Dio o gli idoli?

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Il libro di Daniele, opera di un dotto maestro della legge, scritto in Babilonia tra il 167 e il 164 avanti Cristo, si compone di due parti. La prima parte (cc. 1-6), una sezione narrativa secondo lo stile del midrash, vuole insegnare che quanti si mantengono fedeli a Dio, prevalendo sull’orgoglio, sulla superbia e sulla malvagità degli uomini, non sono mai abbandonati da Dio nell’ora della prova. Dio è il Signore della storia. Nulla sfugge al suo sguardo di Creatore, tutti gli eventi, positivi o negativi, sono utilizzati per i suoi progetti salvifici. Il capitolo 3° descrive un gesto d’idolatria: «Il re Nabucodònosor aveva fatto costruire una statua d’oro, alta sessanta cubiti e larga sei, e l’aveva fatta erigere nella pianura di Dura, nella provincia di Babilonia. Quindi il re Nabucodònosor aveva convocato i sàtrapi, i governatori, i prefetti…e tutte le alte autorità delle province, perché presenziassero all’inaugurazione della statua… Essi vennero all’inaugurazione della statua. Si disposero davanti alla statua fatta erigere dal re. Un banditore gridò ad alta voce: “Popoli, nazioni e lingue, a voi è rivolto questo proclama: Quando voi udrete il suono del corno, del flauto, della cetra, dell’arpicordo, del salterio, della zampogna, e d’ogni specie di strumenti musicali, vi prostrerete e adorerete la statua d’oro, che il re Nabucodonosor ha fatto innalzare. Chiunque non si prostrerà alla statua, in quel medesimo istante sarà gettato in mezzo a una fornace di fuoco ardente”. Perciò tutti i popoli, nazioni e lingue, in quell’istante che ebbero udito il suono… di ogni specie di strumenti musicali, si prostrarono e adorarono la statua d’oro» (Dn 3,1-7). Ecco, però, che giunge la grande prova.

Il re Nabucodònosor fa innalzare la grande statua di un dio, ma più probabilmente fa erigere la statua d’oro di se stesso divinizzato, e decreta che sia adorata. Gli strumenti musicali daranno il segnale della prostrazione. Il supplizio del fuoco è per quanti disobbediscono, ma a questa grande prova, i giovani giudei, ai quali il re aveva affidato gli affari della provincia di Babilonia, Sadràch, Mesàch e Abdènego, rispondono con la fedeltà al loro Dio: non si prostreranno davanti alla statua, saranno denunziati e compariranno dinanzi al re. Il re, incollerito, li redarguisce e chiude il suo discorso con una frase che è il momento culmine del dramma ma che contiene tutto il significato del racconto: “Qual Dio vi potrà liberare dalla mia mano?”. Nella loro eroica semplicità i tre giovani daranno una risposta che esprime la testimonianza e la lezione della loro fedeltà: «Re, noi non abbiamo bisogno di darti alcuna risposta in proposito; sappi però che il nostro Dio, che serviamo, può liberarci dalla fornace con il fuoco acceso e dalla tua mano, o re. Ma anche se non ci liberasse, sappi, o re, che noi non serviremo mai i tuoi dei e non adoreremo la statua d’oro che tu hai eretto» (Dn 3,16-17). La loro fedeltà genera il grande trionfo. Sono gettati nella fornace, il fuoco, che brucia quelli che lo avevano acceso e buttato dentro i tre giovani, non tocca affatto Sadràch, Mesàch e Abdènego, brucia soltanto le corde della violenza con cui essi sono legati; e in mezzo a loro appare l’angelo. Intanto i tre, a una sola voce, intonano il lungo cantico di lode, gloria e benedizione. Il re, stupito e commosso, sulle sue labbra fa risuonare, riecheggiando, l’antifona di benedizione dei tre: «Benedetto il Dio di Sadràch, Mesàch e Abdènego, il quale ha mandato il suo angelo e ha liberato i servi che hanno confidato in lui; hanno trasgredito il comando del re e hanno esposto i loro corpi per non servire e per non adorare alcun altro dio che il loro Dio» (3,95).

