcheria che è il cattocomunismo. E pensare che tutta la sua opera educativa fu fatta per sottrarre i poveri all’influsso nefasto del comunismo». Nefasto, addirittura. Non le pare di esagerare un po’?
Mazzerelli tira fuori le bozze del suo ultimo libro (Ho seguito Don Lorenzo Milani, profeta della Terza Via, di prossima uscita per Il cerchio) e comincia a leggere alcune delle frasi di Don Milani, tutte riportate dagli appunti che aveva preso all’epoca: «Il comunismo è la mediazione e l’organizzazione politica di ogni male, al fine di consentire, a una classe dirigente parassitaria e brutale, la gestione di ogni forma di potere sulle spalle degli ultimi». Ancora: «Gli intellettuali comunisti, quasi tutti borghesi, sono i nostri nemici. Quasi tutti gli intellettuali borghesi sono i nostri nemici. Sono loro che vogliono quel laido “compromesso” fra gli sfruttati e gli sfruttatori. Lo vogliono in nome di Cristo e di Marx. Sono proprio dei figli di puttana!». E poi: «I capi del comunismo affermano che la loro ideologia viene da lontano e andrà lontano. Non è vero. Il comunismo viene da pochi decenni di storia e va avanti strisciando e speculando tra le innumerevoli miserie della terra. Dove è al potere ne lenisce qualcuna e ne fa nascere altre, ma di questo fallimento riesce a imporre che solo pochi ne parlino. Anche i serpi strisciano rapidamente, si ambientano alle asprezze del terreno, le superano ed attaccano per difendere le loro zone di influenza, ma non vanno lontani». In proposito Mazzerelli dice addirittura di ricordare distintamente che una volta Don Milani gli disse che il comunismo “non avrebbe superato il ’90”, ma siccome non ha un riferimento certo non ha voluto metterlo nel libro.
Peccato, però, che di tutte queste cannonate sia rimasta traccia soltanto nei ricordi di un vecchio socialista anticomunista. Raccolta la provocazione, Mazzarelli sfodera una copia sbiadita di Adesso, un foglio cattolico dell’epoca: «Poi venne il 18 aprile, il prete aprì gli occhi sul mondo e vide profilarsi vicina la minaccia dei nemici di Dio. Allora gridò forte come la mamma in difesa dei suoi pulcini, se li chiamò intorno, li coprì colle sue ali. Anche il ricco ebbe paura, e aiutò il prete a salvare i suoi pulcini dai nemici di Dio. Così il grande male fu scongiurato e ognuno poté continuare a sognare cose belle, vittorie su altri mali». Firmato Don Lorenzo Milani, 15 dicembre 1950. Ma allora tutte le polemiche contro la Democrazia Cristiana, la Chiesa dei ricchi, la lotta in favore degli ultimi. Mazzerelli non ha dubbi: «Don Milani era feroce con la DC perché la sua politica buttava i poveri nelle braccia dei comunisti. “Sono disonesti e imbecilli”, mi disse in occasione di uno dei tanti scandali di allora. “Non si rendono conto che quando rubano da ‘cristiani’ fanno un gran regalo a quelle carogne del PCI?”. E la sua passione per il fare scuola ai poveri era per dar loro le parole che li mettessero in grado di comprendere il catechismo e sottrarli alla propaganda comunista. Perché era fedelissimo alle posizioni della Chiesa in materia di dottrina, e aveva chiaro che senza la Chiesa il mondo era destinato a terribili degenerazioni».
Riprende a sfogliare le bozze del libro. Siamo alla vigilia della battaglia sul divorzio e il Priore dice che «la Chiesa e tutti i cattolici hanno l’obbligo di difendere il sacramento indissolubile del matrimonio. Noi dobbiamo batterci, con estrema risolutezza contro qualsiasi ingerenza dello Stato nel matrimonio cattolico. Il suo eventuale scioglimento non può essere che competenza esclusiva della Chiesa». E poco più avanti ecco alcune affermazioni che oggi suonano come una terribile profezia: «La gestione del potere da parte di certi cattolici non vuol dire che sono salvaguardati i valori della società cristiana. La gestione degli interessi delle classi benestanti porta prima o poi tutto un popolo a prostituirsi alla loro etica, di cui il divorzio, l’infedeltà coniugale, la droga, l’aborto, la sopraffazione economica e politica del prossimo sono gli aspetti più qualificanti. Sarà quello il momento giusto in cui si dovrà proclamare senza indugi le nostre tesi. Ma non farti illusioni, prima che le masse si accorgano che abbiamo ragione scorrerà molto sangue e sia la degenerazione morale che quella politica arriveranno a livelli di incredibile bassezza».
