Quid est veritas

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Ponzio Pilato è sempre stato figura emblematica dell’interrogativo: “Quid est veritas?” – Che cos’è la verità?

Tra crepuscolo e aurora, dove speranze e attese si mescolano a timori e inquietudini, l’umanità sta vivendo e soffrendo la trasformazione all’interno di una crisi dagli aspetti positivi e negativi. Nei tempi recenti le grandi trasformazioni sociali ed economiche, strutturali e tecnologiche hanno mutato la faccia del mondo. Purtroppo, si rimane sconvolti quando si costata che sugli aspetti positivi sembrano prevalere quelli negativi: confusioni, incertezze, guerre d’ogni genere, pettegolezzi, maldicenze, giustizialismi, eleganti massacri di fredde vendette rivestite di “legalità”. Tutte queste amare realtà sembrano prevalere sulla fiducia nel mistero dell’Incarnazione, ma, senza dubbio alcuno, si tratta soltanto di “questioni cronologiche”.

E’ ovvia constatazione che il nostro tempo abbia smarrito o rifiutato le perenni certezze che l’intelligenza e la fede, attraverso secoli di variegate tradizioni e culture diverse, avevano tramandato come valori perenni e universali cui fare riferimento sia nei rapporti interpersonali, che in quelli tra comunità e generazioni.

Guardando il futuro, timori e inquietudini rimangono vivi perché le culture, sostituendosi a quelle del passato, tentano di proporre nuove ipotesi con strane logiche infarcite talvolta  d’ingarbugliate problematiche e d’ interrogativi inquietanti senza vere risposte.

“Quid est veritas?”, si chiede il Pilato di tutti i tempi avvolto nella sua noia esistenziale, confuso da un’intelligenza snervata dallo scetticismo, ipotecato da un agire politico opportunista, inaridito da un’appiattita coscienza abituata al potere logoro e stanco.

“Quid est veritas?”, si domanda l’uomo imbrattato dal relativismo sempre più angusto e contraddittorio, sempre più rozzo e banale sino a sprofondare talvolta nei bassifondi della stupidità o nel disgusto angoscioso della tragicità.

“Quid est veritas?”. In questa noiosa e gelida atmosfera, le falsificazioni e le manipolazioni diventano sempre più strumenti di menzogna e di distruzione. Senza dare adeguate risposte, come Pilato, si mente a se stessi continuando a chiedersi: “Che cosa è la verità?”.

Intanto, col pretesto di una sorta di “ragion di stato”, si eliminano i fratelli scomodi, si creano focolai di violenze e di menzogne istituzionalizzate, il “vitello d’oro” va in cerca di “capri espiatori” per nascondere delitti e giustificare vendette, si crea perfino una sorta di strategia dell’impostura, messa in atto con gusto perverso e degradante. Non si sa con quale tipo di coscienza s’inventino calunnie, si ridicolizzi, si disprezzi, si usi violenza sia fisica sia psicologica; tutto poi giustificato dalla perfida volontà di “purificare la razza” con i forni crematoi delle vili condanne senza prove e dell’annientamento della dignità di tante persone. Tutto ciò somiglia alla cosiddetta “cultura mafiosa” che ha le sue regole di “appartenenza”. Le frasi tipiche sono: “Difendi il tuo col torto o col dritto”, oppure “chi non è con noi è contro di noi”. E allora il “campiere”, servo del “padrone lontano”, gestisce il feudo e diventa dominatore della gente.

Si grida, allora, alla “coscienza”. “La coscienza? – fa dire Pirandello a Tito Lenzi – Ma la coscienza non serve, caro signore! La coscienza, come guida, non può bastare. Basterebbe forse, se fosse castello, non piazza, per così dire; se noi già potessimo riuscire a concepirci isolatamente ed essa non fosse per sua natura aperta agli altri”.

S’invoca poi la “fede”. La fede? Essa appare come uno dei tanti lanternini che colorano la vita, filosofeggiava Pirandello per bocca del signor Anselmo; la fede serve soltanto a fare apparire ancora più grande e disumano l’inganno di noi stessi e della nostra fantomatica vita.

Si chiede infine la “giustizia”.  Quale giustizia? Gesù, dissuadendoci dal compiere la “giustizia” al modo dei farisei, ci esorta a tenerci lontani da quel tipo d’amore fatto d’ipocrisie, d’interessi, d’insensibilità e di formalismi.