Al suono degli strumenti, per i gesti d’idolatria, fa da contrappunto il cantico nuovo di coloro che credono nell’unico Dio d’Israele. Nabucodònosor aveva già visto in sogno un’altra statua, con la testa d’oro, il petto e le braccia d’argento, il ventre e le cosce di bronzo, le gambe di ferro, e i piedi, parte di ferro e parte di creta, ma ecco che, mentre la vede, una pietra si stacca dal monte, colpisce la statua ai piedi e la fa crollare. A quel sogno del re, il profeta Daniele dà l’interpretazione: la statua d’oro è Nabucodònosor; le altre parti i regni che succederanno al suo; la pietra è il regno che sarà fondato da Dio, che annullerà gli altri regni e che durerà in eterno. I profeti tornano incessantemente a parlare dell’idolatria come l’infedeltà più assurda e più pericolosa, anche perché l’uomo è idolatra nel fondo del cuore e nel caos dei sensi. L’idolatria non è il peccato degli atei per i quali Dio non esiste, l’idolatria è il peccato di quei credenti che “adorano” le realtà create al posto di Dio. Giosuè, nel discorso all’assemblea di Sichem, torna con straordinaria insistenza sul culto agli idoli. Il dilemma acuto, pressante, drammatico e decisivo è questo: «Il Signore o gli idoli?» (cf Gs 25,14-24). Non pensiamo che quei tempi siano passati. La danza intorno al vitello d’oro è tentazione sempre in agguato, è immagine di un culto che va in cerca dell’autosoddisfacimento.

Ogni forma d’idolatria è offesa alla fede, all’intelligenza, alla dignità di Dio e dell’uomo. Il Dio di Cristo viene per spezzare i nostri idoli; quegli idoli personali o comunitari che l’uomo si trascina dietro e ai quali offre un culto come al vero Dio. Le false divinità o le “vane parvenze” – è questo il vero significato del termine “idolo”, dal greco eidolon – potrebbero essere anche le strutture esteriori che divengono ragioni d’essere uniche e predominanti, o se i segni esteriori, quali le immagini o i simboli, sono assolutizzati e confusi con la realtà che dovrebbero servire. Le tre tentazioni di Gesù sono la vittoria sull’idolatria. Prima di annunziare il Regno di Dio, egli prega e digiuna. Prima di entrare nella vita pubblica, va nel deserto. Prima d’immergersi nella folla, si chiude nella solitudine. Prima di andare in cerca degli uomini, va in cerca del volto del Padre che è il primo e assoluto dovere dell’uomo: cercare Dio, trovare Dio, aderire a Dio e abbandonarsi a Lui amandolo sopra ogni cosa. Gesù è tentato nel deserto della solitudine fatta preghiera. Egli è cosciente di essere Figlio di Dio e proprio su questo punta il demonio: se sei Figlio di Dio non puoi avere fame, non puoi essere debole e povero, privo di un pezzo di pane; non puoi essere persona senza importanza e senza incidenza non avendo su chi comandare per essere servito, non puoi non fare spettacolo per far vedere agli altri chi realmente sei. Insomma, piuttosto che adorare Dio e rendergli culto, s’inseguono idoli, non diversamente da come potrebbero fare i non credenti. In effetti, nelle tre tentazioni sataniche, Gesù non si è trovato di fronte alla scelta tra la gloria di Dio o il potere terreno. Satana lo istiga ad accumulare ricchezze o altro per metterli a servizio dell’annunzio evangelico. Lo spinge a raggiungere il potere con tutti i mezzi per poi servirsene a gloria di Dio. Gli suggerisce di fare spettacolo per attrarre gli altri verso Dio. In certo senso, Gesù e satana si appellano alla stessa Scrittura, ma con prospettive opposte.

Respingendo la tentazione, Gesù ci richiama ad adorare Dio e a Lui solo professare il vero culto. Gesù risponde come ogni uomo può e deve rispondere: che bisogna vivere del pane di Dio, che non è lecito tentare Dio, che bisogna servire solo Dio. Anche il culto può essere inquinato da strane forme d’idolatria mascherata da solennità. Si cede all’idolatria satanica ogniqualvolta nella divina Liturgia si ascolta la parola di Dio e poi, con la vita, si cantano le modulazioni del mondo lontano da Dio. Il cuore dell’uomo, per palpitare d’amore, non può appoggiarsi sulle “vane parvenze” ma soltanto sul Dio Uno e Trino, vivo e vero. Gesù, nostro unico Maestro e Signore, continua a istruirci che ogni gesto idolatrico è falso culto che distrugge la Libertà, la Verità, la Profezia e la Carità. Non possiamo rivolgerci a Cristo con le parole di satana: “Se tu sei il Figlio di Dio…”, ma con la professione di fede di Pietro: “Tu sei il Cristo, Figlio del Dio vivo!”. Allora saremo avvolti dall’amore del Padre che, nel Figlio, ci dirà: tu sei mio figlio, io ti ho amato d’amore eterno.

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