Interpretazioni e censure
«Fu per far conoscere l’immagine vera del Priore – prosegue Mazzarelli – che nel 1976 organizzai un convegno su di lui a Pozzo della Chiana. E fu Padre Santilli, maestro di Don Milani in seminario e sempre suo grande amico, a suggerirmi di invitare Don Luigi Giussani. “Ma uno come Don Giussani”, gli dissi, “verrà mai in un buco come Pozzo della Chiana?”. “Per questa interpretazione di Don Milani, che è quella vera, corro”, fu la risposta che mi riferì Padre Santilli. Don Giussani venne, e svolse una relazione sul contesto sociale e politico di allora». Di quell’intervento sembra non essere rimasto nulla, a parte un breve resoconto su L’Osservatore Romano, secondo il quale Giussani indicò nel recupero del senso religioso e dell’autentico senso ecclesiale come liberazione di tutto l’uomo l’unica alternativa alla “persecuzione dell’umano”.
Quel convegno, in pratica, fu silenziato. «Era ormai in corso l’appropriazione del Priore di Barbiana da parte del PCI, sotto la regia di Michele Gesualdi, uno dei suoi alunni, che su questa operazione ha costruito la propria carriera politica (è stato tra l’altro due volte Presidente della Provincia di Firenze). È lui che ha il suo carteggio, che decide cosa viene pubblicato e cosa no» («se non ha distrutto o lasciato ai topi le casse di Barbiana», puntualizza Giorgio Pecorini in Don Milani! Chi era costui?, Baldini & Castoldi 1996).
È Gesualdi che oggi guida la Fondazione Don Lorenzo Milani, custode dell’ortodossia barbianese e della retorica a cui si abbeverano i Fioroni, i Veltroni e i Bertinotti. Ma Alessandro Mazzerelli prosegue indefesso la sua battaglia per un altro Don Milani: «”Tu non mi tradire, non mi tradire né ora né mai”, mi ripeteva negli ultimi tempi. A questo da quarant’anni sono rimasto fedele. Ho rinunciato a far carriera, non ho guadagnato nulla, ci ho sempre rimesso di tasca mia. O so’ grullo, o quel che dico è vero».
Don Lorenzo Milani: il comunismo e le altre profezie
di Alessandro Mazzerelli
CulturaCattolica.it, 17 giugno 2017
“Il comunismo è la mediazione e l’organizzazione politica di ogni male, al fine di consentire, ad una classe dirigente parassitaria e brutale, la gestione di ogni forma di potere sulle spalle degli ultimi”.
A decenni di distanza dalla pubblicazione, qualcuno, fra gli “intellettuali” comunisti che hanno strumentalizzato e tradito Don Lorenzo Milani, scopre la Profezia che riguarda la loro ideologia, che il Profeta, come è noto ai più seri ricercatori, decisamente avversava. Don Milani, che indubbiamente voleva bene agli ingenui operai e contadini comunisti, non per le loro idee, ma, da buon prete, come figli di Dio e suoi parrocchiani, giunse per gradi alla sbalorditiva Profezia sul comunismo, grazie, credo, all’esperienza degli anni trascorsi, alle polemiche sulla pubblicazione di Esperienze pastorali e a molte profonde ulteriori riflessioni. Qui ne ricordiamo qualcuna:
1949: “I comunisti ti hanno ingannato gli industriali ti hanno calpestato noi preti non abbiamo saputo fare” (Da una lettera del Profeta di Dio del 15 novembre 1949).
1950: “Poi venne il 18 aprile (1948 n.d.a.) il prete aprì gli occhi sul mondo e vide profilarsi vicina la minaccia dei nemici di Dio. Allora gridò forte come la mamma in difesa dei suoi pulcini, se li chiamò intorno, lì coprì delle sue ali. Anche il ricco ebbe paura, e aiutò il prete a salvare i suoi pulcini dai nemici di Dio. Così il grande male fu scongiurato e ognuno poté riprendere a sognare cose belle, vittorie sugli altri mali” (Don Milani in “Adesso”, 15 dicembre 1950).
1958: “E il comunismo, anche se dovesse avanzare (ma non avanzerebbe tanto quanto sta avanzando ora: di questo sono sicuro) avanzi pure, tanto la nostra forza interna sarebbe tale da divorarlo, digerirlo, ributtarlo fuori rifatto a nostro modo. Come facemmo qualche secolo fa con i barbari, né più né meno” (Don Milani a Don Piero).
1962: “Il mio classismo, ricordatevelo, è sempre un classismo di cultura. Io chiamo proletari quelli che non hanno istruzione e basta. Faccio soltanto questa questione: di chi non sa usare la parola, non sa intendere, non sa spiegarsi” (Don Lorenzo Milani a un Direttore Didattico, Firenze 31 gennaio 1962).
1965: “Domani sera grande cerimonia di solidarietà a Vicchio. Spero di riuscire a portarci molti preti, ma non sarà facile. Sarebbe un sistema semplicissimo per smontare la speculazione comunista… (Sull’obiezione di coscienza al servizio militare n.d.a.) E poi, replicando ad un articolo del giornalista Piero Magi, afferma: ‘Lei ha detto che la Curia mi ha vietato di partecipare al dibattito di Vicchio. Non è vero, la Curia lo ha vietato a tutti i sacerdoti. Un ordine telefonico che è stato un errore. Avremmo fatto blocco. Lo sa come li faccio stare i comunisti? Li faccio stare con il culo stretto’ (Dal Quotidiano “La Nazione” del 3 aprile 1965).