Ricordiamo la scena in cui Cristo e i moralisti del suo tempo, dinanzi all’adultera si muovano in conformità al principio della loro morale. I moralisti, da parte loro, vogliono sopprimere la vita per amore di un principio assoluto e astratto. Il Maestro Gesù, invece, ridona vigore alla insufficienza di vita per amore della stessa vita. Si notano, allora, due differenti punti di vista. Il primo, quello farisaico, impostato e orientato da principi assoluti tendenti alla loro fedele attuazione: modelli comportamentali precostituiti, costumi ancestrali, precettistiche varie, codici di leggi, ordo romanus, american o russian way of life… Il secondo, quello evangelico, sganciato da modelli, ideologie e  principi assoluti, è mosso da un senso più deciso di fronte alle singole e concrete manifestazioni della vita. L’uno è ripetizione d’osservanza della legge, l’altro è anticipazione creativa dell’attesa di Cristo che viene. Ogni gesto di giustizia senz’amore è fabbrica di falsità farisaica: falsi credenti che si ritengono giusti, con pietre in mano, pronti a scagliarle contro il prossimo, chiaramente, “per adempiere la legge”.

“Quid est veritas?”. Si può conoscere la verità soltanto se si vive la fede in pienezza di carità. Senza carità, si brancola nel regno della menzogna che è il regno di satana e dei suoi collaboratori-alleati. La vera carità non si dà pace finché l’equilibrio della fraternità non è restaurato. Ciò che frantuma la fraternità umana, nello stesso tempo distrugge la figliolanza divina. Per questo bisogna liberarsi dai malefici ciarpami feticistici, dall’egoistico edonismo senza speranza, dalla schifosa arroganza della “falsificazione” come strumento di potere e di comando. Per far questo bisogna uscire da se stessi e scoprire il punto d’appoggio aldilà dei campi umani. Ciò si ottiene soltanto attraverso la Rivelazione della Verità che supera i limiti individuali e “tradizionali” e diventa vera perché garantita e testimoniata dal Verbum Veritatis che è il Figlio di Dio, Cristo Gesù, Via, Veritas et Vita. Allora, la nostra verità in Cristo si farà carità, che è sorgente di pace, di concordia e di felicità. E la fede – non quella fragile e retorica ricamata nel sentimentalismo di un’ascetica impersonale e scostante, superficiale e riluttante – troverà pienezza di significato e vitalità, riscattando tutta la vita di tutti.

“Quid est veritas?”. Alla domanda di Pilato segue un tragico e inquietante silenzio. Silenzio, degenerato in losco mutismo, che diventerà condanna a morte di Colui che è la Verità! Il crepuscolo della Passione e Morte, però, non è fine a se stesso perché esplode nel grido dell’Aurora pasquale. La Risurrezione di Gesù è la vittoria della Verità sulla menzogna, dell’Amore sulla morte, della Glorificazione sull’umiliazione. Cristo è risorto per la costruzione della nostra fede, per l’edificazione della nostra speranza, per la nostra conformazione alla sua divinità umanizzata e perciò dell’umanità divinizzata. La Verità risorta ci precede in quella glorificazione per cui siamo stati creati e della quale portiamo l’inguaribile attesa.

“Quid est veritas?”. Con l’Incarnazione del Verbum Veritatis, Dio infrange le nostre “certezze” e i nostri “assoluti” e, indicandoci la perfezione, ci esorta a vivere, all’interno della nostra storia personale e comunitaria, con lo spirito spoglio da tutte le sovrastrutture della potenza umana per essere attenti al mistero dell’esistenza con la vera Carità dell’umile Verità, superando la separazione tra il dominio della ricerca razionale e quello dell’intelletto del cuore.

La Verità è discesa dal cielo sulla terra, il cielo non è più separato dalla terra, il cuore dell’uomo diventa dimora dello Spirito e lì dove c’è lo Spirito vibra in perfetta consonanza la Verità nella Carità. Se nella Verità ci fosse anche un solo elemento capace di produrre disgregazione, divisione e lotta, tutto andrebbe in rovina. Le parziali e anguste verità degli uomini, che poi non sono altro che personali punti di vista, non potranno mai presentare il volto della suprema Verità.

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