Ho già spiegato ed affermato in ben cinque libri, che Don Milani mi invitò – nell’estate del 1966 – ad andarlo urgentemente a trovare in Barbiana. Era corso poco tempo da quando i suoi “ragazzi”, partecipando al Congresso Provinciale fiorentino della Federazione Giovanile Socialista, avevano votato compatti per me, contribuendo in maniera determinante ad eleggermi Vice Segretario Provinciale, in contrapposizione al social comunista Valdo Spini che ottenne più voti. I “ragazzi” erano infatti tutti dalla mia parte nella corrente “autonomista” del Partito Socialista Italiano, “corrente” che si caratterizzava per la sua contrapposizione al “compromesso storico” e alla sopraffazione comunista negli Enti locali e nelle organizzazioni sindacali.
Don Milani, oltre ad essere contrario all’alleanza fra la “bestemmia” democratico “cristiana” (Per Lui, dire “democrazia cristiana”, era bestemmiare, sia per il simbolo, sia per l’appropriazione indebita della definizione “cristiana”: “Facciano, se vogliono, il Partito dei Battezzati e ne siano coerenti, te comunque se devi scrivere il nome di quel partito metti “cristiana” tra virgolette… E così ho sempre fatto…) e i comunisti, definita “compromesso storico”, era rimasto colpito dal Convegno di Prato dell’Associazione Giovanile “Forza del Popolo” che avevo fondato nel 1962. Nel 1964, nel corso del primo Convegno dell’Associazione, che si tenne presso la sede della Federazione Socialista di Prato, scatenai un putiferio che finì a gran caratteri su “L’Unità”, per aver denunciato, fra l’altro, le vere mire politiche dei partigiani comunisti e la loro responsabilità sulla strage delle foibe, con quarant’anni di anticipo su Giampaolo Pansa…
Don Milani, sin dall’inizio dell’incontro, mi sembrò ansioso di manifestare subito il desiderio di notificarmi il suo messaggio, inducendomi con curiose domande a dargli quelle risposte che andranno a costituire il sublime DECALOGO DI BARBIANA. Alcuni argomenti come quello su l’imperialismo – oggi leggi mondialismo – contrastabile soltanto con i “Ventimila Sammarini”, mi parvero quasi incredibili, anche mentre li annotavo sotto una sorta di dettatura. In questo contesto fu pronunciata anche la bellissima ed ineguagliabile definizione del comunismo: “Il comunismo è la mediazione e l’organizzazione politica di ogni male, al fine di consentire, ad una classe dirigente parassitaria e brutale, la gestione di ogni forma di potere sulle spalle degli ultimi”.
La conclusione dell’incontro fu clamorosa, il Profeta mi chiede per ben tre volte di non tradirlo, facendomi sbalordire ma anche impaurire. La sua era una sorta di testamento politico, al quale volle dare, come contropartita e concretezza alla fedeltà che mi era stata così fortemente richiesta, l’adesione di tutti i “suoi” “ragazzi” alla mia piccola organizzazione, la suddetta “Forza del Popolo”. Adesione che si concluse nel febbraio del 1967, “perché non tutti erano a Barbiana”, così mi venne scritto in una lettera.
Soltanto dopo la morte di Don Milani mi resi conto, con il passare del tempo, sia del gigantesco impianto profetico di cui avevo promesso di dare testimonianza, senza se e senza ma, sia della durissima battaglia che dovetti subito ingaggiare contro chi lo stava tradendo o lo aveva già volgarmente tradito. È stata una battaglia di mezzo secolo, e questo documento certifica che è in corso tutt’ora!!! È stata una pesantissima “croce”, che mi sono trascinato addosso fra debolezze e talvolta voglia di tradire la parola data, ma non mi sembra di aver tradito… e dalla fedeltà non ho certo tratto mai alcun vantaggio. Concludendo questa breve puntualizzazione, ringrazio innanzitutto la DIVINA PROVVIDENZA, che mi rende ancora capace di testimoniare la grandezza del Profeta. Ringrazio Padre Reginaldo Santilli, O.P., Vicario Episcopale per i Laici della Diocesi di Firenze e Direttore dell’Organo della Curia “L’Osservatore Toscano”, che mi fu di grandissimo aiuto e incoraggiamento e che certamente, insieme a Don Milani, da Lassù mi protegge. Voglio anche ringraziare Mons. Luigi Giussani, il celebre fondatore di “Comunione e Liberazione”, che dopo un incontro in Via Martinengo a Milano, sbalordito dalle Profezie milaniane, volle darmi una mano, venendo, il 2 giugno 1976, nel mio piccolo paese di origine, Pozzo della Chiana, frazione di Foiano della Chiana, provincia di Arezzo, ove – incredibile, ma vero – volle parlare alla pari con me in onore del Profeta e, ricordandosi della Profezia dei “Ventimila Sammarini”, che l’aveva particolarmente colpito, ebbe a dire: “Don Milani è stato un grande… Ha ragione! Ha proprio ragione! O “ventimila Sammarini” o la barbarie!”
Firenze, 21 giugno 2016
Alessandro Mazzerelli